“Sono molti decenni, a partire dal lontano, ma non troppo,1968, che ci si interroga sul rapporto tra posizioni comuniste e movimenti di massa”.
Comunisti e movimenti
Sono molti decenni, a partire dal lontano, ma non troppo,1968, che ci si interroga sul rapporto tra posizioni comuniste e movimenti di massa. Ora che la situazione politica e soprattutto sociale si sta di nuovo mettendo in movimento sotto l’incalzare della crisi, bisognerà ritornarci sopra. Non per riaprire polemiche di vecchio tipo tra gruppi concorrenti che si contendono il primato ‘rivoluzionario’, ma per orientarsi dentro una situazione che, come nel passato, rischia di riprodurre una sostanziale subalternità verso il sistema politico e di mantenere gli equivoci di sempre.
Partiamo innanzitutto dalle due questioni di base. Una ha natura oggettiva ed è relativa all’offensiva scatenata negli anni ’80 nell’occidente capitalistico e in Europa in particolare che ha piegato la classe operaia coinvolgendola in grandi processi di ristrutturazione, di decentramento produttivo anche internazionale, di aumento massiccio della disoccupazione in interi settori della produzione e che si è conclusa con una sostanziale sconfitta dei lavoratori. A determinare questa sconfitta ha pesato il passaggio di intere organizzazioni sindacali e della sinistra, comunisti compresi, nella schiera del neoliberismo che chiedeva il blocco dei salari, la riduzione delle libertà sindacali, l’introduzione del precariato nelle sue varie forme, contratti a tempo determinato, interinali, a progetto ecc. Resistenza operaia c’è stata ma, mancando un tessuto organizzativo e politico che fosse all’altezza dello scontro, l’esito era scontato e le proteste sono servite, per un certo periodo, ad alimentare sia strumentalizzazioni elettoralistiche che un movimentismo che non ha mai assunto, per sua intrinseca debolezza, un ruolo di opposizione forte e credibile. Tra la forza dell’attacco neoliberista e la debolezza della risposta, la situazione non poteva che essere caratterizzata da una stagnazione che sostanzialmente è arrivata fino all’erompere della crisi odierna.
Nelle vicende di questi decenni, peraltro, quelli che si presentavano come comunisti hanno imboccato per lo più una deriva collaborazionista col centro sinistra o, in misura molto minore, hanno portato le loro bandierine alla coda dei cortei senza sortire effetti.
Ora che la crisi morde duramente, è naturale che ci sia una ripresa delle lotte. Però nella stragrande maggioranza cambiano i soggetti. Il pubblico impiego e i servizi, che sono stati i protagonisti per molto tempo dell’autonomismo sindacale, sono defilati perchè temono il peggio e non hanno il coraggio di dare segnali forti. Le fabbriche sono piegate dalle chiusure e dai licenziamenti e trascinano le loro proteste senza riuscire ad imporre soluzioni adeguate. Il rischio è che in questo contesto prevalgano tesi movimentiste che trovano la loro deriva in forme di azione che non sono in grado di costruire quel tipo di resistenza che metta gli avversari con le spalle al muro. A onor del vero in questi ultimi tempi ci sono stati gli esempi del NO-TAV e del NO-MUOS che hanno superato i limiti che caratterizzavano le azioni del movimento e questo è accaduto perchè, riflettendoci bene, ambedue le lotte hanno avuto un riscontro nel tessuto sociale che le ha generate. E questo ha prodotto anche la capacità di resistenza.
Qualcuno è portato a dire che per sciogliere i nodi ci vuole un partito dei comunisti, cioè una organizzazione di classe che sia capace di legarsi alle contraddizioni emergenti, di consolidarle in forti momenti di scontro e di orientarle politicamente contro un sistema che si barcamena tra il berlusconismo e la fedeltà alla troika europea.
Un partito comunista però che sia in grado di fare un simile passaggio non è però all’orizzonte, né si può inventare a tavolino. Come sempre è stato nella storia del movimento comunista – quello rivoluzionario e non nella versione elettoralistica e neoriformista – è dentro la realtà che può nascere l’organizzazione dei comunisti e si può uscire dal falso dilemma ideologismo e movimentismo.
Noi ci abbiamo provato a partire dagli anni settanta, ma le gravi vicende sfociate nella controrivoluzione dell’89 e gli inevitabili passaggi di casacca ci hanno bloccato. Adesso però la situazione ripropone il problema che ci ponemmo allora.
Erregi
3 novembre 2013