Il movimento dei Forconi ha spaventato la sinistra borghese e ha messo in difficoltà i dogmatici. I comunisti possono e devono da subito promuovere l’egemonia della classe operaia nella lotta di tutte le classi delle masse popolari per sfuggire alla catastrofe e fare dell’Italia un nuovo paese socialista.
Avviso ai naviganti 36
29 dicembre 2013
I comunisti, il Movimento dei Forconi, la sinistra borghese e i dogmatici
Il movimento dei Forconi ha spaventato la sinistra borghese e ha messo in difficoltà i dogmatici
I comunisti possono e devono da subito promuovere l’egemonia della classe operaia nella lotta di tutte le classi delle masse popolari per sfuggire alla catastrofe e fare dell’Italia un nuovo paese socialista
Come ha giustamente fatto osservare Resistenza, il foglio mensile del Partito dei CARC, in un articolo del numero di gennaio appena comparso da cui qui largamente e liberamente attingiamo, tra i molti effetti positivi del Movimento dei Forconi (Coordinamento 9 Dicembre) non ultimo vi è quello di aver indotto a discutere di linea, e forse anche a riflettere, una serie di organismi che sono o almeno vorrebbero essere e comunque si presentano come promotori della mobilitazione delle masse popolari contro l’attuale corso delle cose imposto nel nostro paese dai vertici della Repubblica Pontificia e a livello mondiale dalla Comunità Internazionale dei gruppi imperialisti europei, americani e sionisti.
È utile andare a fondo del dibattito iniziato perché esso riguarda la lotta che noi comunisti conduciamo per assumere la direzione della classe operaia, il ruolo della mobilitazione dei lavoratori autonomi nella costruzione della rivoluzione socialista (nella guerra popolare rivoluzionaria che è la forma della rivoluzione socialista) e la linea che i comunisti devono seguire in proposito.
Nel nostro paese i lavoratori autonomi sono all’incirca un quarto degli adulti che formano le masse popolari, intendendo per masse popolari (come indicato nel Manifesto Programma del nuovo PCI, pag. 166-171) quella parte della popolazione che riesce a vivere solo se riesce a lavorare. È la parte che la crisi generale del capitalismo sempre più nettamente distingue dalle classi che compongono il campo della borghesia imperialista. Sono quindi una parte considerevole della popolazione e nel nostro paese (come in paesi con una analoga composizione di classe) lo sviluppo della rivoluzione socialista comporta di necessità il loro coinvolgimento. Il procedere della crisi generale del capitalismo colpisce con forza i lavoratori autonomi e crea le condizioni per la loro partecipazione alla rivoluzione socialista. Per la posizione che gli operai (intesi come i lavoratori delle aziende capitaliste) occupano nella società attuale, la classe operaia può e deve essere la classe dirigente della rivoluzione socialista e quindi noi comunisti dobbiamo promuovere l’egemonia della classe operaia anche sui lavoratori autonomi e in generale sulle classi non proletarie delle masse popolari. Per noi comunisti queste sono verità acquisite e basilari. Il problema che si pone nel dibattito in corso è come il Partito comunista, che ancora non dirige la classe operaia (questo è nel nostro paese il limite non ancora superato della rinascita del movimento comunista), deve operare per promuovere l’egemonia della classe operaia sul resto delle masse popolari, sui lavoratori autonomi nel caso concreto di cui ci occupiamo.
Il primo punto su cui dobbiamo insistere e portare chiarezza nel dibattito in corso è la natura dei lavoratori autonomi nella società attuale.
