“Eutanasia?”

La recente scomparsa di DJ Fabo, il quarantenne cieco e tetraplegico costretto a recarsi in Svizzera, nella clinica Dignitas di Pfaffikon, per portare a termine il suo travagliato percorso in vista del suicidio assistito, ha riaperto, con le consuete polemiche, un lungo dibattito a proposito di quel groviglio di problemi che si annodano attorno alla generica definizione di “eutanasia”.

 

Eutanasia?

La recente scomparsa di DJ Fabo, il quarantenne cieco e tetraplegico costretto a recarsi in Svizzera, nella clinica Dignitas di Pfaffikon, per portare a termine il suo travagliato percorso in vista del suicidio assistito, ha riaperto, con le consuete polemiche, un lungo dibattito a proposito di quel groviglio di problemi che si annodano attorno alla generica definizione di “eutanasia”. Perché a voler esser precisi esiste tutta una serie di “variazioni sul tema” che ci impediscono di riunire sotto un’unica etichetta fenomeni e situazioni cliniche tanto diverse. I casi, ad esempio, di Ramon Sampedro, Terry Schiavo, Piergiorgio Welby, Eluana Englaro, non possono essere letti allo stesso modo e portati in campo all’insegna di una generica lotta per il diritto all’eutanasia. Si può parlare, infatti, di suicidio assistito, eutanasia attiva e passiva. Ancor più spinose le problematiche circa la definizione di cosa significhi, realmente, accanimento terapeutico e secondo quali parametri si possa parlare di testamento biologico. Tutto ciò però non ci deve scoraggiare, impedendoci di prenderci le nostre responsabilità su questioni di assoluta urgenza. Come ha fatto, con coraggio e serenità, Fabiano Antoniani, che aveva espresso più volte e pubblicamente l’intenzione di voler morire. Lo aveva fatto con coscienza, senza possibili fraintendimenti, rispettando in pieno quel principio di piena consapevolezza che dovrebbe diventare la pietra angolare di un dibattito sull’eutanasia. Ed è assurdo, in quest’ottica, che in Italia si debba parlare, per quel che riguarda l’intervento di un uomo come Marco Cappato, di istigazione o determinazione al suicidio.
 
Concludendo, il diritto all’eutanasia deve diventare proprietà inalienabile di ognuno. Il pregiudizio teologico che è alla base degli oppositori all’eutanasia risiede in quei dogmi anacronistici circa la “sacralità” della vita, l’assoluta impotenza umana di contro all’assoluta potenza divina, “Non disponiamo della nostra vita, poiché essa appartiene a Dio…”. Ora, sarebbe invece il caso di dire, senza scomodi fraintendimenti, che noi disponiamo della nostra vita, o quantomeno di quella libertà di scelta che proviene dal nostro libero arbitrio. Dovremmo almeno provare a liberarci di un medioevo dello spirito che per molti, troppi aspetti, riesce ancora a condizionarci nelle scelte di ogni giorno.
 
Un po’ come fece un geniaccio delle mie zone, quel Monicelli che una volta saputa la verità sulla sua malattia non volle sentir storie. Aprì la finestra della sua camera d’ospedale e senza starci troppo a pensare spiccò il volo…
 
 
Andrea Campucci

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