“Il San Valentino di Matteo Renzi …”

Con l’investitura di Matteo Renzi la crisi politica della Repubblica Pontificia fa un altro passo avanti, nonostante l’accordo che Renzi ha stipulato con Berlusconi e la sua banda.

 

Avviso ai naviganti 38

14 febbraio 2014

Nel 30° anniversario del San Valentino di Bettino Craxi
Il San Valentino di Matteo Renzi …

 

Con l’investitura di Matteo Renzi la crisi politica della Repubblica Pontificia fa un altro passo avanti, nonostante l’accordo che Renzi ha stipulato con Berlusconi e la sua banda. I paramenti parlamentari della democrazia borghese sono sempre più logori. Enrico Letta non ha superato l’anno, è durato persino meno di Mario Monti che di poco ma l’anno era riuscito a superarlo. I vertici della Repubblica Pontificia si affidano a un personaggio nuovo per il teatrino della politica borghese, ancora più esterno al Parlamento di quanto lo fosse Monti nominato senatore da Giorgio Napolitano.

Tra circa tre mesi le elezioni europee del 25 maggio con molta probabilità lasceranno senza copertura parlamentare anche le istituzioni dell’Unione Europea. La crisi investe in pieno le classi dominanti. Il loro dominio sempre meno può avvalersi delle apparenze dell’investitura popolare. Il tentativo della sinistra borghese di ritornare a galla e dare nuovo lustro alle istituzioni della Unione Europea candidando Alexis Tsipras finirà con tutta probabilità nel pantano e l’astensione e le liste antiUE marchieranno alla grande il nuovo Parlamento europeo come l’astensione e il M5S hanno marchiato il Parlamento della RP eletto nel febbraio del 2013.

Né in Italia né in Europa la borghesia e il clero riescono più a governare con le apparenze del consenso popolare. Quindi devono buttare a mare la democrazia borghese: infatti questa implica che i portavoce politici della classi dominanti riescano in un modo o nell’altro a catturare il consenso della massa della popolazione.

 

L’unica via d’uscita dalla crisi generale del capitalismo è la mobilitazione e l’organizzazione delle masse popolari per costituire un proprio governo d’emergenza. Il primo paese imperialista dove questo avverrà, aprirà la via e mostrerà la strada anche agli altri paesi. Per questo l’avvenire del nostro paese dipende da noi comunisti, da quanto noi siamo efficaci promotori della mobilitazione e dell’organizzazione delle masse popolari e quindi del consolidamento e del rafforzamento del nuovo Partito comunista fondato sul marxismo-leninismo-maoismo che è la forza motrice e la struttura portante della mobilitazione e organizzazione degli operai e del resto delle masse popolari.

Se noi lo siamo, anche il lavoro svolto nelle istituzioni della RP dal M5S di Beppe Grillo tornerà a vantaggio della nostra causa. Il sovvertimento che essi portano nelle istituzioni darà da mille lati forza al movimento che noi promuoviamo.

Se noi lo siamo, anche il lavoro svolto dai promotori di rivendicazioni e di proteste tornerà a vantaggio della nostra causa. Per questo sosteniamo e dobbiamo sostenere contro le autorità della Repubblica Pontificia Luca Faggiano, Paolo Di Vetta e gli altri esponenti e promotori dei movimenti di lotta, anche se il loro orizzonte è fermo alle rivendicazioni e alle proteste.

Le misure repressive lanciate dalle autorità della RP in questo periodo in ogni angolo del paese: a Roma, a Napoli, in Val di Susa, contro i militanti NO MUOS e contro esponenti del M9D, le condanne dei compagni incriminati per gli scontri dell’11 ottobre 2011 a Roma, i procedimenti contro Beppe Grillo: tutte queste misure repressive si ritorceranno contro i vertici della RP con forza tanto maggiore quanto più gli individui e gli organismi colpiti resisteranno e quanta maggiore sarà la solidarietà che riceveranno. Dobbiamo sostenere la loro resistenza, la loro disobbedienza alle restrizioni che le autorità impongono: Luca Faggiano e Paolo Di Vetta subiranno le imposizioni degli arresti domiciliari comminati dalle autorità della Repubblica Pontificia o disobbedendo le sfideranno a fare arresti veri o per sfuggire agli arresti domiciliari si rifugeranno in Santa Maria Maggiore, o in qualche altro pezzo del territorio dello Stato del Vaticano interdetto ai gendarmi della RP, come hanno fatto i Forconi martedì 11 febbraio, nell’85° anniversario della Conciliazione tra Pio XI e Benito Mussolini?

La resistenza alla repressione diviene una componente sempre più importante degli sforzi per mobilitare e organizzare le masse popolari.

 

Il fattore decisivo della forza e dei tempi di tutto questo vasto movimento di resistenza popolare è il consolidamento e il rafforzamento del Partito comunista. Il Partito comunista dà una prospettiva di nuovo ordinamento sociale, quindi un obiettivo positivo, a quello che altrimenti resta solo resistenza (quindi solo movimento di negazione senza alternativa  del dominio della borghesia e del clero) e quindi movimento che non è in grado di svilupparsi su grande scala.

Certamente la nostra è un’impresa difficile. Bisogna avanzare in un terreno inesplorato: la rivoluzione socialista in un paese imperialista, la guerra popolare rivoluzionaria in un paese imperialista fino a instaurare il socialismo, traendo insegnamenti dall’esperienza passata, flessibili nella tattica e fermi sulla strategia.

Per dare materia di riflessione ai compagni che hanno la forza e l’intelligenza per misurarsi oggi in questa impresa, proponiamo al loro studio il bilancio che Antonio Gramsci fece del 1926 della vita e dello sviluppo del Partito comunista di allora, subito dopo il suo III Congresso.

Già il solo esame di cosa è ancora oggi valido delle tesi esposte da Gramsci in questo bilancio, di cosa è oramai sorpassato dagli avvenimenti e di cosa era già sbagliato allora, permetterà a molti compagni di approfondire la loro comprensione della formazione economico-sociale che dobbiamo trasformare.

Antonio Gramsci non ebbe la possibilità di sviluppare nella pratica il programma che delinea nel suo bilancio, perché venne arrestato pochi mesi dopo (nel novembre 1926) dai fascisti che lo tennero in carcere fino alla morte. Ma anche nel carcere egli riuscì a continuare la riflessione che aveva iniziato, per dare al Partito la concezione comunista del mondo di cui il Partito aveva bisogno per rompere effettivamente sia con il riformismo elettoralista sia con il riformismo sindacalista e rivendicativo (che allora si chiamava massimalismo) e tracciare una vera strategia rivoluzionaria per gli operai e il resto delle masse popolari. Questa riflessione di Gramsci è esposta nei suoi Quaderni del carcere che la carovana del (n)PCI sta in vari modi portando all’attenzione dei compagni impegnati oggi nell’opera del consolidamento e rafforzamento del Partito.

 

Il testo che segue è tratto dall’antologia La costruzione del Partito comunista 1923-1926 (Edizione Einaudi, 1974). Le parti inserite tra parentesi quadre sono nostre.

