Compie 40 anni in questi giorni la legge 517, una disposizione che ha segnato una svolta profonda per il diritto allo studio di tutti e che ha formalizzato la volontà di costruire e garantire l’inclusione scolastica anche per le persone con diverse disabilità. Ma a quarant’anni di distanza quel percorso appare ancora incompleto e discontinuo, conserva dei coni d’ombra…
A quarant’anni dalla 517, quale futuro per l’inclusione?
di Gianluca Rapisarda (*)
Compie 40 anni in questi giorni la legge 517, una disposizione che ha segnato una svolta profonda per il diritto allo studio di tutti e che ha formalizzato la volontà di costruire e garantire l’inclusione scolastica anche per le persone con diverse disabilità. Ma a quarant’anni di distanza quel percorso appare ancora incompleto e discontinuo, conserva dei coni d’ombra e, anche grazie a buone prassi, lancia nuove sfide non ancora compiutamente raccolte.
A 40 anni dalla sua emanazione la legge 517 del 4 agosto 1977 non rimane solamente una “pietra miliare”, ma il caposaldo dell’attuale modello di inclusione scolastica del nostro Paese.
È quella norma, per la prima volta, a porre le basi per l’inclusione degli alunni con disabilità già dalla scuola primaria e secondaria inferiore. Vi prevede l’introduzione di un “docente di sostegno” in possesso di un apposito titolo di specializzazione, con il compito di supportare il Consiglio di classe nella progettazione di una “didattica inclusiva”.
La figura del docente di sostegno, pertanto, diventa centrale ai fini dell’integrazione scolastica degli alunni/studenti con disabilità, anche se ancora solo all’interno della scuola elementare e media.
Con un altro passaggio storico, qualche anno dopo, e precisamente nel 1987, la sentenza 215 della Corte Costituzionale riconoscerà il pieno diritto allo studio di tutti le persone con disabilità, aprendo concretamente anche le porte della scuola secondaria superiore.
E tuttavia, in quegli anni, abbiamo assistito anche ad un inserimento “selvaggio” degli alunni con disabilità nella scuola nominalmente “di tutti”. È mancata una compiuta e seria riflessione pedagogica e didattica sulle modalità di una loro più adeguata ed efficace inclusione.
Da parte nostra abbiamo accettato con soddisfazione questo passaggio dalla scuola speciale alla scuola “comune”, ma quando ciò è avvenuto, tale trasferimento è avvenuto talora con eccessiva disinvoltura e scarsa consapevolezza che contraddistinguono molte iniziative italiane e in particolare della scuola.
Non voglio ingenerare equivoci: non sto tessendo le lodi del tempo dell’educazione “speciale”. Osservo piuttosto che abbiamo operato questo passaggio senza preoccuparci della necessità di offrire a questi ragazzi quei supporti necessari e specifici che conseguono alla loro disabilità, cioè – come sto per dire – senza andare oltre alla mera acquisizione di nozioni.
Pertanto, è accaduto che, malgrado la legge 104 del 1992, e tutta la successiva normativa sull’autonomia scolastica, l’organizzazione della scuola è restata “incastrata” ed inchiodata in un contesto nel quale, a tutt’oggi, nella programmazione ordinaria destinata agli allievi con disabilità, non trovano posto – o lo trovano solo saltuariamente attività di orientamento ed all’autonomia personale, di avviamento allo sport, di orientamento professionale, di insegnamento del Braille e della LIS, dell’uso delle tecnologie “assistive” ecc..In pratica, il docente per il sostegno si è da sempre trovato a dover gestire da solo l’alunno/studente con disabilità.
A ciò si aggiunga che il 40% degli attuali docenti di sostegno sono “precari privi di un’adeguata preparazione e che i nuovi “corsi polivalenti di specializzazione” degli anni 80 e 90 dei docenti di sostegno (fino agli odierni TFA) sono diventati ormai troppo generalisti e generici, con inadeguata attenzione alle specificità delle singole disabilità.
Tale scenario ha consolidato un modello di inclusione che, snaturando i suoi originali ed iniziali principi pedagogici e didattici, è divenuto sempre più assistenziale ed inefficiente.
Nel sistema attuali notiamo quindi i punti deboli: la carente ed insufficiente formazione specifica di molti insegnanti specializzati, la diffusa impreparazione dei docenti curricolari, del personale ATA e del contesto scolastico nei confronti degli allievi disabili. A ciò si aggiunga l’ormai consolidata e perversa delega al solo docente per il sostegno dell’alunno/studente con disabilità, con la conseguente ed inevitabile emarginazione e ghettizzazione di quest’ultimo nelle famigerate “aule di sostegno”.
L’esperienza di questi quarant’anni ha generato non pochi dubbi sull’efficacia di assumere “a contratto determinato” un esercito di docenti specializzati “supplenti” ed “in deroga” (spesso poco preparati e competenti sulle singole disabilità): precarietà e scarso investimento sugli operatori non giovano a nessuno.
Lo stesso aumento del numero di ore di sostegno non è sufficiente in sé per garantire la qualità del processo di inclusione dei nostri ragazzi con disabilità: quantità non è sinonimo di qualità.
Per assicurare il pieno successo scolastico degli alunni/studenti con disabilità, occorrerebbe invece promuovere finalmente un’adeguata e specifica azione formativa di massa di tutto il personale scolastico e non solo dei docenti specializzati. I focus sono la didattica inclusiva e la pedagogia speciale, una reale continuità didattica che passi però da un Piano serio e strutturale di assunzione dei docenti di sostegno con un loro definitivo transito nell’organico di diritto.
Ma soprattutto, è indispensabile realizzare contesti flessibili, dotati di strumenti, ambienti e materiali accessibili e capaci di progettare ed attivare iniziative per classi aperte e parallele, per gruppi omogenei ed eterogenei ed insegnamenti personalizzati ed individualizzati, attenti veramente alle differenze individuali ed ai bisogni educativi di tutti e di ciascun alunno.
A parere di chi scrive, il più grande difetto del nostro sistema inclusivo è che, in Italia, abbiamo leggi innovative e tra le più avanzate nel mondo in questo settore, che troppo di rado si traducono in “buone prassi”, non sortendo alcuna ricaduta concreta sul diritto allo studio degli alunni/studenti disabili.
Non basta approvare bellissime leggi, da tutti invidiate, da molti copiate e che ci fanno vincere prestigiosi riconoscimenti internazionali, se poi il nostro Ministero dell’istruzione non assume una visione strategica, di una vera e propria policy sull’inclusione scolastica, abdicando alla conseguente programmare a medio e lungo termine.
Adeguiamo ed applichiamo una volta per tutte la nostra normativa “inclusiva” alla luce dei moderni principi dell’approccio “bio-psico-sociale alla disabilità dell’ICF del 2000 e della nuova prospettiva culturale delineata dall’art 24 della Convenzione ONU del 2006 che considera il diritto all’istruzione un diritto umano “insopprimibile” di ogni persona, a prescindere dalla sua limitazione funzionale. Solo così, riusciremo a rendere definitivamente la scuola italiana davvero inclusiva e “for all” ed a modificare i presupposti dell’intera nostra organizzazione scolastica, ritrovando e riaffermando lo spirito originale dell’autentica cultura dell’inclusione sancito dalla legge 517/77.
3 agosto 2017
(*) Direttore scientifico dell’IRIFOR (Istituto per la Ricerca, la Formazione e la Riabilitazione) dell’UICI (Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti).