La storia delle privatizzazioni e dei privatizzatori che hanno svuotato questo Paese di ogni sua ricchezza, trasformandolo da settima potenza economica mondiale a un grande discount per ricchi speculatori senza scrupoli.
Privatizzazioni: così ci siamo fatti rubare tutto!
La storia delle privatizzazioni e dei privatizzatori che hanno svuotato questo Paese di ogni sua ricchezza, trasformandolo da settima potenza economica mondiale a un grande discount per ricchi speculatori senza scrupoli. Il racconto di Valerio Lo Monaco, direttore della Voce del Ribelle.
di Valerio Lo Monaco, direttore de Il Ribelle.
Buongiorno Claudio e buongiorno a tutti i lettori del tuo blog! Verso la fine di novembre, il Ministro dei Trasporti, Graziano Del Rio, ha rilasciato una dichiarazione. Ha detto che, nel corso del 2016, il 40% delle Ferrovie dello Stato verrà privatizzato. O meglio: Ferrovie dello Stato verrà quotata in borsa e in borsa saranno messi appunto il 40% delle azioni. Una postilla a questa operazione, epsressa nel classico “bizantinismo” del linguaggio politico, è il fatto che Ferrovie dello Stato si riserva di mantenere il controllo delle infrastrutture, cioè vale a dire della rete ferroviaria, mentre invece la veicolazione dei mezzi su questa rete ferroviaria, perlomeno per il 40%, verrà ulteriormente privatizzata.
Questa è solo l’ultima, in ordine di tempo, di tutta una serie di privatizzazioni che sono state fatte nel corso degli anni. I criteri che vengono veicolati per giustificare le privatizzazioni sono da una parte quello di fare cassa (perché avendo un debito pubblico alle stelle, avremmo bisogno di vendere) e dall’altro lato quello di consentire un migliore utilizzo di opere pubbliche, di beni pubblici, di asset pubblici che invece, se gestiti dallo Stato, verrebbero gestiti male. Ma vediamo, in nome di questi criteri, cosa è stato fatto nel corso degli anni.
Il divorzio tra la Banca d’Italia e il Tesoro
Una prima data storica che va assolutamente scolpita nella testa è quella del 1981/82, perché sancisce il divorzio tra la Banca d’Italia e il Tesoro. All’epoca il Governo era quello di Forlani e di Spadolini, membro del gruppo Bilderberg, e Banca d’Italia era allora diretta da Carlo Azeglio Ciampi. Però l’uomo chiave di questa operazione si chiamava Beniamino Andreatta, che fu colui che sancì il divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia. In parole povere, fino a quel momento la Banca d’Italia era obbligata a comperare i Titoli di Stato, mentre da quel momento in poi i Titoli di Stato italiani furono immessi sui mercati. Il che vuol dire che il tasso d’interesse al quale venivano venduti non era più deciso internamente, tra il Tesoro e la Banca d’Italia, ma lo decideva qualcun altro. Se guardate un qualunque grafico del livello del debito pubblico nel tempo, si vede a occhio nudo che dal 1982 fino al 1990 il nostro debito pubblico ebbe un’impennata colossale, cosa che poi servirà per giustificare la vendita degli asset di cui stiamo parlando. Se fino ad allora si parlava di duecento miliardi, a un certo punto, dopo l’immissione dei Titoli di Stato sui mercati, il debito pubblico schizza letteralmente, in meno di un decennio, a circa 1.600 miliardi, quindi cifre tutto sommato prossime a quelle odierne.
Il panfilo Britannia
Secondo momento chiave, all’interno di questa storia – e qui entriamo effettivamente nel punto critico delle privatizzazioni – si situa invece nei primi anni novanta. Carlo Azeglio Ciampi – ancora lui – ci impone di rimanere ancorati allo SME. Poi arriva il famoso incontro informale (informale un piffero, direi) sul panfilo Britannia a Civitavecchia. Su quel panfilo salirono tanti esponenti italiani ed è lì che fa la sua comparsa, in una posizione di un certo rilievo, Mario Draghi, che all’epoca era a capo del Ministero del Tesoro. Pensate un po’: abbiamo dato a suo tempo il Tesoro in mano a colui che, poco dopo, lo avrebbe ceduto ad altri. Insomma, non è che fossimo stati poi così tanto lungimiranti. Come che sia, sul Britannia c’erano non solo Mario Draghi, ma anche Ciampi (Banca d’Italia, ancora lui!), Beniamino Andreatta (ancora lui!), Mario Baldassarri, c’erano i vertici dell’IRI e di tutta un’altra serie di importanti asset strategici italiani. Ma c’erano soprattutto gli investitori: c’era Barclays, c’era Goldman Sachs, nella quale poi ritroveremo Draghi come vice presidente, forse per meriti acquisiti proprio di quella circostanza. E nel passaggio dal Tesoro a Goldman Sachs non vorrete mica dirmi che qualche conflitto di interessi non si potrebbe ravvisare! Ma che successe su quel panfilo? Si diede il via alle privatizzazioni: da lì in avanti moltissimi asset pubblici strategici italiani vennero smembrati e venduti, o meglio sarebbe a dire “svenduti”, a tutta una serie di investitori internazionali e alla finanza internazionale.
