Il fallimento del “dopo di noi”

Due articoli della Stampa del 15 maggio. Poche illusioni. Non ci resta che lottare. (Sandro Paramatti)

La Stampa del 15-05-2017

Il fallimento del “dopo di noi” famiglie sempre piu’ sole e 40 mila disabili fantasma

A un anno dalla legge che tutela le persone in difficoltà senza padri e madri mancano fondi e strutture. I genitori: “Speriamo che i figli non ci sopravvivano”.

La legge che doveva cambiare tutto, apparentemente non ha cambiato niente. Eppure nel maggio del 2016, quando la prima normativa organica sul dopo di noi fu licenziata dalla Camera, al governo era tutto un darsi di gomito: avete visto? Pensiamo ai più deboli. Bello. O piuttosto balle. Perché i più deboli non se ne sono accorti.

«Siamo gli unici genitori del mondo a sperare che i figli non ci sopravvivono», dice Lucia Viggiano, mamma napoletana di una meravigliosa disabile grave, Francesca. E una dei circa trecentomila genitori italiani che spendono l’esistenza di fianco a figli che si limitano ad abitare corpi destinati a diventare un orpello. Adulti con la testa ricca e incompleta di bambini. Persone che vanno lavate, nutrite, accompagnate, seguite, curate e gestite ventiquattro ore al giorno. Esseri umani che, stando alla relazione presentata al Senato nell’aprile del 2016 dal presidente dell’Istat, Giorgio Alleva, «vedranno in futuro aumentare il rischio di esclusione ed emarginazione, se la società non sarà in grado di fornire loro il supporto di cure e l’autonomia economica assicurata attualmente dalla rete familiare». La legge sul «dopo di noi», con i suoi trust, i suoi fondi vincolati, le sue agevolazioni fiscali per le assicurazioni fino a 750 euro, la sua «deistituzionalizzazione» (strutt ure monstre sostituite da case famiglia) e i suoi cohousing, avrebbe dovuto garantire quel supporto. Chiacchiere. L’obiettivo non è stato neppure sfiorato. Forse perché non si voleva, di sicuro perché non ci si è dotati degli strumenti per farlo. «Ma perché, davvero esiste una legge per noi?», dice delusa Lucia.

E’ sempre la relazione di Alleva a spiegare perché il «dopo di noi» non funziona. Ci sono due limiti e un buco nero. In assenza di una anagrafe sulle disabilità è impossibile dire quante siano le persone con problemi gravi in Italia (si stima circa due milioni) e non esiste una fotografia delle difficoltà che affrontano quotidianamente. Le necessità di un ragazzo autistico di 25 anni sono diverse da quelle di un down di 40. Mancano sia l’analisi quantitativa sia l’analisi qualitativa. Senza le quali non è chiaro quanto incidano i finanziamenti previsti: 90 milioni per il 2016, 38,3 milioni per il 2017 e 56,18 milioni per il 2018, vale a dire meno di 400 euro l’anno a disabili che, accolti in strutture idonee costerebbero allo Stato 200 euro al giorno.

S oldi integrativi che integrano ben poco. E’ come se si decidesse di servire cinquanta pasti a una mensa dei poveri dove arrivano mille persone. A 950 rimangono affamate. Dove vanno a mangiare? E’ la stessa domanda che si fa l’Istat – e questo è il buco nero – su 40 mila disabili gravi che escono dai radar quando muoiono i genitori. Desaparecidos che, secondo l’associazione nazionale famiglie di persone con disabilità intellettiva o relazionale, sono almeno cinque volte di più: oltre duecentomila. È accettabile che un Paese civile non faccia chiarezza? «Temiamo che i desaparecidos della disabilità finiscano in strutture non rilevate, centri per anziani o ex ospedali psichiatrici. La dispersione è enorme. Per altro le strutture sono concentrate al Nord, come se al Centro e al Sud vivessero tutti in famiglia», dice Roberto Speziale, presidente dell’Anffas. «Però la legge comincia a dare i suoi effetti e le Regioni stanno producendo i piani attuativi. Si vedono già i primi p ercorsi virtuosi di vite indipendenti e di qualità per le famiglie». Non a Napoli, dove Francesca ha fame e dice: mamma voglio la pizza.