I dogmatici li chiamano “piccola borghesia” e nei libri di Marx ed Engels, che descrivono la società borghese quando era ancora nella fase della sua formazione e della sua crescita, hanno letto che la piccola borghesia è una classe in disfacimento: una classe formata da individui che aspirano a far parte della borghesia mentre la maggior parte di essi è ridotta dallo sviluppo del capitalismo (dalla sussunzione crescente delle attività produttive nell’economia capitalista) alla condizione di proletari. Questa condizione di classe che sta dividendosi in una piccola parte che riesce ad accumulare capitale ed entra a far parte della borghesia e una massa che finisce nel proletariato, anche nel nostro paese oggi è praticamente del tutto scomparsa. La società borghese non è più in ascesa, ma in disgregazione; l’economia reale capitalista non si espande, ma è soffocata dal capitale finanziario. I lavoratori autonomi subiscono anch’essi, a loro modo, le conseguenze di questo corso delle cose. Per capire in quale modo essi le subiscono, bisogna però rifarsi non alla piccola borghesia della società borghese in espansione, ma ai lavoratori autonomi della società borghese giunta al massimo della sua espansione (al massimo della sussunzione delle attività produttive nell’economia capitalista).
Da tempo i lavoratori autonomi sono figure ausiliarie e complementari dell’economia capitalista: lavoratori che l’economia capitalista relega a compiere alcuni lavori ad essa necessari che per vari motivi l’azienda capitalista non assume direttamente in proprio. I lavoratori autonomi sono oramai appendici delle aziende capitaliste e quanto queste appendici sono estese, dipende dalle convenienze delle aziende capitaliste.
Che la cultura borghese li presenti come lavoratori autonomi dal capitale, è un fatto. Ma la realtà e l’immagine che ne dà la cultura borghese sono a volte cose diverse e noi comunisti dobbiamo non essere mai succubi della cultura borghese. Un fatto ben più solido dell’immagine data dalla cultura borghese è che i lavoratori autonomi di fatto dipendono strettamente dall’economia capitalista, vivono ai suoi margini, di quello che l’economia capitalista lascia loro, di quello che ognuno di essi riesce a prenderle (e questa è una delle fonti dell’individualismo che li caratterizza: non hanno un contratto collettivo di lavoro). Ne dipendono direttamente nel senso che lavorano per le aziende capitaliste e sono queste che forniscono loro i mezzi di produzione ed elaborano la tecnologia del loro mestiere. Ne dipendono indirettamente nel duplice senso 1. che è lo Stato della borghesia imperialista che stabilisce le regole e le condizioni del loro lavoro e le imposte che devono pagare quelli di loro che non riescono, ognuno a suo modo, ad evaderle; 2. che i loro clienti, quando non sono direttamente le aziende capitaliste, dipendono da queste per il loro potere d’acquisto, quindi per gli ordinativi che passano ai lavoratori autonomi. Questo stato delle cose ognuno lo può facilmente constatare considerando i tipi di lavoratori autonomi a portata di mano: il camionista, l’allevatore, il coltivatore, il bottegaio e altri.
I lavoratori autonomi in realtà dipendono dal capitalista, ma hanno con il capitalista e con il suo Stato una relazione formale (contrattuale e legislativa) sostanzialmente diversa da quella che hanno gli operai e i dipendenti pubblici. Quando gli affari gli vanno bene, il lavoratore autonomo spesso guarda con commiserazione e perfino disprezzo il lavoratore dipendente che si accontenta del prezzo che il capitalista o la Pubblica Amministrazione gli pagano per la sua prestazione. Quando gli affari gli vanno male, il lavoratore autonomo spesso considera i lavoratori dipendenti dei privilegiati se non anche dei parassiti, perché “comunque” hanno un reddito “garantito” (finché non sono licenziati o ridotti ad ammortizzatori sociali: contratto di solidarietà, CIG, ecc.). Nella Repubblica Pontificia i lavoratori autonomi sono stati terreno di pascolo e riserva della DC e dei partiti di governo e la borghesia e il clero hanno coltivato tra loro tutti gli opposti pregiudizi.
