Ci sono anche la Cia e il Mossad israeliano a soffiare sul fuoco della rivolta in Iran? L’accusa è stata rilanciata dal Teheran Times, in un’intervista che il quotidiano in lingua inglese ha condotto con il columnist Stephen Lendman, un giornalista-ricercatore americano, di origine ebraica, molto noto per le sue battaglie libertarie.
Cia e Mossad dietro la rivolta in Iran?
Lo scenario di oggi era già stato descritto con 6 mesi di anticipo dalla rivista Usa Politico
di Piero Orteca – Remocontro
Ci sono anche la Cia e il Mossad israeliano a soffiare sul fuoco della rivolta in Iran? L’accusa è stata rilanciata dal Teheran Times, in un’intervista che il quotidiano in lingua inglese ha condotto con il columnist Stephen Lendman, un giornalista-ricercatore americano, di origine ebraica, molto noto per le sue battaglie libertarie. Tra le altre cose, anche i due leader della teocrazia persiana, la Guida Suprema Ali Khamenei e il Presidente Rohuani, pur da fronti sostanzialmente diversi, hanno scaricato sui “nemici esterni” la responsabilità di sostenere la ribellione. Se non proprio di averla addirittura progettata a tavolino. Per la verità, il sospetto (o la quasi certezza, a farla corta) è venuta agli analisti di mezzo mondo.
Anche perché, come ha subito registrato la nostra “Gazzetta”, Trump e i suoi collaboratori mostrano di avere la lingua lunga. Qualche tempo fa avrebbero sussurrato di volere “un cambio di regime” nel Paese degli ayatollah. L’azzardosa strategia, che comunque cavalca problemi sociali e politici reali dell’Iran, farebbe parte di un “pacchetto” di intese raggiunte sottobanco dalla Casa Bianca e dal leader israeliano Netanyahu. Nel mazzo ci sarebbe anche la sparata su “Gerusalemme capitale”, che ha sollevato un vespaio di polemiche e ha allargato il solco tra la diplomazia europea e la “foreign policy” dell’attuale Amministrazione Usa. Trump, in sostanza, starebbe premendo sull’acceleratore per gettare lo scompiglio in casa del nemico numero uno di Israele.
Lo spiffero è vecchio, ma è tornato a circolare proprio in questi giorni nei Palazzi che contano. E lo scenario che, guarda tu, si sta verificando oggi, era stato già anticipato in un articolo rivelatore pubblicato alla fine di giugno in uno dei più prestigiosi siti di analisi americana (“Politico”). Dunque, gli Stati Uniti pensano a un cambio di regime a Teheran, che metta in un angolo l’attuale teocrazia e lasci il campo a un governo che abbia meno mire espansionistiche nel Golfo Persico. Con grande gioia, soprattutto, dell’Arabia Saudita e di tutto il blocco sunnita. Israele, da parte sua, ha il chiodo fisso del Golan. E, per la proprietà transitiva, di Hezbollah e dei suoi grandi sponsor sciiti. Gli ayatollah.
Dentro l’Amministrazione Trump si starebbero confrontando due linee: una (che pare vincente) sparata contro i politici col turbante; l’altra, forse minoritaria, molto più prudente, che ricorda il fallimento del colpo di Stato sponsorizzato nel 1953 dalla Cia. Forse fu proprio in base a questo “undicesimo comandamento” (“ogni rivoluzione fallita provoca una restaurazione ancora più forte”) che Obama, nel 2013, alle Nazioni Unite, proclamò solennemente il principio della non interferenza Usa negli affari interni di Teheran. Ora, invece, a sentire Lendman, i “trumpiani” avrebbero già cotto, mangiato e digerito la prudenza del mai tanto compianto Barack, contribuendo a fare esplodere un’altra devastante crisi di cui proprio non si sentiva il bisogno, in un’area già tranquilla di suo come un nido di calabroni.
Ne chiede conto e ragione anche Putin, che si è sentito con Netanyahu e ha concordato un incontro a breve per parlare di Medio Oriente. E di Iran. La questione-chiave è che l’algoritmo della catastrofe è dietro l’angolo. Quando Obama decise di raggiungere un’intesa di massima con gli ayatollah lo fece a ragion veduta: i suoi advisor gli dissero che era fondamentale mettere un freno al dilagare del terrorismo di matrice sunnita. E poi, aggiunse qualcuno, una tattica di reciproca neutralizzazione tra il blocco saudita e quello sciita avrebbe potuto garantire se non la pace, almeno un proficuo “status quo”.
Adesso, la scuola geostrategica che si porta appresso Trump ha rigirato la frittata, alimentando il polverone che già gravitava su tutto il Medio Oriente. E se tre indizi fanno una prova, come diceva Agatha Christie, allora il “twitter” postato da Trump solleva una marea di sospetti: “Il popolo iraniano sta finalmente combattendo contro il suo brutale e corrotto regime. Tutti i dollari che Obama ha dato stupidamente a questi governanti sono stati spesi in armi e terrorismo o sono finiti nelle loro tasche. La gente non ha cibo, non ha diritti umani e l’inflazione è alle stelle. Gli Stati Uniti osservano”. Oppure organizzano?
Notizia del: 03/01/2018