Una sirena poi un’altra, un elicottero poi un altro, vanno tutti nella stessa direzione: che cos’è successo? Gli internazionali di Emergency si danno un’occhiata, aspettano la chiamata che arriva dopo un paio di minuti: “Un attacco a un ospedale o una scuola, non è chiaro, ma stiamo pronti”.
Una sirena poi un’altra, un elicottero poi un altro, vanno tutti nella stessa direzione: che cos’è successo?
Gli internazionali di Emergency si danno un’occhiata, aspettano la chiamata che arriva dopo un paio di minuti: “Un attacco a un ospedale o una scuola, non è chiaro, ma stiamo pronti”. È quasi ora di cena, siamo rientrati da poco dall’ospedale, qualcuno ha avuto il tempo di farsi una doccia, è già ora di tornare. Le sirene hanno cambiato direzione, adesso vengono verso di noi e si fermano di colpo davanti all’ospedale.
Sara chiama via radio la mass casualty: vuol dire “tutti ai posti di manovra”, e ognuno sa dove andare a mettersi e cosa fare, chirurghi, uomini delle pulizie, infermieri, guardie, barellieri. Sara va nell’area del triage, si tirano fuori le scatole delle emergenze, si stendono i materassini, tutti sono pronti. I feriti però stasera arrivano alla spicciolata: uno, poi due, poi altri due. Meglio così. È dai primi racconti dei feriti che capiamo che cosa è successo. “Il campus era pieno, eravamo tutti lì!”, dice Daud in un inglese perfetto. Ha ventisette anni, era al terzo piano quando i talebani hanno fatto saltare un muro e sono entrati sparando. “Ci siamo nascosti, abbiamo messo i banchi contro la porta, ma sono entrati lo stesso. Uno ha sparato, ho pensato: ‘Ecco, questi sono i miei ultimi momenti’. Ma poi è uscito ed ero ancora vivo”. Il suo amico gli ha indicato due ragazzi: “Sono morti?”, poi è arrivato di corsa un professore. “Ci ha detto di saltare dalla finestra, che era l’unico modo per salvarci, io non sapevo cosa fare. Ho pensato che avrei potuto morire nella caduta”. È stato allora che i talebani sono tornati verso la sua stanza. “Appena ho sentito un colpo di fucile non ho più pensato a niente: mi sono buttato, subito”.
È scappato fino a quando ha incontrato un guardiano del campus, “Stava per spararmi, ma ci credo! Non si capiva più niente. Ho gridato ‘sono uno studente, sono ferito, ho bisogno di aiuto!’, lui mi ha protetto fino a che non sono arrivato ai soccorsi”.
Daud è arrivato all’ospedale di Emergency con “solo” una frattura del gomito. Le virgolette sono d’obbligo: “Non credo che mi riprenderò molto presto da questa storia”. Già. È un bel ragazzo dall’aria sveglia e gentile. Studia business administration. Che piani hai per il futuro? “Io ho studiato sei anni per entrare in quella scuola! Io ci credevo davvero, ci credo ancora, che l’educazione sia la chiave per noi per diventare una buona classe dirigente per il futuro. Lo dirò al preside, lo dirò a tutti gli insegnanti: non dobbiamo mollare. Sennò sarà stato tutto inutile”.
Il preside dell’università è venuto oggi a visitare i ragazzi: “Una tragedia, una tragedia”. Un paio di settimane fa due professori della scuola erano stati rapiti e ancora non ci sono notizie. Il preside ha ringraziato Emergency per essersi presa cura dei suoi ragazzi – “È solo il nostro lavoro” – ma non ha incontrato Daud: con “solo” una frattura del gomito è stato dimesso stamattina, lui è più felice e noi pure, perché abbiamo l’ospedale troppo pieno. Lo rivedremo per i controlli.
Ci siamo salutati parlando di lui: siamo d’accordo, le scuole non devono mollare, mai.
— Cecilia Strada, presidente di Emergency, da Kabul