 

 

… e l’insegnamento di Antonio Gramsci

 

 

Antonio Gramsci

Cinque anni di vita del partito

Pubblicato per la prima volta in l’Unità, 24 febbraio 1926

 

Resoconto dei lavori del III Congresso [Lione, 20-26 gennaio 1926]

Data la difficoltà di pubblicare immediatamente un resoconto giornalistico dei lavori del III Congresso del nostro partito, riteniamo per intanto opportuno di offrire ai compagni e alla massa dei lettori un esame e una informazione generale dei risultati del Congresso stesso. Ci affrettiamo comunque ad annunciare che prossimamente sarà pubblicato sul nostro giornale il resoconto materiale del Congresso e saranno successivamente riunite in un volume le deliberazioni e le tesi nel loro testo definitivo.

I risultati numerici dei voti al Congresso furono i seguenti: assenti e non consultati 18.9%; dei presenti al Congresso: voti per il Comitato centrale 90.8%; per l’estrema sinistra 9.2%.

Il nostro partito è nato nel gennaio 1921, cioè nel momento più critico sia della crisi generale della borghesia italiana, sia della crisi del movimento operaio. Ma la scissione, se era storicamente necessaria ed inevitabile, trovava però le grandi masse impreparate e riluttanti. In tale situazione l’organizzazione materiale del nuovo partito trovava le condizioni più difficili. Avvenne perciò che il lavoro puramente organizzativo, data la difficoltà delle condizioni in cui doveva svolgersi, assorbì le energie creatrici del partito in modo quasi completo.

I problemi politici che si ponevano, per la decomposizione da una parte del personale dei vecchi gruppi dirigenti borghesi, dall’altra per un processo analogo del movimento operaio, non poterono essere approfonditi sufficientemente. Tutta la linea politica del partito negli anni immediatamente successivi alla scissione fu in primo luogo condizionata da questa necessità: mantenere strette le file del partito, aggredito fisicamente dalla offensiva fascista da una parte e dai miasmi cadaverici della decomposizione socialista dall’altra.

Era naturale che in tali condizioni si sviluppassero nell’interno del nostro partito sentimenti e stati d’animo di carattere corporativo e settario. Il problema generale politico, inerente all’esistenza e allo sviluppo del partito non era visto nel senso di una attività per la quale il partito dovesse tendere a conquistare le più larghe masse e ad organizzare le forze sociali necessarie per sconfiggere la borghesia e conquistare il potere, ma era visto come il problema dell’esistenza stessa del partito.

 

La scissione di Livorno

Il fatto della scissione fu visto nel suo valore immediato e meccanico e noi commettemmo, sia pure in altro senso, lo stesso errore che era stato commesso da Serrati. Il compagno Lenin aveva dato la formula lapidaria del significato della scissione, in Italia, quando aveva detto al compagno Serrati: “Separatevi da Turati e poi fate l’alleanza con lui”.

Questa formula avrebbe dovuto essere da noi adattata alla scissione avvenuta in forma diversa da quella prevista da Lenin. Dovevamo cioè, come era indispensabile e storicamente necessario, separarci non solo dal riformismo, ma anche dal massimalismo che in realtà rappresentava e rappresenta l’opportunismo tipico italiano del movimento operaio; ma dopo di ciò e pur continuando la lotta ideologica e organizzativa contro di essi, cercare di fare una alleanza contro la reazione.

 Per gli elementi dirigenti del nostro partito, ogni azione dell’Internazionale, rivolta ad ottenere un riavvicinamento a questa linea, apparve come se fosse una sconfessione implicita della scissione di Livorno, come una manifestazione di pentimento.

Si disse che, accettando una tale impostazione della lotta politica, si veniva ad ammettere che il nostro partito era solamente una nebulosa indefinita, mentre era giusto ed era necessario affermare che il nostro partito, nascendo, aveva risolto definitivamente il problema della formazione storica del partito del proletariato italiano.

Questa opinione era rafforzata dalle non lontane esperienze della rivoluzione soviettista in Ungheria, dove la fusione tra comunisti e socialdemocratici fu certamente uno degli elementi che contribuirono alla disfatta.

 

La portata dell’esperienza ungherese

In realtà l’impostazione data a questo problema dal nostro partito era falsa e andò sempre più manifestandosi come tale alle larghe masse del partito. Proprio l’esperienza ungherese avrebbe dovuto convincerci che la linea seguita dall’Internazionale nella formazione dei partiti comunisti non era quella che noi le attribuivamo. È noto infatti che il compagno Lenin cercò di opporsi strenuamente alla fusione tra comunisti e socialdemocratici ungheresi, nonostante che questi ultimi si dichiarassero fautori della dittatura del proletariato. Si può dire perciò che il compagno Lenin fosse in generale contrario alle fusioni? Certamente no. Il problema era visto dal compagno Lenin e dall’Internazionale come un processo dialettico, attraverso il quale l’elemento comunista, cioè la parte più avanzata e cosciente del proletariato, si pone, sia nell’organizzazione del partito della classe operaia, sia nella funzione di direzione delle grandi masse, alla testa di tutto ciò che di onesto e attivo si è formato ed esiste nella classe.

In Ungheria è stato un errore distruggere l’organizzazione indipendente comunista nel momento della presa del potere, per dissolvere e diluire il raggruppamento costituito nella più vasta ed amorfa organizzazione socialdemocratica che non poteva non riprendere il predominio. Anche per l’Ungheria il compagno Lenin aveva formulato la linea del nostro vecchio partito come un’alleanza con la socialdemocrazia, non come una fusione. Alla fusione si sarebbe arrivati più tardi, quando il processo del predominio del raggruppamento comunista si fosse sviluppato sulla scala più larga nel campo dell’organizzazione di partito, dell’organizzazione sindacale e dell’apparato statale, cioè con la separazione organica e politica degli operai rivoluzionari dai capi opportunisti.

Per l’Italia il problema si poneva in termini ancora più semplici che in Ungheria, perché non solo il proletariato non aveva conquistato il potere, ma iniziava, proprio nel momento della formazione del partito, un grande movimento di ritirata. Porre in Italia la questione della formazione del partito, così com’era stato indicato dal compagno Lenin nella sua formula espressa a Serrati, significava – nell’arretramento del proletariato che si iniziava allora – dare la possibilità al nostro partito di raggruppare intorno a sé quegli elementi del proletariato che avrebbero voluto resistere, ma che sotto la direzione massimalista erano travolti nella rotta generale e cadevano progressivamente nella passività. Ciò significava che la tattica suggerita da Lenin e dall’Internazionale era l’unica capace di rafforzare e sviluppare i risultati della scissione di Livorno e di fare veramente del nostro partito, fin d’allora, non solo in astratto e come affermazione storica, ma in forma effettiva, il partito dirigente della classe operaia.

Per questa falsa impostazione del problema, noi ci siamo mantenuti sulle posizioni avanzate, da soli e con la frazione di masse immediatamente più vicina al partito, ma non abbiamo fatto quanto era necessario per mantenere sulle nostre posizioni il proletariato nel suo complesso, il quale tuttavia era ancora animato da un grande spirito di lotta, come è dimostrato da tanti episodi spesso eroici della resistenza opposta all’avanzata avversaria.

 

Il partito negli anni 1921-22

Un altro degli elementi di debolezza della nostra organizzazione è consistito nel fatto che tali problemi, data la difficoltà della situazione e dato che le forze del partito erano assorbite dalla lotta immediata per la propria difesa fisica, non divennero oggetto di discussione alla base e quindi elemento di sviluppo della capacità ideologica e politica del partito. Avvenne così che il I Congresso del partito, quello tenuto a Livorno [gennaio 1921] nel teatro San Marco subito dopo la scissione, si pose solo dei compiti di carattere organizzativo immediato: formazione degli organismi centrali e inquadramento generale del partito.

Il II Congresso [Roma, marzo 1922] avrebbe potuto e forse dovuto esaminare e impostare le suddette questioni, ma a ciò si opposero i seguenti elementi:

1. il fatto che non solo la massa, ma anche una grande parte degli elementi più responsabili e più vicini alla direzione del partito ignoravano letteralmente che esistessero divergenze profonde ed essenziali fra la linea seguita dal nostro partito e quella sostenuta dall’Internazionale;

2. l’essere il partito assorbito dalla lotta diretta fisica portava a sottovalutare le questioni ideologiche e politiche in confronto di quelle puramente organizzative. Era quindi naturale che sorgesse nel partito uno stato d’animo contrario a priori ad approfondire ogni questione che potesse prospettare pericoli di conflitti gravi nel gruppo dirigente costituitosi a Livorno;

3. il fatto che l’opposizione rivelatasi al Congresso di Roma e che diceva di essere la sola rappresentante delle direttive dell’Internazionale era, nella situazione data, un’espressione dello stato d’animo di stanchezza e di passività che esisteva in alcune zone del partito.

La crisi subita sia dalla classe dominante che dal proletariato nel periodo precedente l’avvento del fascismo al potere, pose nuovamente il nostro partito dinanzi ai problemi che il Congresso di Roma non aveva avuto la possibilità di risolvere.

 In che cosa consistette questa crisi? I gruppi di sinistra della borghesia, fautori a parole di un governo democratico che si proponesse di arginare energicamente il movimento fascista, avevano reso arbitro il Partito socialista di accettare o non accettare questa soluzione per liquidarlo politicamente sotto il cumulo della responsabilità di un mancato accordo antifascista. In questo modo di porre la questione da parte dei democratici era implicita la loro preventiva capitolazione dinanzi al movimento fascista, fenomeno che si riprodusse poi nella crisi Matteotti.

Tuttavia tale impostazione, se ebbe in un primo tempo il potere di determinare una chiarificazione nel Partito socialista, essendosi in base ad essa prodotta la scissione dei massimalisti dai riformisti, in definitiva aggravava però la situazione del proletariato.

Infatti la scissione rendeva infruttuosa la tattica proposta dai democratici, in quanto il governo di sinistra da questi prospettato doveva comprendere il Partito socialista unito, cioè significare la cattura della maggioranza della classe proletaria organizzata nell’ingranaggio dello Stato borghese, anticipando la legislazione fascista e rendendo politicamente inutile l’esperimento diretto fascista.

D’altronde la scissione, come apparve più chiaramente in seguito, solo macchinalmente aveva portato a uno sbalzo a sinistra dei massimalisti. Infatti questi, se affermavano di voler aderire all’Internazionale comunista e quindi di riconoscere l’errore commesso a Livorno, si muovevano però con tante riserve e reticenze mentali da neutralizzare il risveglio rivoluzionario che la scissione aveva determinato nelle masse, portandole così a nuove disillusioni e a una ricaduta di passività, di cui approfittò il fascismo per effettuare la marcia su Roma.

 

Il nuovo corso del partito

Questa nuova situazione si rifletté al IV Congresso dell’Internazionale comunista [novembre 1922], dove si arrivò alla formazione del comitato di fusione dopo incertezze e resistenze che erano legate alla persuasione radicata nella maggioranza dei delegati del nostro partito che lo spostamento dei massimalisti non rappresentava che una oscillazione transitoria e senza avvenire. In ogni modo è da questo momento che si inizia nell’interno del nostro partito un processo che prosegue incessantemente ed esce dal campo del fenomeno di gruppo per divenire proprio di tutto il partito, quando si avvertono e si sviluppano gli elementi della crisi del fascismo iniziatasi col Congresso di Torino del Partito popolare [il Congresso del Partito di don Sturzo, tenuto nell’aprile 1923, pur votando a maggioranza una soluzione “centrista”, aveva respinto il tentativo della destra di stabilire una collaborazione incondizionata con il governo fascista: per questo poco tempo dopo venne dissolto dal Vaticano].

Appare sempre più evidente che occorre far uscire il partito dalla posizione mantenuta nel 1921-22, se si vuole che il movimento comunista si sviluppi parallelamente alla crisi che subisce la classe dominante. La pregiudiziale che aveva avuto una così larga importanza nel passato, per la quale occorreva prima di tutto mantenere l’unità organizzativa del partito, veniva a cadere per il fatto che nella situazione di conflitto tra il nostro partito e l’Internazionale, si costituiva nelle nostre file uno stato di frazione latente che trovava la sua espressione in gruppi nettamente di destra, spesso con carattere nettamente liquidazionista.

Tardare ancora a porre in tutta la loro ampiezza le questioni fondamentali di tattica, sulle quali fino ad allora si era esitato ad aprire la discussione, avrebbe significato determinare una crisi generale del partito senza uscita. Avvennero così nuovi raggruppamenti che andarono sempre più sviluppandosi, fino alla vigilia del nostro III Congresso, quando fu possibile accertare che non solo la grande maggioranza alla base del partito (che non era stata mai apertamente interpellata), ma anche la maggioranza del vecchio gruppo dirigente si era staccata nettamente dalla concezione e dalla posizione politica di estrema sinistra, per portarsi completamente sul terreno dell’Internazionale e del leninismo.

 

L’importanza del III Congresso

Da ciò che è stato detto finora, appare chiaramente quanto fossero grandi l’importanza e i compiti del nostro III Congresso. Esso doveva chiudere tutta un’epoca della vita del nostro partito, ponendo termine alla crisi interna e determinando uno schieramento stabile di forze tale da permettere uno sviluppo normale della sua capacità di direzione politica delle masse da parte del partito e quindi della sua capacità d’azione.