La solitudine.
Vomero, sala d’attesa dello studio odontoiatrico di Toni Nocchetti, una specie di santo laico che dedica la sua vita ad aiutare i disabili e ha fondato l’associazione «Tutti a Scuola Onlus». Sui divani ci sono i genitori di cinque ragazzi con gravi problemi cognitivi. E Lucia è una di loro. Francesca, che ha diciotto anni e la pelle bianchissima, le accarezza i capelli. Glieli pettina. Poi le mette un braccio intorno al collo. Lucia lascia fare, mentre Olga Caprio Innacolo racconta del suo Michele, che oggi ha 41 anni. Lei e il marito lo hanno adottato quando di anni ne aveva due. Lo sapevano come stava. Non gli è mai importato. «Sono stati anni pieni d’amore». Poi Michele è cresciuto, è diventato più aggressivo, più difficile, e Olga, una donna che sembra di carta velina e invece è di cemento, ha compiuto 75 anni. «Si dondola, non riesce a stare fermo. Al mattino lo portiamo all’Antoniano, una centro semiresidenziale dove lo trattano con attenzione. Alle due mio marito l o va a prendere e con qualunque tempo lo porta a vedere le partite di calcetto. Michele resta in macchina, accende la musica, guarda fuori ed è felice». E la legge sul dopo di noi? «Solo parole. Quando muoio il mio Michele non lo voglio rimanere a nisciuno». Anna Cattolico è la mamma di Gianluca, che di anni ne ha 36. Dice che lei una vita sua non l’ha avuta. Eppure è stata una vita bella. Faticosa, epperò degna. «Vorrei fare il premier per una settimana. Lo conosco il problema. Saprei come affrontarlo. Quello del dopo di noi non è un modo. Delle volte Gianluca lo devo inseguire con il bastone, perché alza le mani. Qualche tempo fa mi ha spaccato un sopracciglio. Però vivo per lui. Lo Stato non lo sa, ma io sì». Olga è nonna. E dice che Gianluca non si fa avvicinare da nessuna. Ma dalla sua nipotina di 4 anni sì. Lui chiude la porta. Lei la riapre. Gli va vicino e gli dice: vieni come ne. «Lui allunga la manona e la segue docile. Da qualche parte questi ragazzi hanno sempre un canale per comunicare». Solo che a forza di cercarlo ci si consuma. Il premio Nobel per la Medicina, Elizabeth Blackburn, segnala che i caregiver familiari – padri, madri, fratelli, zii, che si dedicano ai disabili gravi – hanno una aspettativa di vita più bassa della media di diciassette anni. Importa a qualcuno? A pochi, ma a qualcuno sì.

Laura Bignami, senatrice del gruppo misto, ha depositato in Senato una proposta di legge che di questi 17 anni tiene conto. Norme che in Polonia e in Grecia esistono già, ma da noi no. Il suo ragionamento è semplice. Chi vive meno per seguire i figli deve avere il diritto di andare in pensione cinque anni prima. «Noi chiediamo semplicemente di rendere più umana la dinamica sociale. Per capire quanto vale l’impegno di queste persone basterebbe portassero i loro figli tutti assieme al pronto soccorso e li lasciassero lì. Sarebbe subito chiaro il costo sociale di cui si fanno carico. La mia è solo una provocazione. Ma provate a pensarci. Certi problemi sono forse irrisolvibili. Ma tirare su la testa dalla melma si può». La sua proposta di legge è lì. Basta votarla. «Il dopo di noi è un piccolo seme, ma i trust, il co-housing e le polizze assicurative si potevano fare anche prima. Bastava avere i soldi. Esattamente come oggi». Nello studio di Toni, Francesca dice: «Mamma ho freddo, chiudiamo la finestra?» Intanto arriva la pizza.

