Questo 6 settembre di sciopero generale è stata una giornata importante, che può segnare davvero un cambio di passo nella politica italiana. Per diversi motivi.
Innanzitutto perché i numeri di adesione nelle fabbriche e, in generale, nei luoghi di lavoro, non sono stati ordinari: una media nazionale intorno al 60%. Scorrendo le cifre, settore per settore, regione per regione, si ha la percezione di un quadro omogeneo, con moltissime fabbriche chiuse e un’adesione straordinaria soprattutto nei territori dove peggiore è la crisi e più alto è stato in tutti questi mesi il ricorso alla cassa integrazione.
A questo dato si sono accompagnati cortei e manifestazioni in tutte le principali città italiane. Manifestazioni affollatissime e – questo è il dato che più deve fare riflettere – traboccanti di giovani. Non soltanto i classici lavoratori sindacalizzati, i pensionati della Cgil, ma anche decine di migliaia di nuovi proletari, studenti, lavoratori precari, disoccupati, giovani migranti: donne e uomini che stanno scoprendo che il conflitto e la politica sono le uniche armi di cui possono disporre per cambiare la propria condizione materiale e che sempre più stanno costruendo una coscienza collettiva che può cambiare il corso degli eventi.
Rifondazione comunista, la Federazione della Sinistra e, in particolare, i Giovani comunisti sono in campo. Lo si vede nelle bandiere, negli spezzoni, nel frenetico lavoro di queste ore che si legge in rete così come nelle decine di migliaia di volantini e fogli di lotta stampati e distribuiti.
Sento che siamo parte di una consapevolezza di popolo straordinariamente maggiore anche rispetto a solo uno o due anni fa. C’è la consapevolezza che questo governo è indecente, violentemente padronale e che nella crisi del capitalismo europeo sta giocando al massacro con i lavoratori e i più deboli, tagliando diritti, contratti, stipendi e risparmi e difendendo come al solito, con le unghie e con i denti, i più ricchi e gli evasori. C’è la consapevolezza che, sulla testa di tutti noi, è in scena una tragedia che ha il suo centro nelle scelte della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale, e che fino a che non si scardina quel modello e quel sistema – che è lo stesso, è bene ricordarlo, che produce guerre a ripetizione – nessun Paese, da solo, può salvarsi.
E c’è soprattutto la consapevolezza che, di fronte a tutto questo, è possibile tornare in piazza e costruire un’alternativa. Come in Spagna, come in Grecia, come in Cile.
Qui in Italia sono ore importanti. Molto probabilmente il governo riuscirà a portare al Senato il testo definitivo della manovra, renderlo inemendabile e porre su di esso la fiducia. E molto probabilmente il testo, nella sua versione definitiva, conterrà ancora anche quell’odioso articolo 8 che determina la possibilità delle deroghe alle leggi e ai contratti nazionali e quindi anche la libertà per le imprese di licenziare senza giusta causa.
A questo, anche a questo, si può rispondere in modi diversi.
Si può rispondere balbettando, come fa un Partito democratico diviso tra chi è sceso in piazza e chi rivendica orgogliosamente di essere rimasto a casa.
O si può rispondere investendo tutto, strategicamente, sulla crescita e sulla lievitazione del conflitto.
Per farlo è urgente ridiscutere le pratiche di lotta, moltiplicando le iniziative, occupando in maniera permanente le strade, le piazze, i luoghi del potere, i luoghi di un’informazione mai così di regime come in queste settimane. È urgente, in altre parole, che questo 6 settembre diventi l’alba di un giorno lunghissimo che decideremo di concludere soltanto quando avremo portato a casa delle vittorie.
Se scegliamo questa strada dobbiamo essere consapevoli che l’indignazione morale va trasformata in impegno diretto, quotidiano, in una mobilitazione permanente, perché ci stiamo giocando tutto e chi è dall’altra parte non è disposto a cedere nessuno dei privilegi e delle posizioni di rendita di cui si è impossessato.
Se scegliamo questa strada serve una cosa, che fino a qui è mancata: che tutti coloro i quali ci credono lavorino insieme in questa direzione. Molto dipenderà dalla Cgil, è evidente. Il più grande soggetto di massa nel nostro Paese è di fronte al nostro stesso bivio. Nel suo caso si tratta di scegliere se riprendere la strada del 28 giugno e del patto sociale con il governo e Confindustria, oppure se proseguire quella che ha intrapreso in queste ultime settimane con la convocazione (tempestiva e determinante) dello sciopero generale.
Ma molto dipenderà anche da noi. Alcune date di mobilitazione sono già state definite: la mobilitazione studentesca del 7 ottobre, la giornata internazionale del 15 ottobre, rilanciata in Italia da diverse sigle e da numerosi appelli. Si tratta di fare vivere il conflitto anche in tutti gli altri giorni, moltiplicando e territorializzando i momenti di lotta e di vertenza. Facendo in modo che tutti siano intrecciati tra loro, abbiano un senso complessivo, che vivano dentro un’unica grande stagione di riscatto del nostro Paese e quindi dentro il processo di costruzione di un’unica grande alternativa di sinistra.
L’anomalia di questa Italia è che manca una sinistra politica forte e unita che dia sponda alle tante soggettività insorgenti. E che manca, tra queste stesse soggettività di movimento, la volontà di riconoscersi come parte di un tutto – unito – che guarda a quello che accade fuori dai nostri confini in un unico progetto globale di trasformazione.
Ma l’unità, come ci insegnano le esperienze di questi mesi, o si costruisce nelle lotte e sui contenuti reali oppure è una finzione inutile.
Un motivo in più per continuare, da giovani e da comunisti, a lottare.