“Arriva l’autunno, cadono le foglie e i riti si ripetono. Non sempre però questi riti risultano innocui, in particolare in momenti politici come questi”.
L’autunno dell’impotenza
Arriva l’autunno, cadono le foglie e i riti si ripetono. Non sempre però questi riti risultano innocui, in particolare in momenti politici come questi. A fronte di una situazione in cui si mischiano molti elementi contrastanti e di cui bisognerebbe capire bene le tendenze – non solo per interpretarle correttamente, ma per agire – troviamo i vecchi arnesi del radicalismo pronti a ripetere il gioco di sempre, essere cioè all’opposizione a prescindere, senza avere la capacità e la volontà di cambiare rotta e di sapersi inserire nell’effettivo scontro politico e di classe con proposte che siano in grado di superare gli zero virgola.
Perchè ci troviamo in questa situazione di impotenza? Per spiegarla non ricorriamo a motivazioni personali, di accusa cioè ai singoli responsabili – il che comunque non li assolve conoscendone la storia – ma a questioni oggettive.
Se come comunisti abbiamo subito in questi decenni non solo l’ondata controrivoluzionaria ma anche la crescita di filosofie ‘comuniste’ che nulla hanno a che fare con il carattere scientifico del marxismo e del leninismo, che è altra cosa del cosiddetto emmellismo, lo dobbiamo proprio alla crisi del movimento comunista di cui il PCI è stato parte importante. Ciò che ci viene presentato oggi infatti ha ben poco a che fare con le questioni che il movimento comunista ha affrontato e la strategia che ha espresso nella sua storia, è una sorta di neocomunismo a sfondo massimalista in cui la rivendicazione immediata è tutto e il futuro è ridotto ad ideologia. Posta su questo piano la situazione permette anche lo sviluppo di mille rivoli movimentisti che peraltro spesso assumono, per le loro caratteristiche intrinseche, un rilievo preponderante rispetto a quelle che si dimostrano semplici velleità politiche.
La crisi del movimento comunista, e per noi di quello italiano espresso dal PCI, ha determinato questo stallo, che non è superabile con operazioni identitarie o con un’ideologia rivendicazionista. La parte migliore della tradizione comunista ci insegna che i partiti che ad essa si richiamano hanno dovuto impostare una strategia che superava l’anarco-sindacalismo e il minoritarismo come condizione per avere influenza nella dialettica politica e nello scontro di classe.
Spesso si cita il Gramsci di Lione, ma ben poco la politica del PCI dal ’43 in poi che non può essere assimilata al compromesso storico proprio invece della fase degenerativa berlingueriana. La politica di massa del PCI e la democrazia progressiva (che non è la ‘via italiana al socialismo’ post 1956) è un percorso che ci fa capire che con gli slogans non si va lontano. Bisogna conquistare sul terreno la capacità di egemonia su milioni di persone che vogliono cambiare le cose.
Oggi noi non abbiamo a disposizione un partito comunista che abbia questa capacità. Esso è stato distrutto e ricominciare nella nuova fase storica è problema molto complesso. Dobbiamo avere innanzitutto un nucleo pensante di comunisti che abbia analizzato le questioni della crisi del movimento comunista e individuato un percorso di ripresa. Non si tratta di assemblare analisi di vario genere, ma di dar vita a una ricerca e una verifica costante della fase storica su cui innestare l’azione politica e verificarne gli effetti.
Minoritarismo e identitarismo sono il contrario di questo progetto e questa ‘malattia infantile’ condiziona tutte le possibilità di ripresa. A partire dalle questioni legate alla fase politica che sta attraversando l’Italia, rispetto alla quale il minoritarismo radicale e identitario ha lavorato alla grande per il re di Prussia. L’elenco della spesa ha prevalso sulla capacità di intervenire sul programma dei 5 Stelle e sulle dinamiche politiche tra le forze in campo per portare le cose più avanti, per fare in modo che i provvedimenti sul reddito di cittadinanza, sulle pensioni, sul decretò dignità, sulla giustizia e sulla politica internazionale, a partire dall’UE, non fossero lasciati alla controffensiva padronale e globalista.
I comunisti avrebbero dovuto ragionare su questo e invece il minoritarismo ha prevalso e prevale ancora in questo autunno dell’impotenza. Un corteo non si nega a nessuno, basta che stia lontano dallo scontro effettivo.
Cambiare si può? La risposta, a nostro parere, è legata allo scioglimento di questi nodi: la forma che deve avere un’organizzazione politica nel contesto concreto della situazione italiana, il modo di crescita delle organizzazioni di massa che siano anima e supporto al programma di cambiamento e la definizione di un programma che abbia fondamento oggettivo. Facendo, preliminarmente, piazza pulita delle caricature ‘antagoniste’ e del comunismo taroccato.
Aginform
2 ottobre 2019