Mi ritrovo a non poter vivere la mia passione politica in pieno. Defraudata, spogliata di un bisogno antico, così viscerale e potente in me. La consapevolezza degli anni mi portano a non essere arrabbiata, ma a considerare la mia esperienza quasi un canovaccio sul quale tracciare un percorso che non è solo mio, ma che coinvolge conosciuti e sconosciuti, amici e nemici, il popolo addirittura.
Elezioni in Sicilia, sono un’emigrata e per la prima volta nella mia vita non ho votato
“Una donna del sud, leninista, che oggi non ha votato. Che oggi non ha potuto votare.”
di Giusi Greta Di Cristina*
Oggi è uno di quei giorni dai sentimenti contrastanti.
Conosco così bene le passioni da avere paura dei frutti che può dare una vita spesa con la furia – sì la furia, le passioni non gradiscono la velocità moderata – propri di chi vive inseguendo le passioni.
Ed oggi mi ritrovo a non poter vivere la mia passione politica in pieno. Mi sento defraudata, spogliata di un bisogno antico, così viscerale e potente in me. Eppure, eppure, la fatica e la consapevolezza degli anni (ne ho 37, sono abbastanza) mi portano a non essere arrabbiata, ma a considerare la mia esperienza quasi un canovaccio sul quale tracciare un percorso che non è solo mio, ma che coinvolge conosciuti e sconosciuti, amici e nemici, il popolo addirittura.
Oggi, per la prima volta nella mia vita non ho votato. E non per scelta o per rabbia: un comunista vota, un comunista leninista pesa sulla bilancia – quella degli orafi, non quella che abbiamo in bagno – ogni minima possibilità di lotta, anche lì, dentro quelle maledette urne, poste dove sono da un potere borghese che ha tentato di silenziarci, non con la forza, ma trasformando ogni nostra capacità di riflessione in bieca ignoranza. Parlo dei comunisti: delle scelte altrui non mi importa.
Così, dicevo, per la prima volta non ho votato. Sono un’emigrata, anche io, come centinaia di migliaia in questo Paese turboliberista che sogna ancora l’America, e talmente sogna l’America da imitarne i suoi peggiori difetti.
Sono un’emigrata. A volte mi mastico in bocca questa frase per vedere l’effetto che mi fa dentro sentendola echeggiare. E fa uno strano effetto.
Qui, nel già freddo nord, lavoro, ho un appartamento, uno stipendio. Ho iniziato, finalmente, a progettare, nonostante sia una precaria. È così: se passi dal nulla dei rimborsi a uno stipendio al mese si progetta, ci vuole poco ad accontentarsi.
Faccio un lavoro bellissimo, che mi fa tornare a casa stanca ma col sorriso, con la consapevolezza che le mie azioni, i miei gesti, le mie parole possono influenzare e quindi vanno gestiti con molta prudenza. Perché io, come dicevo, sono una passionale, una tipica donna dal sangue meridionale.
Una donna del sud, leninista, che oggi non ha votato. Che oggi non ha potuto votare.
Quando sono partita qualche mese fa mi sentivo quasi sollevata dall’incombenza: la mia è una terra complessa, difficile, dove la gente si lamenta ma dinnanzi alla possibilità di cambiamento di solito si tira indietro. O sceglie cambiamenti di pancia, dunque errati anch’essi.
Oggi invece ho sentito il peso di non aver posto il segno con la matita indelebile, qualsiasi esso sarebbe potuto essere.
Il sistema ha fallito, e cosa siamo noi, emigrati, disoccupati, precari, se non la dimostrazione plastica del fallimento del sistema?
Il sistema, si badi bene, non la “destra”.
Il sistema gestito da quei signori che hanno buttato alle ortiche decenni di conquiste di diritti sociali, di sicurezze per i lavoratori, di speranze per i giovani, di garanzie per gli anziani.
Quel sistema che si ripresenta, talvolta senza neppure cambiare i nomi, sfacciatamente, senza vergogna, e pretende di poter avere la parola, di dichiarare le solite bugie, i soliti slogan. Non un cenno di pentimento. Cambia il nome del contenitore politico ma la solfa è sempre la stessa: mantenere inalterato il LORO status quo, la LORO ricchezza, il LORO potere, la LORO poltrona.
In un’altra dimensione, questo 5 di novembre iniziano le celebrazioni di commemorazione della Rivoluzione d’Ottobre, di quei “dieci giorni che sconvolsero il mondo”. E mentre migliaia e migliaia di comunisti di tutto il mondo sono a Mosca, mi chiedo quanti di loro siano profondamente consapevoli di cosa si debba fare per far sì che le commemorazioni siano linfa del fuoco, miccia di un cambiamento globale oramai non più rimandabile, anima di una unione fra i popoli.
Sono cambiati i mezzi di produzione, è vero. I proletari hanno differenti volti e differenti collocazioni. Eppure il nemico è sempre uguale: è il capitale, la finanza, che sfrutta il singolo fino ad annientarla, che ha fatto della omologazione il credo, della lotta fra poveri il ring privilegiato.
E la “sinistra”, quell’idiota, serva, inutile sinistra che negli ultimi anni a questo Capitale ha servito su un piatto d’argento i popoli in nome del “rinnovamento”, di una “ripulitura” che ha giovato così tanto ai padroni da non aver più bisogno dei manganelli, né dei carri armati.
Sì, giusto ogni tanto qualche spruzzo di sangue, qua e là, immediatamente ingurgitato dalla Sinistra, ché fa brutto schierarsi contro lo Stato borghese.
Quello stesso stato borghese che ripete che il comunismo ha fallito (quale comunismo? Quando in Italia c’è stato il comunismo?) ma spende milioni affinché la tv pubblica parli di questo fallimento. Ed anche in questo caso il silenzio assordante della Sinistra. La Sinistra che piace al padrone, che vuole assomigliare al padrone.
Anche a causa di quella Sinistra io oggi non ho potuto esercitare il mio diritto al voto: i voli erano improponibili, per una comunista precaria. Men che meno ho potuto recarmi a Mosca, figuriamoci.
Ammetto di essermi sentita straniata. Di aver anche ingoiato le lacrime che volevano uscire. Non lo nego: ho pianto tanto, tantissimo in questi mesi. La solitudine, il cambiamento possono essere devastanti.
Ma il rifiuto verso un sistema che nega a un cittadino un diritto basilare in una società che si dice democratica è imponente. Ed è un rifiuto che un comunista non può incanalare nella frustrazione o nell’ignavia.
È un rifiuto che dinnanzi allo stato attuale delle cose, al disfacimento dei diritti sociali del popolo – italiano, europeo, mondiale – non può più rimanere inerte.
Ha smesso di piovere finalmente a Torino. Ci prepariamo a un altro giorno di lotta, di resistenza, di coraggio.
*responsabile nazionale Dipartimento Esteri PCI per le relazioni con l’America Latina.