In occasione della Giornata Internazionale dei Lavoratori, anticipiamo alcuni articoli pubblicati sul n. 5 di Resistenza.
1° MAGGIO- GIORNATA INTERNAZIONALE DEI LAVORATORI
In occasione della Giornata Internazionale dei Lavoratori, anticipiamo alcuni articoli pubblicati sul n. 5 di Resistenza.
Bando al pessimismo e alla rassegnazione! Da Piombino a Termini Imerese, dall’Electrolux all’Irisbus, è possibile impedire che i padroni chiudano le aziende ed è possibile riaprire le aziende chiuse, ma bisogna combinare l’iniziativa locale e particolare con l’iniziativa politica nazionale, per darsi un governo adeguato: la singola azienda si salva salvando il paese intero, il paese si salva salvando ogni singola azienda e creandone di nuove. Senza di questo, ogni vittoria è precaria, ogni sconfitta è demoralizzante. In questo modo invece ogni battaglia particolare è sostenuta dalla forza di tutto il movimento e a sua volta contribuisce a rafforzarlo. Ogni iniziativa particolare è una battaglia all’interno di una guerra: se si perde una battaglia, non è ancora persa la guerra. Bisogna rendere ogni battaglia l’elemento propulsore di un movimento popolare di ribellione, di mobilitazione e organizzazione per cacciare ogni governo dei poteri forti e costruire un governo di tipo nuovo, un governo che poggia sui lavoratori organizzati, un governo che rompa con le procedure, regole e leggi del sistema finanziario, bancario e monetario internazionale. Un governo che applichi la Costituzione, quindi che metta “un lavoro utile e dignitoso per tutti” davanti alle pretese del sistema finanziario, della comunità internazionale e dei poteri forti nostrani, che abolisca il debito pubblico (tutelando solo i piccoli risparmiatori). Che metta sotto controllo le banche, nazionalizzi la FIAT e le altre grandi aziende. Che lanci un Piano generale del Lavoro per dare a tutti un lavoro utile, sicuro e dignitoso, perché è una balla che non c’è lavoro, è vero il contrario: c’è un sacco di lavoro da fare, c’è bisogno del lavoro di tutti, italiani e immigrati, per far funzionare le scuole, gli ospedali e gli altri servizi pubblici che sono cronicamente sotto organico, per rimettere e mantenere in sicurezza il territorio, per sviluppare la ricerca e/o l’applicazione di nuove energie pulite, per tenere aperte le aziende che i capitalisti chiudono o delocalizzano, per riconvertire ad altre produzioni quelle inutili o dannose, per recuperare gli stabili in disuso e i quartieri degradati delle grandi città.
Gli operai e il resto dei lavoratori sono la forza che trasformerà il nostro paese, lo libererà dalla catastrofe della Repubblica Pontificia e dell’Unione Europea e lo metterà sulla via del progresso e della civiltà. Organizzati e con un loro governo d’emergenza, gli operai e il resto dei lavoratori possono imparare a dirigere il paese fino a scalzare le attuali classi dominanti e instaurare il socialismo.
Un esempio di nuove autorità popolari
* IL CONSIGLIO DI FABBRICA DELLA PHILCO NEGLI ANNI ‘70
Il racconto di un protagonista di quella esperienza
Rimaniamo sul pezzo: costruire nuove autorità popolari, qui e ora, imparando dal passato senza rimpiangerlo, con l’atteggiamento e l’approccio di scienziati mossi sì, anche dalla nostalgia, benché non per il passato, ma per il futuro.
Con questa testimonianza di Giovanni Maj, l’operaio che ha avuto la capacità e l’onore di guidare una parte del movimento operaio italiano, parliamo ai tanti operai (sono ancora tanti, ma soprattutto il loro ruolo sociale e storico non è per nulla cambiato, alla faccia delle tante e inconsistenti letture della società contemporanea) che oggi subiscono in modo specifico la crisi e i suoi effetti e che hanno, più di tutti, la possibilità di organizzare e promuovere la riscossa, di costruire la rivoluzione.
Parliamo dell’esperienza del Consiglio di Fabbrica (CdF) della Philco, un organismo che ha assunto un ruolo particolare nella mobilitazione operaia e popolare nella bergamasca, a inizio anni ’70…
Sì, partiamo dal fatto che con le lotte del ’68 – ’69 dentro le fabbriche qualcosa è cambiato, le Commissioni Interne sono state sostituite dai CdF che permettevano una maggiore aggregazione degli operai e che svolgevano un ruolo sindacale, ma anche politico, dentro e fuori le aziende. Alla Philco il CdF aveva un delegato, di media, ogni 35 operai. Pensate che eravamo 2500 e i conti sono presto fatti. Ogni reparto e ogni gruppo omogeneo di lavoratori nominava il suo delegato. Ogni delegato, che poteva essere iscritto al sindacato o meno, era revocabile in qualunque momento, la cosa dipendeva da come si comportava, da quante responsabilità si assumeva e come, da quanto era deciso e convinto nel far valere le posizioni e gli interessi del collettivo di fabbrica, dei suoi rappresentati. Se uno non portava avanti le istanze degli operai, veniva sostituito. Nel CdF c’erano 2 coordinatori, entrambi distaccati dal lavoro in produzione a tempo pieno e che si dedicavano al funzionamento del collettivo. Io ero uno di questi due: mantenevo il contatto col sindacato e soprattutto vigilavo nei vari reparti per controllare e verificare che non ci fossero problemi. C’era poi un esecutivo che era un organismo più ristretto: 15 persone elette all’interno del CdF che si riunivano per prendere determinate decisioni più pratiche e di gestione corrente. In ogni caso le decisioni principali e importanti spettavano all’assemblea di tutto il CdF. Per avere un’idea più precisa del ruolo del CdF bisogna tenere presente che si trattava di un organismo che operava dentro la fabbrica, ma anche fuori: nei consigli di zona, che comprendevano tutte le fabbriche “dell’isola” (una zona ben definita che comprendeva il territorio di un tot di comuni). E a un livello superiore c’era un consiglio provinciale. La struttura era così: c’era il CdF, poi il consiglio di zona e poi quello provinciale, che si riuniva per avere una visione complessiva della situazione.
