Attraverso la finestra della sala delle medicazioni vedo le foglie muoversi nel vento. Ci siamo spostati lì per farlo morire in pace. Ma quella che doveva essere l’ultima carezza per accompagnarlo fino alla fine è diventata un momento infinito.
Un solo desiderio: che finalmente si lasciasse andare, che si arrendesse. Io e Samiullah, l’infermiere con cui lavoro, siamo uno a destra, l’altro a sinistra del letto. Senza poter far nulla. Teniamo una mano appoggiata su quel piccolo corpo per non farlo sentire solo. Si è aggiunto anche Padshah, un nostro collega infermiere, in silenzio. Le foglie continuano la loro danza nel vento. Non mi ricordo nessun rumore, nessun altro intorno.
Ma il bambino non vuole arrendersi, quel cuore non si vuole fermare. Spostiamolo, non si sa quanto continuerà a combattere. Tutto quello che posso fare è somministrare farmaci per alleviare il dolore e sperare con tutta me stessa che faccia veramente effetto. Nient’altro.
E te ne convinci perché altrimenti non resisteresti. Prima di portarlo via, prima di farlo scomparire tra tende bianche e letti bianchi, facciamo entrare il padre.
Chiede aiuto con gli occhi, in silenzio. Combatte contro le lacrime e, anche se subito non scendono, perde quella battaglia inutile. Sono rossi. Sono lucidi. Mi guardano mentre ascoltano la voce di Padshah che spiega che non c’è più nulla da fare, che non potevamo neanche provarci. Perché ogni tanto le mine non lasciano nulla da salvare. E lui guarda me, guarda loro, guarda la piccola creatura che giace davanti a lui. Guarda il suo bambino di quattro anni e scuote la testa. “Non doveva succedere questo, non doveva succedere”.
Quella maledetta mina gli ha portato via le gambe e gli ha distrutto la pelvi. Il cuore però continua a battere. E così i minuti passano, nel silenzio, tra quelle lacrime di dolore soppresse.
– Sarah, infermiera di Emergency a Lashkar-gah, Afghanistan |