Ha il Congresso effettivamente risolto questi compiti? Indubbiamente tutti i lavori del Congresso hanno dimostrato che, nonostante le difficoltà della situazione, il nostro partito è riuscito a risolvere la sua crisi di sviluppo, raggiungendo un livello di omogeneità, di compattezza e di stabilizzazione notevole e certamente superiore a quello di molte altre sezioni dell’Internazionale. L’intervento nelle discussioni di Congresso dei delegati di base, alcuni dei quali venuti dalle regioni dove più è difficile l’attività del partito, ha dimostrato come gli elementi fondamentali del dibattito, fra l’Internazionale e il Comitato centrale da una parte e l’opposizione dall’altra, siano stati non solo meccanicamente assorbiti dal partito, ma, avendo determinato una convinzione consapevole e diffusa, abbiano contribuito ad elevare, in misura impreveduta anche dagli stessi compagni più ottimisti, il tono della vita intellettuale della massa dei compagni e la loro capacità di direzione e di iniziativa politica. Questo ci pare il significato più rilevante del Congresso.

È risultato che il nostro partito non solo può dirsi di massa per l’influenza che esso esercita sui larghi strati della classe operaia e della massa contadina, ma perché ha acquistato nei singoli elementi che lo compongono una capacità di analisi delle situazioni, di iniziativa politica e di forza dirigente che nel passato gli mancavano e che sono la base della sua capacità di direzione collettiva. D’altronde tutto lo svolgimento dei lavori condotti alla base per organizzare ideologicamente e praticamente il Congresso nelle regioni e nelle province dove la repressione poliziesca vigila con maggiore intensità ogni movimento dei nostri compagni e il fatto che si sia riusciti per sette giorni a tenere uniti oltre sessanta compagni per il congresso del partito, e quasi altrettanti per il congresso giovanile, sono di per sé stessi una prova dello sviluppo più sopra accennato.

 È evidente per tutti che tutto questo movimento di compagni e di organizzazioni non è solamente un puro fatto organizzativo, ma costituisce di per sé un’altissima manifestazione di valore politico. Poche cifre in proposito. Sono state tenute nella prima fase della preparazione congressuale dalle due alle tre mila riunioni di base che hanno culminato in oltre un centinaio di congressi provinciali, ove furono scelti, dopo ampie discussioni, i delegati al Congresso.

 

Valore politico e risultati acquisiti

Ogni operaio è in grado di apprezzare tutto il significato di queste poche cifre che è possibile pubblicare, dopo cinque anni dall’epoca dell’occupazione delle fabbriche e tre anni di governo fascista che ha intensificato l’opera generale di controllo su ogni attività di massa e ha realizzato un’organizzazione di polizia che è grandemente superiore alle organizzazioni poliziesche precedentemente esistite.

Poiché la maggiore debolezza dell’organizzazione operaia tradizionale si manifestava essenzialmente nello squilibrio permanente e che diventava catastrofico nei momenti culminanti dell’attività di massa, tra la potenzialità dei quadri organizzativi di partito e la spinta spontanea dal basso, è evidente che il nostro partito è riuscito, nonostante le condizioni estremamente sfavorevoli dell’attuale periodo, a superare in misura notevole questa debolezza e a predisporre forze organizzative coordinate e centralizzate che assicurano la classe operaia contro gli errori e le insufficienze che si verificavano nel passato. È questo un altro dei significati più importanti del nostro Congresso: la classe operaia è capace di azione e dimostra di essere storicamente in grado di compiere la sua missione direttrice nella lotta anticapitalistica, nella misura in cui riesce ad esprimere dal suo seno tutti gli elementi tecnici che nella società moderna si dimostrano indispensabili per l’organizzazione concreta delle istituzioni in cui si realizzerà il programma proletario.

E da questo punto di vista occorre analizzare tutta l’attività del movimento fascista dal 1921 fino alle ultime leggi fascistissime: essa è stata sistematicamente rivolta a distruggere i quadri che il movimento proletario e rivoluzionario aveva faticosamente elaborato in quasi cinquant’anni di storia. In questo modo il fascismo riusciva nella praticità immediata a privare la classe operaia della sua autonomia e indipendenza politica e la costringeva o alla passività, cioè a una subordinazione inerte all’apparato statale, oppure, nei momenti di crisi politica, come nel periodo Matteotti, a ricercare quadri di lotta in altre classi meno esposte alla repressione.

Il nostro partito è rimasto il solo meccanismo che la classe operaia abbia a sua disposizione per selezionare nuovi quadri dirigenti di classe, cioè per riconquistare la sua indipendenza ed autonomia politica. Il Congresso ha dimostrato come il nostro partito sia riuscito brillantemente a risolvere questo compito essenziale. Due erano gli obiettivi fondamentali che dovevano essere raggiunti dal Congresso:

1. dopo le discussioni e i nuovi schieramenti di forze che si erano verificati così come abbiamo detto precedentemente, occorreva unificare il partito, sia nel terreno dei principi e della pratica di organizzazione che nel terreno più strettamente politico;

2. il Congresso era chiamato a stabilire la linea politica del partito per il prossimo avvenire e ad elaborare un programma di lavoro pratico in tutti i campi di attività delle masse.

I problemi che si ponevano per raggiungere concreti obiettivi non sono naturalmente indipendenti l’uno dall’altro, ma sono coordinati nel quadro della concezione generale del leninismo. La discussione del Congresso perciò, anche quando si svolgeva intorno agli aspetti tecnici di ogni singola questione pratica, poneva la questione generale dell’accettazione o meno del leninismo. Il Congresso doveva quindi servire a mettere in evidenza in quale misura il nostro partito era diventato un partito bolscevico.

 

Gli obiettivi fondamentali

Partendo da un apprezzamento storico e politico immediato della funzione della classe operaia nel nostro paese, il Congresso dette una soluzione a tutta una serie di problemi che possono raggrupparsi nei tre punti seguenti.

1. Rapporti fra il Comitato centrale del partito e la massa del partito.

a) In questo gruppo di problemi rientra la discussione generale sulla natura del partito, sulla necessità che esso sia un partito di classe, non solo astrattamente, cioè in quanto il programma accettato dai suoi membri esprime le aspirazioni del proletariato, ma, per così dire, fisiologicamente, in quanto cioè la grande maggioranza dei suoi componenti è formata di proletari e in esso si riflettono e si riassumono i bisogni e l’ideologia di una sola classe: il proletariato.

b) La subordinazione completa di tutte le energie del partito in tal modo socialmente unificato alla direzione del Comitato centrale. La lealtà di tutti gli elementi del partito verso il Comitato centrale deve diventare non solo un fatto organizzativo e disciplinare, ma un vero principio di etica rivoluzionaria. Occorre infondere nelle masse del partito una convinzione così radicata di questa necessità, che le iniziative frazionistiche e ogni tentativo in generale di disgregare la compagine del partito debbano trovare alla base una reazione spontanea e immediata che le soffochi sul nascere. L’autorità del Comitato centrale, tra un congresso e l’altro, non deve mai essere posta in discussione e il partito deve diventare un blocco omogeneo. Solo a tale condizione il partito sarà in grado di vincere i nemici di classe. Come potrebbe la massa dei senza-partito aver fiducia che lo strumento di lotta rivoluzionaria, il partito, riesca a condurre senza tentennamenti e senza oscillazioni la lotta implacabile per conquistare e mantenere il potere, se la Centrale del partito non ha la capacità e l’energia necessaria per eliminare tutte le debolezze che possono incrinare la sua compattezza?