Gli economisti della sinistra borghese dicono (e forse credono) che la fonte della crisi attuale sta nella politica della spesa pubblica e nella politica fiscale delle autorità (mentre in realtà sta nell’impossibilità di realizzare una massa di profitto adeguata all’enorme quantità di capitale accumulato – Avviso ai naviganti 35). Per chi è imbevuto delle loro infondate concezioni, è naturale pensare che l’aumento degli investimenti pubblici e in generale della spesa pubblica (“una politica keynesiana”) è la via maestra per uscire dalla crisi. Risultato: i lavoratori dipendenti (operai, dipendenti pubblici, proletari) dovrebbero reclamare l’aumento della spesa pubblica mentre i lavoratori autonomi reclamano la riduzione delle tasse. Questa “politica di uscita dalla crisi” è talmente inconsistente che, esponendola, si avvertono le crepe logiche del ragionamento: ma è tuttavia questo ragionamento pieno di crepe che sta nelle teste di quelli che proclamano che la crisi in corso crea una contrapposizione di interessi tra proletari e lavoratori autonomi, per cui i lavoratori autonomi sarebbero “naturale” riserva di caccia della destra borghese e dei promotori delle prove di fascismo.
In realtà la crisi generale del capitalismo in corso travolge i proletari, ma travolge e soffoca anche i lavoratori autonomi da mille lati (ordinativi, tariffe, imposte e tasse, regolamenti, ecc.) mentre anch’essi sono esclusi dai profitti e dai privilegi del capitale finanziario. Quindi il malcontento e la ribellione si estenderanno tra le loro file. I promotori delle prove di fascismo possono certamente avvalersi e si avvarranno dei pregiudizi individualistici, antiimmigrati, particolaristi, campanilistici e antiproletari (contro gli operai e contro i dipendenti pubblici) che la Repubblica Pontificia ha alimentato tra i lavoratori autonomi. Essi cercano e cercheranno di prendere tra i lavoratori autonomi il posto che fu della DC, come già a loro modo lo hanno fatto la Lega Nord e la banda Berlusconi. Ma la realtà dei fatti e l’esperienza pratica contrappongono i lavoratori autonomi al capitale finanziario (che distrugge l’economia reale capitalista ai cui margini essi vivevano) e al suo Stato (che aumenta imposte e tariffe e restringe da mille lati i margini della loro attività).
Chi confonde il processo che oggi vivono nel nostro paese e negli altri paesi imperialisti i lavoratori autonomi e in generale le classi popolari non proletarie, con quelle della piccola borghesia dell’epoca in cui la società borghese era ancora in formazione e in ascesa, è completamente fuori strada. Legge libri e si nutre di letteratura, invece che guardarsi attorno e studiare le relazioni produttive e le altre relazioni sociali in cui è immerso.
Il secondo punto su cui dobbiamo insistere e portare chiarezza nel dibattito in corso è l’antifascismo padronale, cioè l’antifascismo della sinistra borghese, che cerca di inquinare e soffocare l’antifascismo popolare. La sinistra borghese ha completamente accettato che la Repubblica Pontificia mantenesse nello Stato, nella società civile e nell’economia i fascisti e i loro eredi ai posti e nelle funzioni che avevano occupato durante il regime fascista. Ha anche direttamente riabilitato valori, cultura, miti, procedure e figure del fascismo. Ha fatto proprie le procedure criminali del fascismo contro le masse popolari (Lampedusa e gli altri campi di concentramento per immigrati ne sono una chiara dimostrazione) e ha calpestato le prescrizioni popolari e antifasciste della stessa Costituzione del 1948. Ha ridotto a vuoto e ipocrita cerimoniale le cerimonie, le ricorrenze, le celebrazioni, le canzoni e le memorie della lotta contro il fascismo e della Resistenza. L’antifascismo della sinistra borghese è un suo “fondo di commercio”: strumento per accalappiare voti e procurarsi militanza gratuita.