Da Soros a Romano Prodi
Immediatamente dopo succedono tre eventi: intanto c’è l’attacco di Soros alla Lira, grazie al quale lo speculatore statunitense riuscì a portarsi a casa circa un miliardo di dollari. Dopodiché ci fu tangentopoli, che segnò la fine della prima Repubblica. E ci furono gli attentati a Giovanni Falcone e a Paolo Borsellino, il primo dei quali – si sa oramai con certezza – a suo tempo aveva scoperto degli ingenti flussi di denaro, con l’intervento mafioso, che transitavano verso alcuni ambienti della finanza internazionale.
Fu allora che un altro nome assurse alla ribalta delle cronache: Romano Prodi. Già attivo fin dal 1982, almeno fino al 2007 possiamo considerare l’intera attività di Romano Prodi racchiusa in un’unica missione: quella di svendere o addirittura regalare ad alcuni suoi alleati – chiamiamoli così – tra i quali Carlo De Benedetti ( l’uomo chiave del quotidiano “La Repubblica”), tutti gli enti pubblici dello Stato, operazione resa finalmente possibile grazie (guarda un po’!) al Governo Amato, che trasformò la maggior parte degli enti statali in società per azioni, con un decreto legge del 1991 (vedete che le date si cominciano ad allineare?), in modo che l’élite finanziaria e la speculazione potessero ovviamente aggredirli.
Prodi e De Benedetti sono due uomini chiave: il primo fu a capo dell’IRI, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale per sette anni. La sua attività, in quel tempo, fu quella di smembrare l’IRI e di spacchettarlo al fine di venderne i pezzi al miglior offerenti. De Benedetti è stato uno di questi: ha acquistato a prezzi di realizzo alcuni asset storici, che vediamo a breve, rivendendoli a venti volte il prezzo di acquisto. Prodi, tanto per dirne una, mentre era a capo dell’IRI, concesse incarichi miliardari alla sua stessa società di consulenza che si chiamava Nomisma, in un evidente conflitto di interessi a fronte del quale quello attuale tra il Ministro Boschi e Banca Etruria fa sorridere. Eppure, Prodi assurse alle cronache come “il salvatore della Patria”, perché era l’unico in grado di organizzare una coalizione politica in grado di opporsi a Berlusconi. Ma questa è un’altra storia…
Lo smembramento dell’Iri
L’IRI, fondato negli anni trenta, era un istituto fondamentale: l’Istituto per la Ricostruzione Industriale. Alcuni elementi industriali dello Stato dovevano assolutamente essere sotto il controllo pubblico, proprio perché di utilità strategica dal punto di vista pubblico. Tra gli asset che facevano parte dell’IRI c’erano ad esempio Alitalia, il settore delle autostrade, la Banca Commerciale Italiana, il Banco di Roma, il Credito Italiano, Fincantieri, Finelettrica, Finmare, Finmeccanica, Finsider, Finsiel, Italstat, Rai, Sme e Stet. In pratica, intorno all’IRI erano rappresentati gli interessi fondamentali dello Stato italiano: il settore alimentare, il settore aerospaziale, il settore delle auto, quello delle costruzioni navali, della chimica, dell’editoria, della finanza, dell’informatica, della microelettronica, della metallurgia, delle telecomunicazioni e dei trasporti. L’IRI venne letteralmente smembrato! Fu un record mondiale per l’epoca: parte delle numerose aziende statali all’epoca detenute dall’IRI (che veniva definita “galassia IRI”, “carrozzone IRI”, senza capirne l’importanza strategica) vennero cedute ai privati. Si trattava di aziende gloriose del nostro Stato, erano asset strategici e vennero cedute. La Nestlé nel 1993 si comprò tra le altre Motta e Alemagna; Benetton e GS a Carrefour, nel 1995; Telecom che andò a finire nel ’97 alla famiglia Agnelli, poi a Colaninno, Pirelli, Benetton ancora una volta e poi a Telefonica (gruppo spagnolo); Autogrill e Autostrade per l’Italia, finite ancora a a Benetton nel 1999; operazioni che hanno fruttato plusvalenze enormi; ENI ed ENEL, che vennero privatizzate del 70%, nel 1995 la prima, e nel 1999 la seconda.