I due punti precedenti sarebbero di impossibile realizzazione se, nel partito, alla omogeneità sociale e alla compattezza monolitica della organizzazione non si aggiungesse la coscienza diffusa di una omogeneità ideologica e politica.

 Concretamente la linea che il partito deve seguire può essere espressa in questa formula: il nucleo della organizzazione di partito consiste in un forte Comitato centrale, strettamente collegato con la base proletaria del partito stesso, sul terreno della ideologia e della tattica del marxismo e del leninismo.

Su questa serie di problemi la enorme maggioranza del Congresso si è nettamente pronunciata in senso favorevole alle tesi del Comitato centrale ed ha respinto non solo senza la minima concessione, ma anzi insistendo sulla necessità della intransigenza teorica e della inflessibilità pratica, le concezioni dell’opposizione che potrebbe mantenere il partito in uno stato di deliquescenza e di amorfismo politico e sociale.

2. Rapporti del partito con la classe proletaria (cioè con la classe di cui il partito è il diretto rappresentante, con la classe che ha il compito di dirigere la lotta anticapitalistica e di organizzare la nuova società).

In questo gruppo di problemi rientra l’apprezzamento della funzione del proletariato nella società italiana, cioè del grado di maturità di tale società a trasformarsi da capitalista in socialista e quindi delle possibilità per il proletariato di diventare classe indipendente e dominante. Il Congresso ha perciò discusso: a) la questione sindacale, che per noi è essenzialmente questione della organizzazione delle più larghe masse, come classe a sé stante, sulla base degli interessi economici immediati e come terreno di educazione politica rivoluzionaria; b) la questione del fronte unico, cioè dei rapporti di direzione politica fra la parte più avanzata del proletariato e le frazioni meno avanzate di esso.

3. Rapporti della classe proletaria nel suo complesso con le altre forze sociali che oggettivamente sono sul terreno anticapitalistico, quantunque siano dirette da partiti e gruppi politici legati alla borghesia; quindi in primo luogo i rapporti fra il proletariato e i contadini.

Anche su tutta quest’altra serie di problemi la enorme maggioranza del Congresso respinse le concezioni errate dell’opposizione e si schierò in favore delle soluzioni date dal Comitato centrale.

 

Come si sono schierate le forze del Congresso

Accennammo già all’atteggiamento che la stragrande maggioranza del Congresso ha assunto nei riguardi delle soluzioni da dare ai problemi essenziali nel periodo attuale. È opportuno però analizzare più dettagliatamente l’atteggiamento assunto dall’opposizione e accennare, sia pure brevemente, ad altri atteggiamenti che si sono presentati al Congresso come atteggiamenti individuali, ma che potrebbero nell’avvenire coincidere con determinati momenti transitori nello sviluppo della situazione italiana e che perciò devono essere fin da ora denunziati e combattuti.

Abbiamo già accennato nei primi paragrafi di questa esposizione ai modi e alle forme che hanno caratterizzato la crisi di sviluppo del nostro partito negli anni dal 1921 al 1924. Ricorderemo brevemente come al V Congresso mondiale [giugno 1924] la crisi stessa trovasse una soluzione provvisoria organizzativa con la costituzione di un Comitato centrale che nel suo complesso si poneva completamente sul terreno del leninismo e della tattica dell’Internazionale comunista, ma che si scomponeva in tre parti, di cui, una, che aveva la maggioranza più uno del comitato stesso, rappresentava gli elementi terzini [i membri del PSI che confluirono nel Partito comunista nel 1924], entrati nel partito dopo la fusione.

Nonostante le sue intrinseche debolezze, tuttavia per il fatto che la funzione dirigente nel suo seno era nettamente esercitata dal cosiddetto gruppo di centro, cioè dagli elementi di sinistra staccatisi dal gruppo dirigente di Livorno, il Comitato centrale riuscì ad impostare e a risolvere energicamente il problema della bolscevizzazione del partito e del suo accordo completo con le direttive dell’Internazionale comunista.

 

Atteggiamenti dell’estrema sinistra

Certamente vi furono delle resistenze e l’episodio culminante di esse, che tutti i compagni ricordano, fu la costituzione [da parte di Bordiga e dei suoi seguaci più ostinati] del Comitato d’intesa, cioè del tentativo di costituire una frazione organizzata che si contrapponesse al Comitato centrale nella direzione del partito. In realtà la costituzione del Comitato d’intesa fu il sintomo più rilevante della disgregazione dell’estrema sinistra, la quale, poiché sentiva di perdere progressivamente terreno nelle file del partito, cercò di galvanizzare con un atto clamoroso di ribellione le poche forze che ancora le rimanevano.

È notevole il fatto che dopo la sconfitta ideologica e politica subita dall’estrema sinistra già nel periodo precongressuale, il nucleo di essa più resistente sia andato assumendo posizioni sempre più settarie e di ostilità verso il partito dal quale si sentiva ogni giorno più lontano e staccato. Questi compagni non solo continuarono a mantenersi sul terreno della più strenua opposizione su determinati punti concreti della ideologia e della politica del partito e dell’Internazionale, ma cercarono sistematicamente motivi di opposizione su tutti i punti, in modo da presentarsi in blocco quasi come un partito nel partito.

È facile immaginare che, partendo da una tale posizione, si dovesse arrivare, durante lo svolgimento del Congresso, ad atteggiamenti teorici e pratici, nei quali la drammaticità, che era un riflesso della situazione generale in cui il partito deve muoversi, difficilmente era distinguibile da un certo istrionismo, che appariva di maniera a chi realmente aveva lottato e si era sacrificato per la classe proletaria.

In quest’ordine di avvenimenti deve essere posta, ad esempio, la pregiudiziale presentata dall’opposizione, subito alla apertura del Congresso, con la quale la validità deliberativa di esso veniva contestata, cercandosi in tal modo di precostituire un alibi per una possibile ripresa di attività frazionistica e per un possibile misconoscimento dell’autorità della nuova dirigenza del partito.

Alla massa dei congressisti, che conoscevano quali sacrifici e quali sforzi organizzativi fosse costata la preparazione del Congresso, questa pregiudiziale apparve una vera e propria provocazione e non è senza significato che gli unici applausi (il regolamento del Congresso proibiva per ragioni comprensibili ogni manifestazione clamorosa di consenso o di  biasimo) furono rivolti all’oratore che stigmatizzò l’atteggiamento assunto dall’opposizione e sostenne la necessità di rafforzare dimostrativamente il nuovo comitato da eleggersi con mandato specifico di implacabile rigore contro qualsiasi iniziativa che praticamente mettesse in dubbio l’autorità del Congresso e l’efficienza delle sue deliberazioni.

 

Affioramento di deviazioni di destra

Allo stesso ordine di avvenimenti, e in modo aggravato per la forma manierata e teatrale, appartiene anche l’atteggiamento assunto dall’opposizione, prima della fine del Congresso, quando si stavano per trarre le conclusioni politico-organizzative dei lavori del Congresso stesso. Ma gli stessi elementi dell’opposizione poterono avere la netta dimostrazione di quello che è lo stato d’animo diffuso nelle file del partito: il partito non intende permettere che si giochi più a lungo al frazionismo e all’indisciplina; il partito vuole realizzare il massimo di direzione collettiva e non permetterà a nessun singolo, qualunque sia il suo valore personale, di contrapporsi al partito.