Di fronte alla ribellione dei lavoratori autonomi la sinistra borghese ha gridato e grida al pericolo fascista perché è spiazzata: il suo terreno tradizionale di pascolo, che ha ereditato dalla corruzione e dissoluzione del movimento comunista e dall’opera disgregatrice dei revisionisti moderni (da Togliatti a Berlinguer, a Occhetto, a Bertinotti, a Napolitano), è costituito dai lavoratori dipendenti (operai e dipendenti pubblici in primo luogo). I lavoratori autonomi erano un terreno di pascolo che la DC aveva lasciato in eredità alla Lega Nord e alla banda Berlusconi. Ora la sinistra borghese se li trova nelle piazze e nelle strade a protestare contro il governo del PD, il partito della destra moderata di cui la sinistra borghese si sente orfana e tradita. Per di più i promotori delle prove di fascismo, gli scimmiottatori attuali del vecchio fascismo e gli eredi dichiarati delle sue fantasticherie intellettuali, cercano di presentarsi come portavoce delle proteste dei lavoratori autonomi. Ovvio che la sinistra borghese grida al pericolo fascista. Ma l’antifascismo padronale è una parodia dell’antifascismo popolare e un insulto alla Resistenza. Esso tiene corda ai promotori della mobilitazione reazionaria delle masse popolari: Violante e Napolitano sono andati da sempre a braccetto con Berlusconi dietro le quinte del teatrino della politica borghese. L’antifascismo popolare è fatto di valori e di lotta contro i padroni e i loro servi, di mobilitazione delle classi e dei gruppi oppressi contro la borghesia imperialista e il clero. L’antifascismo popolare ha alla sua testa i comunisti e i lavoratori avanzati. L’antifascismo popolare ha al suo centro la lotta per instaurare il socialismo. La sinistra borghese sfrutta la presenza di scimmiottatori del vecchio fascismo, dei promotori criminali (ma politicamente impotenti) delle prove di fascismo, per mantenere la sua direzione sulla classe operaia e il resto del proletariato, il “fondo di commercio” con cui fa valere il suo interessi presso la borghesia imperialista e la Corte Pontificia. Ma il procedere della crisi condanna la sinistra borghese al fallimento. Noi dobbiamo combattere e combattiamo i promotori delle prove di fascismo per le loro azioni criminali, ma non li temiamo: essi sono politicamente impotenti. Le manovre della borghesia imperialista e della Corte Pontificia per guadagnare tempo sono politicamente gestite dal PD (la destra moderata responsabile dei CIE e di Lampedusa) e dalla sinistra borghese e, in collaborazione con loro, dalla banda Berlusconi.
Chi confonde il processo che oggi vivono nel nostro paese e negli altri paesi imperialisti i lavoratori autonomi travolti dalla crisi generale del capitalismo, con la condizione della piccola borghesia urbana reduce dalla prima Guerra Mondiale, è ancora più fuori strada. Per ignoranza o interesse concepisce e descrive il fascismo come regime della piccola borghesia, mentre il fascismo è stato il regime terroristico messo in opera dalla borghesia imperialista per stroncare il movimento comunista. Nel secolo scorso in Europa e in particolare nel nostro paese la borghesia imperialista, la Corte Pontificia e la Corte dei Savoia si sono serviti della piccola borghesia urbana reduce dalla prima Guerra Mondiale per costituire le loro forze terroristiche, sfruttando l’incapacità del vecchio Partito socialista e anche del Partito comunista d’Italia (PCd’I), formatosi solo nel 1921 sulla scia della Rivoluzione d’Ottobre e della prima Internazionale Comunista, di dare una soluzione ai problemi che in quel periodo schiacciavano la piccola borghesia. Lo stesso PCd’I fu però incapace anche di guidare gli operai e gli altri proletari a dare soluzione ai problemi che li schiacciavano. La capacità della classe operaia di dare soluzione ai propri problemi e la sua egemonia sulle altre classi delle masse popolari sono infatti due facce della stessa medaglia.
