Si susseguono, terribili, i casi di giovani cittadini europei, figli di immigrati, che compiono atti sanguinari ispirati all’islamismo più folle e assassino. Né mancano vili tentativi di strumentalizzazione del terrorismo da parte della propaganda populista, che ha per altro una sua precisa parte di responsabilità per il clima di serio disagio sociale in cui prospera l’islamismo jihadista.
EDITORIALE
Il lavoro contro il terrore
di Andrea Ermano
Si susseguono, terribili, i casi di giovani cittadini europei, figli di immigrati, che compiono atti sanguinari ispirati all’islamismo più folle e assassino. Né mancano vili tentativi di strumentalizzazione del terrorismo da parte della propaganda populista, che ha per altro una sua precisa parte di responsabilità per il clima di serio disagio sociale in cui prospera l’islamismo jihadista.
Ma è importante comprendere che gli orribili massacri di Manchester, Londra, Berlino, Parigi, Orlando e Nizza non hanno a che fare soltanto con la guerra civile globale che il fondamentalismo muove alle società aperte e secolarizzate d’Occidente, in perenne “dialettica” con gli estremisti del fondamentalismo di casa nostra. Le stragi terroristiche hanno a che fare anche con una diffusa presenza di pulsioni distruttive nella società contemporanea.
Non è meno perverso, per esempio, il trend di quei (numerosi) giovani che, adescati in rete, “radicalizzano” comportamenti autolesionistici fino al suicidio compiuto a scopo “dimostrativo” o “emulativo”. Né possiamo dimenticare il cosiddetto scool shooting, il “massacro scolastico”, di cui si hanno sinistri esempi non distanti nel tempo in Europa e in America. Senza contare una continua serie di casi più isolati e localizzati, che non conquistano le prime pagine della stampa globale, ma che vedono ugualmente giovani e giovanissimi coinvolti in atti di violenza contro se stessi e gli altri. Infine, sopravvive ancor sempre la violenza fascista compiuta da bande di “autoctoni” contro gli immigrati: le loro abitazioni prese di mira, gli ostelli incendiati, le persone inermi insultate e pestate per strada o peggio.
Ogni forma di violenza, giovanile e non, va condannata con fermezza, a partire dalle varie guerre che dilaniano il mondo e che sono le madri di molti conflitti ulteriori. Perciò occorre evitare che certi casi di violenza possano essere, scientemente o inconsciamente, trasformati in alibi per giustificare violenze di segno opposto, lungo una spirale notoriamente luttuosa per tutti.
Al fondo, dobbiamo comprendere che ovunque oggi nel nostro mondo il disagio giovanile ha assunto livelli allarmanti. Di fronte ai quali sembriamo tutti affetti da forme di accecamento e di cecità.
Un autorevole esponente delle istituzioni, a chi dopo Manchester invoca una cultura della sicurezza tipo “Stato ebraico”, ha recentemente ribattuto che i giovani europei certo non sarebbero disponibili a prestare tre anni di servizio militare come i loro coetanei d’Israele.
Ma, se lasciamo da parte il servizio specificamente militare, e ci domandiamo che ne sarebbe di una leva civile, scopriamo che questa prospettiva in realtà ottiene un alto gradimento presso le nuove generazioni.
Del resto, che cosa scegliereste voi se vi fosse offerta l’alternativa tra un certo numero di mesi o anni di Niente e un certo numero di mesi o anni di Servizio civile? Per esempio, andate a dare una mano alle popolazioni terremotate, perfezionate le vostre competenze formative, partecipate al processo decisionale tramite cui si scelgono le priorità d’impiego del Servizio civile di cui fate parte. E, per questo “lavoro di cittadinanza”, che voi prestate, ricevete un “reddito di cittadinanza”.
Lo preferireste al Niente?