Nelle sedute plenarie del Congresso l’opposizione di estrema sinistra è stata la sola opposizione ufficiale e dichiarata. L’atteggiamento di opposizione sulla questione sindacale assunto da due membri del vecchio Comitato centrale, per il suo carattere di improvvisazione e di impulsività è da considerarsi piuttosto come un fenomeno individuale di isterismo politico, che di opposizione in senso sistematico.

Durante i lavori della commissione politica invece ci fu una manifestazione che, se può ritenersi per adesso di carattere puramente individuale, deve essere considerata, dati gli elementi ideologici che ne formavano la base, come una vera e propria piattaforma di destra, che potrebbe essere presentata al partito in una situazione determinata e che perciò doveva essere, come fu, respinta senza esitazione, dato specialmente che di essa si era fatto portavoce un membro del vecchio Comitato centrale.

Questi elementi ideologici sono:

1. l’affermazione che il governo operaio e contadino può costituirsi sulla base del parlamento borghese;

2. l’affermazione che la socialdemocrazia non deve essere ritenuta come l’ala sinistra della borghesia, ma come l’ala destra del proletariato;

3. che nella valutazione dello Stato borghese occorre distinguere la funzione di oppressione di una classe sull’altra dalla funzione di produzione di determinate soddisfazioni a certe esigenze generali della società.

Il primo e il secondo di tali elementi sono contrari alle decisioni del III Congresso: il terzo è fuori dalla concezione marxista dello Stato. Tutti i tre insieme rivelano un orientamento a concepire la soluzione della crisi della società borghese all’infuori della rivoluzione.

 

La linea politica fissata dal partito

Poiché così si schierarono le forze rappresentate al Congresso, cioè come una più rigida opposizione dei residui dell'”estremismo” contro le posizioni teoriche e pratiche della maggioranza del partito, accenneremo rapidamente solo ad alcuni punti della linea stabilita dal Congresso.

Questione ideologica

Su tale questione il Congresso affermò la necessità che sia sviluppato dal partito tutto un lavoro di educazione che rafforzi la conoscenza della nostra dottrina marxista nelle file del partito e sviluppi la capacità del più largo strato dirigente. Su questo punto l’opposizione cercò di fare un’abile diversione: riesumò alcuni vecchi articoli e brani di articoli di compagni della maggioranza del partito per sostenere che essi solo relativamente tardi hanno accettato integralmente la concezione del materialismo storico quale risulta dalle opere di Marx e di Engels e sostenevano invece la interpretazione che del materialismo storico era data da Benedetto Croce. Poiché è noto che anche le tesi di Roma sono state giudicate come essenzialmente ispirate dalla filosofia crociana, questa argomentazione dell’opposizione apparve come ispirata a pura demagogia congressuale.

In ogni caso, poiché la questione non è di individui singoli, ma di masse, la linea stabilita dal Congresso, della necessità di un lavoro specifico di educazione per elevare il livello della cultura generale marxista del partito, riduce la polemica dell’opposizione a una esercitazione erudita di ricerca di elementi biografici più o meno interessanti sullo sviluppo intellettuale di singoli compagni.

Tattica del partito

Il Congresso ha approvato e ha difeso energicamente contro gli attacchi dell’opposizione la tattica seguita dal partito nell’ultimo periodo della storia italiana caratterizzato dalla crisi Matteotti. Occorre dire che l’opposizione non ha cercato di contrapporre all’analisi che della situazione italiana è stata fatta dalla Centrale nelle tesi per il Congresso né un’altra analisi che portasse a stabilire una linea tattica diversa, né delle correzioni parziali che giustificassero una posizione di principio.

È stato caratteristico anzi della falsa posizione della estrema sinistra il fatto che mai le sue osservazioni e le sue critiche si siano basate su un esame né approfondito e neanche superficiale dei rapporti di forza e delle condizioni generali esistenti nella società italiana. Risultò così chiaramente come il metodo proprio dell’estrema sinistra, e che l’estrema sinistra dice essere dialettico, non è il metodo della dialettica materialistica proprio di Marx, ma il vecchio metodo della dialettica concettuale proprio della filosofia premarxista e persino prehegeliana.

All’analisi oggettiva delle forze in lotta e della direzione che esse assumono contraddittoriamente in rapporto allo sviluppo delle forze materiali della società, l’opposizione sostituiva l’affermazione di essere in possesso di uno speciale e misterioso “fiuto” secondo il quale il partito dovrebbe essere diretto. Strana aberrazione che autorizzava il Congresso a giudicare estremamente pericoloso e deleterio per il partito un tale metodo che porterebbe solo a una politica di improvvisazione e di avventure.

 Che d’altronde l’opposizione non abbia mai posseduto un proprio metodo capace di sviluppare le forze del partito e le energie rivoluzionarie del proletariato che possa essere contrapposto al metodo marxista-leninista, è dimostrato dall’attività svolta dal partito negli anni 1921-22, quando era politicamente diretto da alcuni degli attuali irriducibili oppositori.

A questo proposito furono dal Congresso analizzati due momenti della situazione italiana e cioè l’atteggiamento assunto dalla direzione del partito nel febbraio 1921, quando fu sferrata l’offensiva frontale dal fascismo in Toscana e in Puglia e l’atteggiamento della stessa direzione verso il movimento degli arditi del popolo. Dall’analisi di questi due momenti risultò come il metodo affermato dall’opposizione porti solo alla passività e all’inazione e consista in ultima analisi semplicemente nel trarre dagli avvenimenti ormai svoltisi senza l’intervento del partito nel suo complesso, degli insegnamenti di solo carattere pedagogico e propagandistico.

 

La questione sindacale

Nel campo sindacale il difficile compito del partito consiste nel trovare un giusto accordo fra due linee di attività pratica.

1. Difendere i sindacati di classe cercando di mantenere il massimo di coesione e di organizzazione sindacale fra le masse che tradizionalmente hanno partecipato all’organizzazione sindacale stessa. È questo un compito di eccezionale importanza, perché il partito rivoluzionario deve sempre, anche nelle peggiori situazioni oggettive, tendere a conservare tutte le accumulazioni di esperienza e di capacità tecnica e politica che si sono venute formando attraverso gli sviluppi della storia passata nella massa proletaria. Per il nostro partito la Confederazione generale del lavoro costituisce in Italia l’organizzazione che storicamente esprime in modo più organico queste accumulazioni di esperienza e di capacità e rappresenta quindi il terreno entro il quale deve essere condotta questa difesa.