L’incapacità dell’eroico primo Partito comunista del nostro paese di guidare la classe operaia a prendere la direzione di tutte le masse popolari contro la borghesia imperialista e le Corti Pontificia e dei Savoia era dovuta ai limiti propri nella comprensione delle condizioni, delle forme e dei risultati della lotta di classe che il movimento comunista dell’epoca non seppe superare. Nella sua Relazione al IV congresso dell’Internazionale Comunista, l’ultimo a cui partecipò, nel novembre 1922, quindi dopo la Marcia su Roma e la formazione del primo governo Mussolini, Lenin disse: “… per noi tutti, tanto per i compagni russi che per i compagni stranieri, l’essenziale è questo: dopo cinque anni di rivoluzione russa, dobbiamo studiare [e nonostante la morte di Lenin i compagni russi, guidati da Stalin, studiarono con profitto e per più di trent’anni l’URSS svolse il suo ruolo di base rossa della rivoluzione proletaria mondiale]. … I compagni stranieri devono digerire un bel pezzo di esperienza russa. Come questo avverrà non lo so. Forse i fascisti in Italia, per esempio, ci renderanno grandi servizi mostrando agli italiani che non sono ancora abbastanza istruiti, che il loro paese non è ancora garantito contro i centoneri [la mobilitazione reazionaria delle masse popolari]. Forse questo sarà molto utile. [I compagni stranieri] devono studiare … per comprendere veramente l’organizzazione, la struttura, il metodo e il contenuto del lavoro rivoluzionario. Se questo sarà fatto, sono convinto che le prospettive della rivoluzione mondiale saranno non soltanto buone, ma eccellenti”.
E negli anni trenta Gramsci, oramai tagliato fuori dalla direzione del Partito e chiuso nel carcere fascista, già nei Quaderni del Carcere pur con i limiti imposti dalla censura fascista scriverà: “Trascurare e peggio disprezzare i movimenti cosiddetti “spontanei”, cioè rinunciare a dar loro una direzione consapevole, ad elevarli a un piano superiore inserendoli nella politica, può avere spesso conseguenze molto gravi” (Quaderno 3 § 48).
I comunisti oggi hanno capito i limiti che impedirono all’eroico primo Partito comunista di svolgere il suo compito e ne hanno tratto le dovute lezioni. Infatti oggi i comunisti sono marxisti-leninisti-maoisti e non solo marxisti-leninisti e la loro strategia è la Guerra Popolare Rivoluzionaria di lunga durata.
Il terzo punto su cui dobbiamo insistere e portare chiarezza nel dibattito in corso è il dogmatismo che si oppone all’egemonia della classe operaia tra le masse popolari, nel migliore dei casi rimandandola al futuro. Tra le varie voci che si sono levate contro il nostro intervento nel Movimento dei Forconi, l’esposizione più esemplare del dogmatismo antioperaio è stata data dal PCL Toscana, nel suo comunicato di critica della linea seguita dal Partito dei CARC. Concentriamo quindi l’esame su questo comunicato perché contiene gli elementi che si ripresentano, in varie combinazioni, in tutte le altre prese di posizione ispirate dal dogmatismo. E perché ogni lettore riscontri che non abbiamo travisato in modo malevolo la concezione esposta dal PCL, riportiamo integralmente in Appendice il testo del comunicato del PCL Toscana.
Si tratta di una concezione della situazione e della lotta politica del tutto sbagliata, scolastica e dogmatica, che prescinde dalla crisi generale in corso e non trae alcun insegnamento dalla prima ondata della rivoluzione proletaria.
Infatti un aspetto a prima vista strano, ma in realtà molto significativo della sua concezione idealista (basata cioè su idee e pregiudizi anziché sull’esame della situazione concreta), è che PCL Toscana tratta dell’attività del Partito dei CARC senza neanche accennare alla crisi generale in corso. Le tesi che espone, potrebbe averle esposte anche venti, trenta o cinquant’anni fa.
Secondo il PCL Toscana la piccola borghesia si divide (oggi, ieri e forse anche domani) in due parti: una parte sfruttatrice e parassitaria che è per sua natura reazionaria e una parte impoverita e non sfruttatrice e questa seconda parte è la base sociale naturale della prima. Perché? Lo sa dio!
