Poche righe di cronaca, qualche ora di stupore e bestialità varie vomitate, e tutto scorrerà via. Ormai, chi se ne ricorda più? E chi si ricorda più di Ebrima Sanko? E chi dei 21, alcuni probabilmente iracheni o iraniani, che vagavano quasi 7 Natali fa nei dintorni della stazione di Vasto – San Salvo? Trovato aggrappato sotto un tir, è solo cronaca. Banale, lineare cronaca.
Col suo marchio speciale di speciale disperazione e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi
Poche righe di cronaca, qualche ora di stupore e bestialità varie vomitate, e tutto scorrerà via. Ormai, chi se ne ricorda più? E chi si ricorda più di Ebrima Sanko? E chi dei 21, alcuni probabilmente iracheni o iraniani, che vagavano quasi 7 Natali fa nei dintorni della stazione di Vasto – San Salvo? Trovato aggrappato sotto un tir, è solo cronaca. Banale, lineare cronaca. Da leggere sfogliando il “giornale” al bar prima di passare oltre. Curdo imbarcato dalla Grecia, migliaia di chilometri aggrappato al telaio. E giù banalità e luogocomunismo vario. Magari prima di sentire in tivù che in Iraq è stata trovata un’immensa fossa comune di persone trucidate dall’ISIS.
E chissà, che non fuggiva anche da loro. Ma non lo sapremo mai. Non sapremo mai come si chiama, di che colore i suoi occhi e quali stelle vi hanno mai brillato. Chissà dov’è ora. Come avrà mai sognato e immaginato l’Europa? L’attende qualcuno laggiù? In quella terra straziata, martoriata, divisa tra Stati che non vogliono riconoscerli. Ma il cui popolo, fiero e libero, coraggioso e indomito, non si arrende mai. Perché che davanti ci siano i terroristi dell’ISIS o il nazionalismo turco, non si sono mai piegati. E su quei monti, in quella terra straordinaria, rigata da fiumi ma anche da tanto, troppo sangue, chi l’avrà salutato forse per l’ultima volta? L’avrà abbracciato, tra le lacrime che solcano il viso, una Leyla dagli occhi più profondi del mare?
Quante raffiche, quante bombe, quante violenze avevano già visto i suoi occhi? Quanti trafficanti e criminali hanno attraversato la sua vita e tenuto in pugno il suo destino? Almeno 50 ore, ferito e ustionato. Quanto terrore nel suo cuore, così da esser disposto a vivere quest’agonia straziante?
La rotta balcanica. Se ne parlava già poco meno di vent’anni fa. Turchia, Patrasso, Brindisi. Tempo che sembra passato invano. Risfogliando la cronaca di allora sembra di leggere quella di oggi. Cambiano i numeri – cifre snocciolate come fossero punti del supermercato o del campionato di calcio ma vivaddio sono PERSONE, null’altro che persone – ma come in un terribile gioco dell’oca siamo sempre fermi alla casella di partenza. Passano gli anni, le cronache, cambiano le giacche del potere e la società ma parliamo ancora e sempre di disperazione, terrorismo, sfruttamento, schiavitù, guerre, malattie, paura, respingimenti e cattiva politica, business e mafie.
Ogni tanto proviamo a far parlare altro e altri, ad ascoltare con altre orecchie e guardare con altri occhi. Che non siano nostri, che non partano da noi stessi.
Alì, mi sia permesso chiamarlo così anche se il suo nome non lo sappiamo, ha bussato delicatamente alle nostre porte. Senza grandi limousine, giacche e cravatte. Non aveva valigette piene di soldi provenienti da chissà dove. Non ha trovato tappeti rossi e borse aperte, convegni luccicanti e business rampanti. Non specula sulla pelle di nessuno, non vuol licenziare e rapire il destino di altri. Fra poche settimane sarà Natale. Mentre ci si starà preparando ad essere immersi tra luci, regali, addobbi e orpelli vari, anche quest’anno, come sempre più negli ultimi, c’è chi rimarrà fuori. Sarà un Natale carico di dolore nelle tantissime famiglie che, anche quest’anno hanno visto un loro familiare morire. Sul posto di lavoro o per malattia, per una tragedia e per le tantissime crudeltà umane.
