“Che cosa significa passare la propria vita senza conoscere che cosa sia la pace? Ce lo siamo chiesti tante volte, in Afghanistan e qui in Iraq, dove vediamo ogni giorno le conseguenze di guerre che cambiano nome ma non finiscono mai”.
Che cosa significa passare la propria vita senza conoscere che cosa sia la pace? Ce lo siamo chiesti tante volte, in Afghanistan e qui in Iraq, dove vediamo ogni giorno le conseguenze di guerre che cambiano nome ma non finiscono mai. Talvolta, però, questa domanda sembra prendere una forma fisica, concreta, sembra incarnarsi nei corpi feriti di pazienti che reincontriamo anche a distanza di anni.
Qualche giorno fa siamo andati con la clinica mobile a Qoratu, un villaggio in nord Iraq dove vivono circa 600 profughi iracheni in fuga dai combattimenti. Tra di loro c’è Ahmed, un uomo di 35 anni fuggito due mesi fa dall’area di Bagdad: la sua città era stata attaccata dal gruppo Daesh. Non è stato il suo primo incontro con la guerra: nel 2003 un proiettile lo aveva colpito alla coscia e da allora Ahmed porta una protesi.
Durante la fuga, la sua protesi si è rotta. Quando Ahmed è venuto a chiederci aiuto ci ha mostrato un foglio di carta che ci è sembrato subito molto familiare. Ci è voluto poco per riconoscerlo: era un foglio di dimissioni rilasciato dal nostro ospedale a Sulaimaniya, dove lo avevamo curato più di 10 anni fa.
Tra qualche giorno Ahmed potrà tornare a Sulaimaniya a sostituire la protesi.
Finita la visita, si è allontanato ringraziando, regalandoci un sorriso.
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