Secondo il PCL Toscana esistono due tipi di egemonia: l’egemonia come relazione all’interno di ogni classe (chi sono i gruppi dirigenti della classe) e l’egemonia come relazione tra classi. Sbaglierebbe il Partito dei CARC che concepisce l’egemonia anche come direzione che un organismo politico di una classe (della classe operaia) esercita su un’altra classe (i lavoratori autonomi). Il PCL Toscana a sua volta dice e ridice che i dirigenti della borghesia (“i liberali di sinistra”) e i populisti (“i dirigenti della piccola borghesia”) dirigono o almeno influenzano, direttamente o indirettamente (tramite “riformisti, stalinisti, centristi”), il proletariato. Ma ciò che riesce agli organismi politici della borghesia e della piccola borghesia, non sarebbe possibile agli organismi politici del proletariato. Perché loro no e gli altri sì? Lo sa dio!
Il PCL dichiara di essere seguace del leninismo, ma in realtà si oppone, in questo come in altri campi, all’insegnamento dato da Lenin già nel Che fare? (1902): il partito comunista doveva inviare propri distaccamenti in ogni classe della società per far valere, nel modo adeguato a ogni singola classe, gli interessi del proletariato. Il PCL si conferma anche in questo campo seguace del trotzkismo che si opponeva alla direzione del proletariato nella rivoluzione democratica dei contadini in Russia e nella rivoluzione antifeudale e antimperialista dei popoli delle colonie.
La conclusione del PCL Toscana è che oggi i comunisti dovrebbero limitarsi a cercare di prendere la direzione del proletariato (lanciando tra i proletari le quattro parole d’ordine: sciopero generale a oltranza, espropriazione delle banche e delle industrie, governo dei lavoratori, Stati Uniti Socialisti d’Europa). Solo quando avrà fatto proprie queste quattro parole d’ordine, solo allora il proletariato potrà esercitare la sua egemonia sulla “parte impoverita e non sfruttatrice della piccola borghesia”. Un gruppo che non ha ancora conquistato la direzione del proletariato, se partecipa alla lotta politica non può che subire l’influenza delle altre classi (della borghesia e della piccola borghesia) e rafforzare la loro egemonia sul proletariato. Oggi non ci sarebbe niente da fare, perché “i marxisti rivoluzionari” (cioè il PCL) “sono in ritardo” e “nel proletariato prevale la passività”. Quindi non bisogna condurre la lotta sul terreno politico, ma solo sul terreno economico (rivendicativo, sindacale) e teorico (della propaganda, del lancio di parole d’ordine che prima o poi gli operai assimileranno). Ma “se la situazione precipiterà, i Partiti marxisti dovranno riunire un Comitato di intesa per la costituzione dei nuovi Arditi del Popolo a direzione centralizzata”. Evitiamo di fare dell’ironia sulla conclusione (speriamo che i “marxisti rivoluzionari” non siano ancora in ritardo …) e lasciamo la critica di essa a ognuno dei nostri lettori.
La base di fondo della posizione dei dogmatici è che la rivoluzione socialista non è un processo che i comunisti costruiscono passo dopo passo, una guerra. La rivoluzione socialista scoppia. Finché non succede, non c’è che appoggiare la lotta economica del proletariato (le rivendicazioni) e fare propaganda, preparandosi a prendere la direzione del proletariato quando la rivoluzione socialista scoppierà. Quanto alle classi non proletarie delle masse popolari, non c’è che lasciare campo libero alla mobilitazione reazionaria.