Assicurazioni boom.
Secondo l’Istat nei prossimi dieci anni i disabili gravi che rimarranno senza parenti saranno 160 mila. La loro aspettativa di vita cresce, mentre l’età media dei loro genitori si alza. Il problema non sono soltanto mamme sempre più adulte e dunque più esposte ai rischi legati a una gravidanza tardiva. Una ricerca pubblicata dal «Financial Times» segnala come i padri che concepiscono dopo i 40 anni (un esercito in crescita costante) mettono al mondo bambini che corrono un rischio tre volte superiore di sviluppare un disordine dello spettro autistico. Molti disturbi cognitivi che fino a 30 anni fa non erano diagnosticati oggi intervengono a disegnare il quadro sempre più complicato di una realtà che l’Italia continua a ignorare, non recependo la classificazione di disabilità grave riconosciuta dall’Icf, l’international classification functioning. La disabilità non è una malattia. Ma una condizione. Che va definita anche in relazione alle possibilità di interazione sociale c onsiderata individualmente.

«Con questa indeterminatezza la politica ci va a nozze. Perché può permettersi di non ridiscutere lo Stato sociale. L’opacità non è casuale, è fatta apposta. Io contro questa legge mi sarei incatenato in Parlamento. Invece è passata, avendo come unico effetto quello di arricchire le assicurazioni», dice Nocchetti, che ha due figlie perfettamente sane e che si occupa di disabili solo perché glielo chiede il cuore. «Secondo lei esiste una stima dell’aspettativa di vita di un disabile che perde i genitori?». No. «Esatto. Io credo che resista molto poco». Francesca dice: non voglio la pizza. Poi la mangia. E allora dice: buona.

Soldi sprecati e fratelli.
Sui divani dello studio al Vomero il dibattito tra i genitori continua. La legge sul dopo di noi è inutile per tutti. Lucia dice che i soldi non basta metterli. Bisogna anche capire come vengono spesi. E che quel controllo non lo fa nessuno. Sembra una riflessione piccola, invece è decisiva. Dice che gli assistenti sociali dei comuni spesso sono impreparati, che li pagano – poco – per un lavoro che non sanno fare. Che lei al suo ha rinunciato, perché era più un danno che un vantaggio. E anche Maria, che è la mamma di Biagio, un colosso di due metri, ha rinunciato al suo.

Lucia vuole anche andare via da Napoli, trasferirsi a Reggio Emilia, dove abita sua figlia Ludovica, perché al Nord i servizi sono migliori, ma lo sa che per Ludovica sarà un guaio. Anche i fratelli e le sorelle di disabili gravi hanno esistenze complicate.

Le attenzioni dei genitori vanno sempre a chi sta peggio. Angela, che ha due occhi da innamorarsi, mostra la foto di suo figlio Gianmarco, 21 anni, i lineamenti da attore e un disordine dello spettro autistico. Dice che la casa di famiglia l’ha intestata a lui. E che la sorella lo ha accettato dopo un po’. Ma che lei non può fare altro. «Lo so che ci sono istituti migliori e altri peggiori. Ma io non sopporto l’idea che Gianmarco finisca in uno di quei lager da 100 persone dove i ragazzi diventano dei numeri di cui non importa a nessuno».

Segue un dibattito su quanto sia giusto che i figli ricevano in eredità la disabilità dei fratelli. Ci sono posizioni molto diverse. Tommaso, che è il papà di Biagio, dice che ha letto di un genitore di Novara che ha sparato al figlio disabile e poi si è ucciso. «Io lo considero un gesto d’amore». Angela la pensa come lui. «Io lo so che Gianmarco finirò per portarlo via con me».