A favore di un “lavoro di cittadinanza” si sono espressi, in questi ultimi anni in Italia, dapprima Nichi Vendola, che lo ha parzialmente introdotto, da governatore, in Puglia nel 2015. Più di recente ne ha parlato Berlusconi. Infine, anche Matteo Renzi ha rilanciato l’idea facendo leva sulla Costituzione: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro” (Cost. 1).
Anche l’economista Giovanni Dosi, professore alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, invitato a un convegno del M5S, tema il “reddito di cittadinanza”, ha detto: “Forse sarebbe meglio il lavoro di cittadinanza, come proponeva Hyman Minsky: lo Stato manda i disoccupati a riempire le buche delle strade, accompagnare i disabili, accudire gli anziani”.
Ora, non ha decisiva importanza stabilire qui se l’idea sia stata partorita prima dal neo-keynesiano statunitense Hyman Minsky (1919-1996) o non piuttosto dal leader radicale italiano Ernesto Rossi (1897-1967). Quel che conta è che “il lavoro di cittadinanza” può trasformarsi in un modo strutturale e, finalmente, pubblico per riassorbire la disoccupazione giovanile dentro un orizzonte di senso sociale condiviso.
Come s’è più volte sostenuto, la soluzione migliore in questa direzione consisterebbe nell’inalveare il “lavoro di cittadinanza” dentro l’estensione in progress del Servizio civile. Questo per ragioni organizzative, ma anche di finanziabilità: la mutua offerta di beni e servizi può essere in parte remunerata grazie a forme di moneta locale, fiscale e previdenziale. In altre parole: tu presti servizio di leva civile e lo Stato ti garantisce un “soldo” minimo, un paniere di beni e servizi oltre che un certo credito impositivo e pensionistico.
Accanto al tema dei lavori socialmente utili, andrebbero studiati, come s’è più volte detto, anche altri temi importanti, che attengono alla formazione permanente, alla partecipazione democratica e alla sicurezza, quanto meno in quelle zone del paese in cui si addensa l’allarme sociale di vasti strati della popolazione.
Collegare il salario di cittadinanza all’istituzione di un Servizio civile universale realizzerebbe un elevato grado di coerenza sotto il profilo costituzionale, permettendo l’introduzione della leva civile in sostituzione di quella militare. La Carta vi fa riferimento parlando di un “sacro dovere del cittadino” (Cost. Art. 52).
Ho letto bene?! L’espressione “sacro dovere” suona esotica alle nostre orecchie, e richiede un breve approfondimento almeno sotto forma di carrellata degli articoli in cui queste due parole appaiono.
Iniziamo dal “dovere”.
Il primo passo in cui la Carta fondamentale ne parla è l’Art. 4: “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
Poi c’è l’Art. 30: “È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio. / Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti”.
Quindi l’Art. 48, del quale molto si è parlato durante l’ultimo anno: “Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico”.
Infine, l’Art 54: ” Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. / I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore…”.
Fin qui le occorrenze in cui la “più bella del mondo” parla di dovere. Altri doveri non sono costituzionalmente previsti. Ma quei pochi suscitano, in chi rilegga gli articoli citati, l’impressione di un’imbarazzante infedeltà collettiva.
Quanto alla nozione costituzionale di “sacro”, essa appare solo nell’Art. 52. Ma doveva essere sembrata così ovvia ai costituenti, che nessuno di essi la mise minimamente in discussione o, men che meno, ne propose l’emendamento.
Altri tempi? Può darsi. Certo, quando i leader delle maggiori forze politiche di un paese pluralista convergono intorno a una formula, non è detto che tutti i problemi siano risolti, ma può darsi che siano iniziati almeno percorsi di ascolto dell’opinione pubblica e di attenzione per gli eventi storici.
L’AVVENIRE DEI LAVORATORI
La più antica testata della sinistra italiana, www.avvenirelavoratori.eu
Organo della F.S.I.S., centro socialista italiano all’estero, fondato nel 1894
Sede: Società Cooperativa Italiana – Casella 8965 – CH 8036 Zurigo
Direttore: Andrea Ermano