Basterebbero gli ultimi due nomi per capire cos’abbiano determinato ai giorni nostri queste privatizzazioni selvagge: aprite l’ultima bolletta della luce. Nel ’93 il Credito Italiano finirà nel nuovo gruppo Unicredit, la BNL nel gruppo Paribas nel ’98, la Banca Commerciale Italiana che nel ’94 viene venduta a Banca Intesa e poi a San Paolo; il Banco di Roma; l’IMI; Finsider; Finmeccanica privatizzata nel ’93 e prima ancora FIAT, nel 1986.
Gli uomini chiave di questa seconda fase (la prima, abbiamo detto fu quella di Beniamino Andreatta, del divorzio della Banca d’Italia dal Tesoro) sono Mario Draghi, direttore del Tesoro dal ’91 al 2001, poi finito in Goldman Sachs (chissà perché, chissà per quali meriti) e poi addirittura alla Banca Centrale Europea; Carlo Azeglio Ciampi, passato dalla Banca d’Italia addirittura alla Presidenza della Repubblica; Massimo D’alema e Romano Prodi, presidenti del Consiglio e così via.
Le conseguenze delle privatizzazioni
Ci sono almeno tre conseguenze, di queste privatizzazioni selvagge. La prima, banale: una volta che un asset dello Stato viene venduto ai privati, non è più tuo, nel senso che se appartiene allo Stato, è parte del patrimonio di ciascuno di noi. La seconda: il prezzo di utilizzo dell’eventuale servizio (parliamo ad esempio di ENEL ed ENI) viene alienato. È vero che anche prima si pagava un corrispettivo a una società, ma essendo tale società di Stato era in realtà un pagamento che tu facevi e che però rientrava nelle casse dello Stato e quindi, in quota parte, anche nelle tue tasche. Invece, nel momento in cui viene trasferito ai privati, è evidente che quel pagamento finisce nelle tasche di chi possiede quell’asset. La terza conseguenza è che cambia il prezzo di utilizzo di quel servizio. Anche qui, basta prendere una qualsiasi bolletta di ENEL ed ENI e si può facilmente verificare se ci abbiamo guadagnato o perduto. Fino a che un asset è pubblico, il prezzo viene fissato, di fatto, dallo Stato; nel momento in cui diventa privato, il prezzo di quel servizio viene fissato dal proprietario che, volendoci guadagnare, lo alza.
Conclusioni
Va smantellata – e bisogna ficcarselo in testa a martellate – la narrazione alla base di qualunque privatizzazione, ovvero innanzitutto che sia necessario fare cassa”. È evidente che saremo sempre costretti a fare cassa nel momento in cui continuiamo a essere indebitati, ma se torniamo indietro, dal punto di vista storico, possiamo capire perché siamo indebitati: ci siamo indebitati maggiormente dal momento in cui i nostri Titoli di Stato sono diventati appannaggio dei mercati. Il processo è diabolico: i mercati, quindi le élite finanziarie, la speculazione, ci continuano a indebitare e ci tengono indebitati sempre di più. Da qui la cosiddetta necessità di fare cassa; da qui la cosiddetta necessità di continuare a svendere gli asset strategici di Stato. E chi li acquista? La stessa élite finanziaria che è all’origine del nostro debito pubblico. Quindi prima ci indebitano e poi ci costringono, di fatto, per via politica, a vendere a loro i nostri asset strategici.
Il secondo elemento della narrazione alla base delle privatizzazioni è che “il privato sia sempre meglio del pubblico” (ndr: vedere “la balla dello Stato palloso e del privato rivoluzionario“). Tutto parte dal fatto che il pubblico viene gestito male e quindi sarebbe necessario che a gestire questi asset siano i privati. I quali, siccome hanno bisogno di generare profitti dalla loro gestione, certamente saranno in grado di gestirli meglio. Si tratta di una logica ridicola, per non dire disastrosa, perché nel momento in cui ci si accorge – il che è vero – che gli asset pubblici vengono gestiti male, la soluzione non dovrebbe essere “e allora vendiamoli ai privati“: la soluzione dovrebbe invece essere “e allora rimuoviamo chi li gestisce e facciamoli gestire meglio“. Altrimenti da qui non se ne esce!
Questi due elementi narrativi inducono nella percezione collettiva la bontà delle privatizzazioni. Siccome oggi oramai dovremmo essere coscienti che questa bontà non c’è stata e che abbiamo avuto tutto da perdere dalle privatizzazioni, dimostrando che questa narrazione, costantemente veicolata dai media di massa, è falsa, dovremmo essere in grado di capire la situazione nel suo complesso e quindi rigettare con sdegno e forza qualsiasi dichiarazione, come quella di Del Rio da cui siamo partiti, che è solo l’ultima a favore delle privatizzazioni.