E la legge sul dopo di noi? «Quale legge?». Quella che secondo Speziale risponde alle angosce delle famiglie «ma che il governo non è stato capace di comunicare». Quella che i genitori qui al Vomero leggono e poi appoggiano delusi sul tavolo. «Gli unici che garantiscono diritti ai nostri figli siamo noi», dice Lucia. Francesca, che è elegantissima, come se nell’abbigliamento fosse possibile aggiungere scampoli di vita gregaria, urla: «Mamma, andiamo a casa?».

 


La Stampa del 15-05-2017

“Tommy orfano. Quanta angoscia pensare al futuro”

La testimonianza.
Nicoletti, padre di un ragazzo autistico “Me lo tengo stretto finché sarà possibile”.

Finalmente qualcuno comincia a dare qualche cifra sui nostri desaparecidos. Secondo le fonti sarebbero da cinquanta a duecentomila le persone disabili che, in Italia, devono essere considerate «evaporate».
Mi distrugge l’anima, ma sono contento che si abbia il coraggio di fare la conta degli invisibili, si attenuerà così il coro delle anime belle pronte a dirmi: «Lei fa di ogni erba un fascio, venga a visitare le nostre belle strutture…». Posso mai dar retta a chi per mestiere si occupa dello stoccaggio e mantenimento in vita dei nostri ragazzi, quando noi genitori saremo trapassati?
Invito chi legge a immaginare che, in quel numero enorme di esseri umani che mancano all’appello, fatalmente potrebbe un giorno essere annesso anche il proprio figliolo. Ebbene siete sicuri che da quel momento i vostri sonni continuerebbero a essere tranquilli?
Mi direte che non è un problema vostro, che siete di sicuro solidali con noi genitori di ragazzi «con difetto di fabbrica» ma non potete certo accollarvi un altro peso emotivo, in un paese che già ogni giorno di occasioni di angustia per chi «tiene famiglia» comunque ne fornisce a bizzeffe.
Non chiedo comprensione, come tanti che conosco mi sto arrangiando da solo, come alla fine s’illudono di poter fare quasi tutti. Quelli per lo meno che, come me, i figli vogliono averli a portata di mano fino a che le mani ci reggeranno. So che altri, anche noti e che molto pontificano, i figli balzani tipo il mio hanno preferito farli rinchiudere, naturalmente ci sarà sempre qualcuno a rassicurare che è stato per «il loro bene».
Sono scelte. Non giudico quelle altrui, io il mio Tommy me lo terrò stretto il più possibile. Farà una bella vita fino che io potrò farmene carico, fino a che tutta la sua famiglia lo terrà da conto come se fosse un gioiello.
Non mi sono mai illuso che una legge potesse cambiare una cultura arretrata, quella che mi fa leggere negli sguardi altrui sempre lo stesso pensiero: «Ma perché non lo metti da qualche parte e vivi il meglio possibile la tua vita?». Ogni volta che mi corico penso che il mio primo dovere è svegliarmi l’indomani. Sul dramma di pensare con angoscia al fatto che nostro figlio possa sopravviverci ho detto e raccontato già molto, lo faccio da quando mi sono accorto di avere in carico uno di quegli esseri umani destinati dalla nascita a essere «fantasmi».
Ho anche girato l’Italia per conoscere le storie di umani scomparsi, molti vegetano abbarbicati a quel che resta di madri e padri, ormai vecchi, sempre più stanchi e sempre più isolati dalla società civile. Gli altri non hanno più nemmeno un nome, sono solo una retta che qualcuno paga. Non ho ancora visto una soluzione che possa essere un modello replicabile, che assicuri ai nostri ragazzi una vita simile a quella che noi ogni giorno ci affanniamo a mettere assieme. Si continui pure a dire che la politica a noi ha già pensato, può essere, ma chi fa leggi dovrebbe provare la responsabilità perenne di figli con la barba, o figlie con le tette, e non riuscire a immaginarli orfani di te, se non disperati e inermi come fringuelli caduti dal nido.

 

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