In realtà nella crisi generale del capitalismo la borghesia imperialista per prolungare la propria esistenza deve spogliare non solo il proletariato, ma anche i lavoratori autonomi e perfino quei capitalisti che per una ragione o l’altra non godono dei benefici e dei profitti del capitale finanziario. Il compito dei comunisti e degli elementi avanzati delle masse popolari, in primo luogo degli operai avanzati (perché gli operai sono in condizioni più favorevoli all’azione politica di quanto lo siano le altre classi delle masse popolari), è moltiplicare le Organizzazioni Operaie e Popolari, orientarle a coordinarsi e costituire un proprio governo d’emergenza che prenda il posto dei governi emanazione dei vertici della Repubblica Pontificia e della Comunità Internazionale dei gruppi imperialisti europei, americani e sionisti. Tutti i movimenti rivendicativi e di protesta, di ogni gruppo sociale malcontento perché i suoi interessi sono calpestati dal capitale finanziario, oggi noi comunisti possiamo e dobbiamo indirizzarli alla creazione delle condizioni per la costituzione del Governo di Blocco Popolare.
Appendice
Il Movimento 9 Dicembre, la posizione dei CARC e i compiti dei rivoluzionari
Comunicato del PCL Toscana – 18 dicembre 2013 – Testo diffuso via Facebook
L’analisi e la conseguente tattica del Partito dei CARC relativamente al populismo reazionario – prima del Movimento 5 Stelle e oggi del Movimento 9 dicembre e Movimento dei forconi – riflette la profondità della disgregazione materiale della classe lavoratrice e dimostra un fatto ricorrente: chi non forgia le proprie armi battendo e ribattendo il ferro caldo del marxismo rivoluzionario, quando la Storia curva a gomito, inevitabilmente va a sbattere.
I CARC non sono quei sindacalisti rivoluzionari (revisionismo di sinistra) che aderirono al diciannovismo mussoliniano, i CARC sono antifascisti. Ma concepiscono la questione dell’egemonia in termini distorti, in termini volontaristici; il maoismo italiano è stata una forma storicamente determinata di volontarismo e il maoismo italiano è una delle fonti ideologiche dei CARC. Essi si inseriscono nelle mobilitazioni di questi giorni allo scopo di contendere ai reazionari l’egemonia sulla piccola borghesia impoverita, perché essi si illudono di poter strappare ai reazionari la loro base sociale naturale. Per i CARC l’egemonia non è una relazione di classe e di conseguenza coltivano la velleità che un gruppo politico proletario, ma che non dirige il proletariato, nemmeno parzialmente, possa assumere la direzione di un’altra classe, la piccola borghesia. Solo il proletariato può dirigere la parte impoverita degli ordini sociali medi e spingerli sulla strada della rivoluzione, ma il proletariato può svolgere la sua funzione dirigente sulle altre classi solo sviluppando la propria coscienza di classe rivoluzionaria. Nella situazione attuale la passività della classe lavoratrice lascia l’iniziativa politica alla piccola borghesia e i CARC che ricercano la direzione della mobilitazione piccolo borghese senza dirigere la classe lavoratrice, si pongono oggettivamente a rimorchio di una dinamica reazionaria.
L’egemonia è la direzione morale (modo di vivere, valori), intellettuale (concezione del mondo) e politica (strategia e tattica). L’egemonia è una relazione all’interno delle classi sociali e tra le classi sociali. La classe sociale economicamente e politicamente dominante, oggi la borghesia, seleziona costantemente i propri dirigenti e questi costantemente ricercano la direzione sulle classi sociali subalterne. Tutta la storia delle classi subalterne è la storia della ricerca e selezione dei propri gruppi dirigenti e quando questi gruppi si formano iniziano a subire l’egemonia o la pressione del tentativo egemonico dei dirigenti della classe dominante. E’ in questa complessità di relazioni dinamiche che i gruppi dirigenti delle classi subalterne si compongono e si scompongono costantemente. I dirigenti delle classi dominate che subiscono e cedono alle pressioni egemoniche della classe dominante, divengono dirigenti disorganici e devono essere sostituiti. Sono organici i dirigenti che rappresentano l’interesse immediato e storico