A Bergamo c’erano anche i consigli di quartiere, nei quali intervenivano anche i delegati del CdF, portando la loro esperienza. In questo modo si era creato un giro di lotte importante che faceva tremare la borghesia, lì a Bergamo, perché eravamo noi operai a dirigere le lotte anche fuori dalla fabbrica, in tutta la zona. Avevamo capito che la lotta non doveva fermarsi ai cancelli delle fabbriche, perché i problemi da affrontare erano anche all’esterno. Gli operai dove vivono? Nel quartiere, hanno figli che vanno a scuola. Un operaio non smette di essere una persona fuori dalla fabbrica, è un cittadino: dentro e fuori dalla fabbrica l’operaio è anche un cittadino. Diciamo quindi che il CdF era il modo per uscire dalla fabbrica: i consigli di quartiere sono nati dopo i CdF. Si può dire che sotto l’influenza dei CdF si sono formati altri organismi fuori della fabbrica: il CdF promuoveva la formazione di altre organizzazioni popolari fuori dalla fabbrica. Se c’erano problemi con gli amministratori di condominio il CdF interveniva e dava manforte nei consigli di quartiere… Si era creato il consiglio anche nell’ospedale… Ci si occupava di tutti i problemi delle masse popolari.
Questo dava fastidio al sindacato, la posizione era che la lotta in fabbrica doveva essere solo di difesa, mentre il CdF voleva farla diventare una lotta d’attacco.
In questo quadro il CdF della Philco ha avuto un ruolo molto “forte” in tutta al provincia di Bergamo. [leggi tutto]
* LA SOLA VIA D’USCITA DALLA CRISI: IL SOCIALISMO
Prendete le acciaierie di Piombino: producevano dell’ottimo acciaio, necessario per binari e altre applicazioni. L’altoforno è in via di spegnimento, la fabbrica (5 mila operai con l’indotto) in agonia. Il governo Renzi, dopo che il Papa ha espresso la sua commozione per la sorte degli operai, ha avviato la fabbrica a morte lenta: ha promesso un intervento per un nuovo insediamento industriale che entrerà in funzione tra cinque anni, bla, bla … la storia già vista a Termini Imerese. Ma a Termini Imerese, obietterà qualcuno, si producevano auto e di auto in Italia se ne producono più di quelle che vengono vendute anche senza Termini Imerese. Certo, in questo i due stabilimenti sono diversi: un caso come ce ne sono tanti in Italia e in ogni paese imperialista. Una fabbrica chiude e il pretesto è che suoi prodotti non servono più. Un’altra chiude anche se i suoi prodotti servono, ma il padrone guadagna di più a produrli altrove e comunque i suoi clienti li trovano a prezzi minori da altri. Gli operai comunque vengono gettati sul lastrico (con qualche ammortizzatore sociale) e i giovani non trovano più niente.
Un anno fa un pezzo dell’Emilia è sprofondato perché alcune aziende estraevano gas a manetta dal sottosuolo, altre (o le stesse) continuano a fare lo stesso nell’Adriatico. Perché? Perché con il gas si guadagna: gli USA non hanno forse tamponato la crisi (almeno si dice) lanciando in grande l’estrazione di gas di scisti? E quando sarà approvato il TTIP (Transatlantic Trade and
Investmet Partnership) il governo italiano se lo vieterà sarà chiamato a risarcire le ditte che volevano estrarlo! [leggi tutto]
* ECCO PERCHÉ LA CLASSE OPERAIA PUÒ E DEVE PRENDERE LA DIREZIONE DEL PAESE!
Solo quando smette di esistere la classe operaia produttrice di plusvalore cessa anche la società borghese, cioè la società che ha come cellula costitutiva l’azienda creata e gestita dal capitalista per valorizzare (accrescere) il proprio capitale. La classe operaia non è l’unica classe che per vivere deve vendere la propria forza-lavoro. Anche 1. “i dipendenti (esclusi i dirigenti) dell’Amministrazione pubblica centrale e locale e degli enti parastatali, 2. i lavoratori impiegati in aziende non capitaliste (aziende familiari, artigiane e altre aziende che i proprietari creano e gestiscono non per valorizzare un capitale, ma per ricavare un reddito), 3. i lavoratori addetti ai servizi personali (camerieri, autisti, giardinieri, ecc.)” (Manifesto – Programma del (n)PCI, Analisi di classe della società italiana), cioè le altre classi proletarie, hanno questa caratteristica.
Partitodei Comitati di Appoggio alla Resistenza – per il Comunismo (CARC)
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