2. Tenendo conto del fatto che l’attuale dispersione delle grandi masse lavoratrici è dovuta essenzialmente a motivi che non sono interni della classe operaia, per cui esistono possibilità organizzative immediate di carattere strettamente non sindacale, il partito deve proporsi di favorire e promuovere attivamente queste possibilità. Questo compito può essere adempiuto solo se il lavoro organizzativo di massa viene trasportato dal terreno corporativo [cioè di mestiere] nel terreno industriale di fabbrica e i legami dell’organizzazione di massa diventano elettivi e rappresentativi, oltre che di adesione individuale per via di tessera sindacale.

È chiaro d’altronde che questa tattica del partito corrisponde allo sviluppo normale dell’organizzazione di massa proletaria, quale si era verificata durante e dopo la guerra, cioè nel periodo in cui il proletariato ha incominciato a porsi il problema di una lotta a fondo contro la borghesia per la conquista del potere. In questo periodo la tradizionale forma organizzativa del sindacato di mestiere era stata integrata da tutto un sistema di rappresentanze elettive di fabbrica, cioè dalle commissioni interne.

È noto anche che, specialmente durante la guerra, quando le centrali sindacali aderirono ai comitati di mobilitazione industriale e determinarono quindi una situazione di “pace industriale” per alcuni aspetti analoga a quella presente, le masse operaie di tutti i paesi (Italia, Francia, Russia, Inghilterra e anche Stati Uniti) ritrovarono le vie della resistenza e della lotta sotto la guida delle rappresentanze elettive operaie di fabbrica.

La tattica sindacale del partito consiste essenzialmente nello sviluppare tutta l’esperienza organizzativa delle grandi masse premendo sulle possibilità di immediata realizzazione, considerate le difficoltà oggettive che sono state create al movimento sindacale dal regime borghese da una parte e dal riformismo confederale dall’altra. Questa linea è stata approvata integralmente dalla stragrande maggioranza del Congresso. Intorno ad essa tuttavia avvennero le discussioni più appassionate e l’opposizione fu rappresentata, oltre che dall’estrema sinistra, anche da due membri della Centrale, così come abbiamo già accennato. Un oratore sostenne che il sindacato è storicamente superato, perché unica azione di massa del partito deve essere quella che si svolge nelle fabbriche. Questa tesi, legata alle più assurde posizioni dell’infantilismo estremista, fu nettamente ed energicamente respinta dal Congresso.

Per un altro oratore invece l’unica attività del partito in questo campo deve essere l’attività organizzativa sindacale tradizionale. Questa tesi è legata strettamente ad una concezione di destra, cioè alla volontà di non urtare troppo gravemente la burocrazia sindacale riformista che si oppone strenuamente ad ogni organizzazione di massa.

L’opposizione dell’estrema sinistra era guidata da due direttive fondamentali.

La prima, di carattere essenzialmente congressuale, tendeva alla dimostrazione che la tattica delle organizzazioni di fabbrica, sostenuta dal Comitato centrale e dalla maggioranza del Congresso, è legata alla concezione dell’Ordine Nuovo settimanale [1919-1920, il periodo dei Consigli] che, secondo l’estrema sinistra, era proudhoniana e non marxista.

L’altra è legata alla questione di principio in cui l’estrema sinistra si contrappone nettamente al leninismo: il leninismo sostiene che il partito guida la classe attraverso le organizzazioni di massa e sostiene quindi come uno dei compiti essenziali del partito lo sviluppo dell’organizzazione di massa; per l’estrema sinistra invece questo problema non esiste e si danno al partito tali funzioni che possono portare da una parte alle peggiori catastrofi e dall’altra ai più pericolosi avventurismi.

Il Congresso ha rigettato tutte queste deformazioni della tattica sindacale comunista, pur ritenendo necessario insistere con particolare energia sulla necessità di una maggiore e più attiva partecipazione dei comunisti al lavoro nell’organizzazione sindacale tradizionale.

 

La questione agraria

 Il partito ha cercato, per ciò che riguarda la sua azione tra i contadini, di uscire dalla sfera della semplice propaganda ideologica tendente a diffondere solo astrattamente i termini generali della soluzione leninista del problema stesso, per entrare nel terreno pratico dell’organizzazione e dell’azione politica reale. È evidente che ciò era più facile da ottenersi in Italia che negli altri paesi perché nel nostro paese il processo di differenziazione delle grandi masse della popolazione è per certi aspetti più avanzato che altrove, in conseguenza della situazione politica attuale.

D’altronde una tale questione, dato che il proletariato industriale è da noi solo una minoranza della popolazione lavoratrice, si pone con maggiore intensità che altrove. Il problema di quali siano le forze motrici della rivoluzione e quello della funzione direttiva del proletariato si presentano in Italia in forme tali da domandare una particolare attenzione del nostro partito e la ricerca di soluzioni concrete ai problemi generali che si riassumono nell’espressione: questione agraria.

La grande maggioranza del Congresso ha approvato l’impostazione che il partito ha dato a questi problemi e ha affermato la necessità di una intensificazione del lavoro secondo la linea generale già parzialmente applicata. In che cosa consiste praticamente questa attività? Il partito deve tendere a creare in ogni regione delle unioni regionali dell’Associazione di difesa dei contadini: ma, entro questi quadri organizzativi più larghi, occorre distinguere quattro raggruppamenti fondamentali delle masse contadine, per ognuno dei quali è necessario trovare atteggiamenti e soluzioni politiche ben precise e complete.

Uno di questi raggruppamenti è costituito dalle masse dei contadini slavi dell’Istria e del Friuli, la cui organizzazione è legata strettamente alla questione nazionale.

Un secondo è costituito dal particolare movimento contadino che si riassume sotto il titolo di “Partito dei contadini” e che ha la sua base specialmente nel Piemonte; per questo raggruppamento, di carattere aconfessionale e di carattere più strettamente economico, vale l’applicazione dei termini generali della tattica agraria del leninismo, dato anche il fatto che tale raggruppamento esiste nella regione in cui esiste uno dei centri proletari più efficienti in Italia.

I due altri raggruppamenti sono di gran lunga i più considerevoli e sono quelli che domandano la maggiore attenzione del partito e cioè:

1. la massa dei contadini cattolici, raggruppati nell’Italia centrale e settentrionale, i quali sono direttamente organizzati dall’Azione cattolica e dall’apparato ecclesiastico in generale, cioè dal Vaticano;

2. la massa dei contadini dell’Italia meridionale e delle isole.

Per ciò che riguarda i contadini cattolici, il Congresso ha deciso che il partito deve continuare e deve sviluppare la linea che consiste nel favorire le formazioni di sinistra che si verificano in questo campo e che sono strettamente collegate alla crisi generale agraria iniziatasi già prima della guerra nel centro e nel nord d’Italia. Il Congresso ha affermato che l’atteggiamento assunto dal partito verso i contadini cattolici, sebbene contenga in sé alcuni degli elementi essenziali per la soluzione del problema politico-religioso italiano, non deve in nessun modo condurre a favorire i tentativi, che possono nascere, di movimenti ideologici di natura strettamente religiosa. Il compito del partito consiste nello spiegare i conflitti che nascono sul terreno della religione come derivanti dai conflitti di classe e nel tendere a mettere sempre in maggior rilievo i caratteri di classe di questi conflitti e non, viceversa, nel favorire soluzioni religiose dei conflitti di classe, anche se tali soluzioni si presentano come di sinistra in quanto mettono in discussione l’autorità dell’organizzazione ufficiale religiosa.

La questione dei contadini meridionali è stata esaminata dal Congresso con particolare attenzione. Il Congresso ha riconosciuto esatta l’affermazione contenuta nelle tesi della Centrale, secondo la quale la funzione della massa contadina meridionale nello svolgimento della lotta anticapitalistica italiana deve essere esaminata a sé e portare alla conclusione che i contadini meridionali sono, dopo il proletariato industriale e agricolo dell’Italia del nord, l’elemento sociale più rivoluzionario della società italiana.

Qual è la base materiale e politica di questa funzione delle masse contadine del sud? I rapporti che intercorrono tra il capitalismo italiano e i contadini meridionali non consistono solamente nei normali rapporti storici tra città e campagna, quali sono stati creati dallo sviluppo del capitalismo in tutti i paesi del mondo. Nel quadro della società nazionale questi rapporti sono aggravati e radicalizzati dal fatto che economicamente e politicamente tutta la zona meridionale e delle isole funziona come una immensa campagna di fronte all’Italia del Nord, che funziona come una immensa città.

Una tale situazione determina nell’Italia meridionale il formarsi e lo svilupparsi di determinati aspetti di una questione nazionale, se pure immediatamente essi non assumano una forma esplicita di tale questione nel suo complesso, ma solo di una vivacissima lotta a carattere regionalistico e di profonde correnti verso il decentramento e le autonomie locali.

Ciò che rende caratteristica la situazione dei contadini meridionali è il fatto che essi, a differenza dei tre raggruppamenti precedentemente descritti, non hanno nel loro complesso nessuna esperienza organizzativa autonoma. Essi sono inquadrati negli schemi tradizionali della società borghese, per cui gli agrari, parte integrante del blocco agrario-capitalistico, controllano le masse contadine e le dirigono secondo i loro scopi.

In conseguenza della guerra e delle agitazioni operaie del dopoguerra che avevano profondamente indebolito l’apparato statale e quasi distrutto il prestigio sociale delle classi superiori nominate, le masse contadine del Mezzogiorno si sono risvegliate alla vita propria e faticosamente hanno cercato un proprio inquadramento. Così si sono avuti movimenti degli ex combattenti e i vari partiti cosiddetti di “rinnovamento” che cercavano di sfruttare questo risveglio della massa contadina, qualche volta secondandolo come nel periodo dell’occupazione delle terre, più spesso cercando di deviarlo e quindi consolidarlo in una posizione di lotta per la cosiddetta democrazia, come è ultimamente avvenuto con la costituzione della “Unione nazionale”.

Gli ultimi avvenimenti della vita italiana che hanno determinato un passaggio in massa della piccola borghesia meridionale al fascismo, hanno reso più acuta la necessità di dare ai contadini meridionali una direzione propria per  sottrarsi definitivamente all’influenza borghese agraria. Il solo organizzatore possibile della massa contadina meridionale è l’operaio industriale, rappresentato dal nostro partito. Ma perché questo lavoro di organizzazione sia possibile ed efficace occorre che il nostro partito distrugga nell’operaio industriale il pregiudizio inculcatogli dalla propaganda borghese che il Mezzogiorno sia una palla di piombo che si oppone ai più grandi sviluppi dell’economia nazionale e distrugga nel contadino meridionale il pregiudizio ancora più pericoloso per cui egli vede nel nord d’Italia un solo blocco di nemici di classe.

Per ottenere questi risultati occorre che il nostro partito svolga un’intensa opera di propaganda anche nell’interno della sua organizzazione per dare a tutti i compagni una coscienza esatta dei termini della questione, la quale, se non sarà risolta in modo chiaroveggente e rivoluzionariamente saggio per noi, renderà possibile alla borghesia, sconfitta nella sua zona, di concentrarsi nel sud per fare di questa parte d’Italia la piazza d’armi della sua controrivoluzione.

Su tutta questa serie di problemi, l’opposizione di estrema sinistra non riuscì a dire che delle barzellette e dei luoghi comuni. La sua posizione essenziale fu quella di negare aprioristicamente che questi problemi concreti esistono in sé, senza nessuna analisi o dimostrazione neanche potenziale. Si può dire anzi che appunto nei riguardi della questione agraria, apparve la vera essenza della concezione dell’estrema sinistra, la quale consiste in una specie di corporativismo che aspetta meccanicamente dal solo sviluppo delle condizioni obiettive generali la realizzazione dei fini rivoluzionari. Tale concezione fu, come abbiamo detto, nettamente rigettata dalla stragrande maggioranza del Congresso.

 

Altri problemi trattati

Per quanto riguarda la questione dell’organizzazione concreta del partito nell’attuale periodo, il Congresso senza discussione ratificò le deliberazioni della recente Conferenza di organizzazione, già pubblicate da l’Unità.

Il Congresso, dato il modo della sua riunione e gli obiettivi che si proponeva, i quali riguardavano specialmente l’organizzazione interna del partito ed il risanamento della crisi, non poté trattare ampiamente alcune questioni che pure sono essenziali per un partito proletario rivoluzionario. Così solo nelle tesi fu esaminata la situazione internazionale in rapporto alla linea politica dell’Internazionale comunista.

Nella discussione del Congresso tale argomento fu solo sfiorato e dei problemi internazionali si trattò solo la parte riguardante le forme e i rapporti di organizzazione del Comintern, poiché era questo un elemento della crisi interna del partito. Il Congresso però ebbe una larghissima ed esauriente relazione sui lavori del recente Congresso del partito russo e sul significato delle discussioni in esso svoltesi.

Così il Congresso non si occupò del problema dell’organizzazione nel campo femminile, né dell’organizzazione della stampa, argomenti essenziali per il nostro movimento e che avrebbero meritato una trattazione speciale.

Anche la questione della redazione del programma del partito che era stata posta all’ordine del giorno non fu trattata dal Congresso. Pensiamo sia necessario rimediare a queste manchevolezze con conferenze di partito, appositamente convocate a tale scopo.

 

Conclusione

Nonostante queste parziali deficienze, si può affermare, concludendo, che la massa di lavoro svolta dal Congresso è stata veramente imponente. Il Congresso ha elaborato una serie di risoluzioni e un programma di lavoro concreto tali da mettere in grado la classe proletaria di sviluppare le sue energie e la sua capacità di direzione politica nell’attuale situazione.

Una condizione è specialmente necessaria perché le risoluzioni del Congresso non solo siano applicate, ma diano tutti i frutti che esse possono dare: occorre che il partito si mantenga strettamente unito, che nessun germe di disgregazione, di pessimismo, di passività sia lasciato sviluppare nel suo seno. Tutti i compagni del partito sono chiamati a realizzare una tale condizione. Nessuno può mettere in dubbio che ciò sarà fatto con la più grande delusione di tutti i nemici della classe operaia.

 Comitato Centrale del (n)PCI http://www.nuovopci.it
 

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