Sarà un Natale triste e mesto nelle migliaia di famiglie che la speculazione e le ingiustizie hanno lasciato, o stanno lasciando, senza un lavoro. Come non pensare alla Honeywell o a tante altre industrie anche vicino a noi. O senza una casa, perché si anche nell’Italia del 2017 c’è chi è senza casa.
Nelle ore in cui sto scrivendo sta arrivando la prima grande bufera di neve sulla Penisola. Per moltissimi, che forse il Natale neanche ricordano cosa sia, neve, freddo e gelo possono significare la morte. Mentre ci prepariamo al cenone natalizio ricordiamo che esistono anche loro. Così come esistono gli anziani, spesso lasciati soli e abbandonati in ospedali e ‘ospizi’ vari perché disturbano la festa. E il lusso delle nostre tavole, l’immensa mole di cibo che finirà nella spazzatura, ci venga a nausea. Una nausea che ci sconvolga lo stomaco, al solo pensiero che per milioni di persone, nei sotterranei della storia, la spazzatura è l’unica fonte di sostentamento. Si alzano la mattina e non sanno se la fame e la miseria permetterà loro di giungere a sera.
Tra i “simboli” del Natale su tutti, insieme all’albero e a Babbo Natale, c’è il Presepe. E allora, nelle nostre case, guardano il Presepe che stiamo costruendo, Maria e Giuseppe rifiutati da tutti gli alberghi, e poche settimane dopo la nascita di Gesù costretti a fuggire clandestinamente in Egitto, ci facciano sentire il cuore duro come macigno nel momento in cui le nostre coscienze non vengono smosse dal fratello rifiutato, da coloro che chiedono dignità e vita e bussando non trovano porte aperte ma muri invalicabili, violenze, soprusi, ingiustizie, crudeltà. Che ci rendano il cuscino del giaciglio notturno più duro di una pietra, che ci tolga ogni pace della coscienza di quanto ci passeremo le giornate ignorando e “cancellando” quel che avviene ad ogni latitudine. Dalla Siria al Kurdistan, dall’Iraq all’Afghanistan (16 anni di guerra mai ininterrotta, chi si accorge che ancora oggi lì si muore, quotidianamente assassinate dalle guerre dei “nostri governanti”?!) dai lavoratori a cui viene tolto ogni diritto alle donne sfruttate, violentate, stuprate (anche a pochi passi da noi, nel silenzio e nel disinteresse più totale, ma non vien la nausea, un immenso dolore fisico, come è possibile dormire la notte davanti alla denuncia documentata della più turpe schiavitù sessuale nel ragusano o da quel che accade ai bordi delle strade – o nelle più svariante stanze d’albergo – anche nei comuni del nostro Abruzzo?!), dai bambini congolesi imprigionati nelle miniere del coltan a chi la crisi economica (anche nella nostra civile e moderna Europa) ha tolto anche un tetto, dai malati a cui non viene garantito il diritto alla dignità e alle cure alle vittime (di ogni età, troppo spesso anche bambini di pochi mesi) della “Terra dei Fuochi” o nella Taranto prigioniera dell’inquinamento più massiccio del continente.
Il coraggio di Giuseppe, che accetta in casa Maria senza spaventarsi di cosa sarebbe potuto accadere, ci faccia sentire fino in fondo il peso dell’ipocrisia, del perbenismo, della condanna moralistica e arrogante con la quale vengono segnate persone e vite.
Il sorriso del bambino nella culla ci stringa il cuore, perché molti bambini non sorrideranno la notte di Natale. Ci salga una vergogna immensa mentre doniamo giocattoli se non ci siamo domandati (e nulla abbiamo fatto di conseguenza) la provenienza di quegli oggetti. Che, per far divertire alcuni bambini, possono essere lacrime e sangue dello sfruttamento di migliaia di loro coetanei.
Le tenere braccia del Bambino non ci facciano mai, mai e poi mai dimenticare che molte mani stringono un fucile o si tendono verso la loro Madre in cerca di un cibo che non avranno mai.