della propria classe. La borghesia riesce stabilmente a esprimere dirigenti organici, naturali, mentre il proletariato è costantemente indebolito e diviso dalla lotta tra i suoi dirigenti organici e quelli disorganici. I marxisti rivoluzionari rappresentano l’interesse immediato e storico della classe salariata, sono i dirigenti organici. Oggi i marxisti rivoluzionari rappresentano la classe salariata solo oggettivamente, ne rappresentano, in ogni situazione data, l’interesse immediato e storico, ma non dirigono la classe. Tutta la nostra lotta è la lotta per la direzione della classe e questa lotta passa attraverso la distruzione delle attuali direzioni disorganiche (riformisti, stalinisti, centristi) e questa lotta consiste nel portare la coscienza socialista dall’esterno, nell’elevare la coscienza della situazione oggettiva. Senza dirigere la nostra classe, non potremo avere alcuna influenza sulla parte impoverita e non sfruttatrice della piccola borghesia. Perché è solo il proletariato rivoluzionario che può dirigere la parte povera della piccola borghesia. Un gruppo politico che non dirige il proletariato, nulla può sulle altre classi, se non subirne l’influenza. Nelle fasi storiche, come quella attuale, in cui prevale la passività generale della classe lavoratrice, la parte povera e non sfruttatrice della piccola borghesia si muove sotto la direzione della parte sfruttatrice e parassitaria che è per sua natura reazionaria, e resta reazionaria anche sotto la pressione del proletariato rivoluzionario; più sarà forte questa pressione più la forma della sua reazione tenderà al fascismo, ma più sarà forte questa pressione più sarà isolata, separata dagli strati inferiori della piccola borghesia verso i quali avranno presa le nostre rivendicazioni transitorie.
Nella situazione attuale dell’Europa mediterranea, la passività o combattività parziale della classe lavoratrice costituisce la condizione in cui la piccola borghesia mantiene la direzione sui propri strati inferiori ed esercita un’influenza crescente su ampi strati di salariati.
Nella società borghese, la stratificazione politica delle classi subalterne è un fatto costante. Oggi, la classe salariata è diretta in parte dagli opportunisti (riformisti, stalinisti, centristi), in parte dai liberali di sinistra e in parte crescente dai populisti reazionari. Gli opportunisti sono dirigenti operai borghesi, sotto influenza della borghesia o della piccola borghesia. I liberali di sinistra sono i dirigenti diretti della borghesia. I populisti sono i dirigenti della piccola borghesia.
Lo sciopero generale a oltranza, le espropriazioni delle banche e delle industrie, il governo dei lavoratori, gli Stati Uniti Socialisti d’Europa, sono le parole d’ordine, gli strumenti fondamentali attraverso cui i marxisti rivoluzionari attaccano le posizioni delle attuali direzioni dei lavoratori.
Il Movimento 9 dicembre accelera i tempi di questa guerra di posizione con un’offensiva rapida e concentrata della piccola borghesia per la direzione su lavoratori e disoccupati. Nuove corporazioni conflittuali di agricoltori, allevatori, artigiani, commercianti e autotrasportatori, nate dalla crisi di rappresentatività delle tradizionali associazioni di categoria, hanno fatto irruzione nella crisi italiana. Populisti, nazionalisti, regionalisti e fascisti si contendono l’egemonia di questa mobilitazione e al tempo stesso ricercano il consenso degli strati più confusi e disperati di lavoratori e disoccupati, da utilizzare come massa di manovra per i rispettivi progetti reazionari.
Il compito dei marxisti rivoluzionari è intensificare al massimo grado la propaganda delle rivendicazioni transitorie e dell’obbiettivo del governo dei lavoratori, ponendo al centro la parola d’ordine dell’Europa unita e socialista. Non si tratta di intervenire nelle piazze dei reazionari, ma nella classe. E’ necessario uno sforzo straordinario di propaganda nei luoghi di lavoro, di studio, nei quartieri, nelle manifestazioni sindacali e dei movimenti progressivi. Se la situazione precipiterà, i Partiti marxisti dovranno riunire un Comitato di intesa per la costituzione dei nuovi Arditi del Popolo a direzione centralizzata.