Ma davanti all’Alì, qualunque sia il suo vero nome, di cui già ci siamo dimenticati. A pochi passi da questo nuovo Natale, davanti alle sofferenze e alle ingiustizie, alle disumanità e alle crudeltà, c’è una sola realtà reale possibile. Non si deve partire dal nostro sguardo, non possono essere le nostre vacue e passeggere certezze la stazione o il porto. Davanti allo smarrimento, ad una barbarie e ad una mortifera e cruenta società in guerra, sempre più diseguale e incapace di chinarsi e guardare altrove, c’è solo uno sguardo possibile. Potremo superare ogni crisi, ogni paura, ogni angoscia, solo quando ripartiremo dagli ultimi, dagli scarti, dai disperati. Quando non penseremo a rinchiuderci nel nostro egoismo, nei nostri bantustan, confini e muri. Fosse anche solo nei confronti del vicino e di chi passa accanto a noi. Cosa se ne potranno mai fare di militarismo e missili, f35 e qualsivoglia spesa militare sempre in aumento coloro che la mattina si alzano e non sanno se la sera vedranno il tramonto?! Cosa potranno mai farsene dei nostri proclami, delle nostre propagande, dei nostri “programmi” coloro che – come i kurdi – quotidianamente lottano contro terrorismo e la peggior barbarie da 70 anni?! Come si può continuare a proseguire in certe direzioni se i risultati son quelli che vediamo quotidianamente, che avvelenano e rendono sempre più insicuro questo nostro dilaniato e insanguinato mondo? E quindi, potremo tornare a sperare, la storia dell’umanità potrà ricominciare a camminare quando la Storia sarà rovesciata. Quando sarà letta dai poveri e dai diseredati, quando sulle tavole del ricco epulone sederà il povero Lazzaro. Quando il destino non lo decideranno cravattari e affaristi senza scrupoli, burattini di lobby e rapaci interessi di pochi. Ma i poveri, gli ultimi, gli emarginati, i deboli e i sofferenti.
I tanti Alì, di ogni nazionalità e destino, che quotidianamente attraversano la nostra quotidianità ci ricordano che esiste un’altra esistenza, che è possibile esistere e vivere. Che è possibile ascoltare col cuore, gettare la nostra vita per qualcosa di più della carriera e dell’arrivismo, per meschini calcoli e vuote certezze che ci arricchiscono solo all’apparenza. Che si può vivere col cuore, ascoltare col cuore. E ogni volta che asciugheremo una lacrima, ogni volta che ci caricheremo di una croce, che ci renderemo conto che il dolore e la sofferenza degli altri non sono dolore e sofferenza a metà, saremo tornati umani. E avremo donato futuro e speranza a questa nostra società che non spera più. E dove il baratro si sta divorando tutto più di un buco nero.
Alessio Di Florio
“Con il nostro sbarco a Gaza, abbiamo voluto dimostrare che la storia siamo noi. La storia non la fanno i governati codardi con le loro ignobili sudditanze ai governi militarmente più forti. La storia la fanno le persone semplici, gente comune, con famiglia a casa e un lavoro ordinario, che si impegnano per un ideale straordinario come la pace, per i diritti umani, per restare umani. La storia siamo stati noi, che mettendo a repentaglio le nostre vite, abbiamo concretizzato l’utopia, regalando un sogno, una speranza a centinaia di migliaia di persone. Che hanno pianto con noi, approdando al porto di Gaza, come i tre anziani palestinesi vittime della diaspora imbarcati sulle nostre navi, che non hanno mai potuto piangere sulle tombe dei familiari: hanno pianto, ma sono state lacrime di gioia. Il nostro messaggio di pace è un invito alla mobilitazione di tutte le persone comuni, a non delegare la vita al burattinaio di turno, a prendersi in prima persona la responsabilità di una rivoluzione. Una rivoluzione interiore che promuove quell’amore e quell’empatia che di riflesso cambierà il mondo. […]abbiamo dimostrato che la pace è possibile in medio oriente. Perchè se un ebreo israeliano come Jeff Helper è accolto come un eroe, addirittura un liberatore, da decina di migliaia di persone festanti in estasi (da quelli che la politica e i media si impegnano a dipingere come terroristi), allora la pace non è un’utopia e, se lo è, abbiamo dimostrato che a volte le utopie si concretizzano” (Vittorio Arrigoni, settembre 2008).