L’aggressione ai curdi nel Rojava ha mostrato ancora una volta come il mondo del XXI secolo continui a essere soggetto alla legge della giungla. Diritti umani e diritto internazionale sono carta straccia. L’esercito turco vuole prima di tutto sopprimere la straordinaria storia di autogoverno del Confederalismo democratico. “Quel confederalismo fa paura alla Turchia di Erdogan – scrive Sergio Segio – poiché mostra nel concreto come e quanto la forza della ragione possa opporsi alle ragioni della forza: di quella nazionalista e islamofascista, che opprime popoli ed etnie; di quella maschile e patriarcale, che vorrebbe sottomettere le donne; di quella onnivora e suicida del capitalismo, che minaccia e devasta gli equilibri ecologici…”. Ai curdi rimasti soli e al Rojava è dedicato l’ultimo numero di Global Rights magazine
È decisamente raro, ma ogni tanto anche il presidente statunitense Donald Trump mantiene quel che dice: il 6 ottobre 2019 ha annunciato il ritiro delle truppe americane dal nord della Siria, a dispetto degli accordi e dell’alleanza militare con le Forze Democratiche Siriane (FDS), a maggioranza curda. Pochi giorni dopo il ritiro avveniva effettivamente, consentendo ai soldati della Turchia di subentrare nell’area e di occuparla. La dichiarata intenzione di Recep Tayyip Erdoğan è quella di trasferirvi i milioni di profughi siriani presenti in Turchia, oltre che di scongiurare la temuta formazione di un territorio autonomo kurdo a ridosso della propria frontiera.
Una soluzione non sgradita alla Russia, che ha potuto così consolidare la propria centralità nella definizione degli scenari futuri della regione, contentando altresì l’alleato Erdogan che gli è paradossalmente, essendone uno dei membri più armati utile in funzione anti NATO, e consentendo anche a Bashar al Assad di riprendere ruolo e controllo del territorio a nord-est, nonostante lo scippo turco di una sua parte attraverso una zona “cuscinetto” di ben 120 chilometri quadrati liberata dalla presenza di tutti i combattenti kurdi, in base agli accordi stipulati a Sochi tra Vladimir Putin ed Erdogan il 22 ottobre.
Accordi che sigillano il vero e proprio tradimento nei confronti dei kurdi che, sul terreno, avevano sconfitto le forze jihadiste dello Stato Islamico a beneficio del mondo intero, a cominciare dalle ingrate potenze occidentali, Stati Uniti ed Europa in testa. La cui unica preoccupazione è ora legata al rischio che almeno una parte dei circa 11mila miliziani di Daesh, di cui 2.200 foreign fighters, prigionieri delle FDS possa essere liberata dall’avanzata turca e costituire una nuova minaccia di azioni terroristiche.
L’aggressione ai kurdi nel Rojava e l’imposizione di una “fascia di sicurezza” nel nord-est siriano a beneficio e sotto il controllo della Turchia ha così mostrato ancora una volta come il mondo del XXI secolo continui a essere soggetto a un’atavica norma, talora temperata nelle forme ma non nella sostanza: la legge della giungla. Con la non piccola differenza che ora avanzate, costose e sempre più letali tecnologie belliche hanno sostituito le clave.
L’integrità territoriale, il diritto internazionale, l’autodeterminazione dei popoli, la democrazia, i diritti umani sempre affermati con cinica retorica – generalmente a voce più alta proprio da quell’Occidente così pronto a violarli in base alle proprie convenienze – diventano carta straccia quando sono in gioco gli interessi economici, energetici, militari, geopolitici e geostrategici delle grandi potenze e in particolare della prima: gli Stati Uniti d’America.
Il rovesciamento delle parole e della verità
Solo una mente beffardamente criminale poteva chiamare le campagne militari contro i kurdi del Rojava prima “Ramoscello d’ulivo e poi “Fonte di pace”. Solo una concezione vile e meschina della politica internazionale poteva abbandonarli nelle rapaci grinfie di Erdogan dopo aver profittato del loro coraggio e abnegazione nella mortale lotta contro Daesh.
Alle radici di questa nuova aggressione non si sono solo l’odio storico del sultano turco verso i kurdi, il cinismo dei suoi alleati e dei loro interessi. Al fondo e al centro c’è la questione esplosiva dei flussi migratori e degli sfollati dalle guerre, ma anche dei nuovi rifugiati ambientali. Quelli che si manifestano sono infatti scenari apocalittici, che si avvicinano a causa dei ritardi e delle resistenze nell’affrontamento del climate change. Di nuovo, per responsabilità principale del negazionista Donald Trump, che non per caso ha riempito la sua Amministrazione di manager provenienti da aziende petrolifere, e dei suoi vassalli, come quel presidente brasiliano Jair Bolsonaro, nostalgico della dittatura militare e sponsor dell’industria estrattiva e di quella dell’agrobusiness all’arrembaggio della foresta amazzonica, insostituibile polmone verde del pianeta.
Analogamente a quanto accaduto con lo sciagurato accordo europeo stretto con la Libia e di quanto si sta allestendo nel Sahel, ma anche di quanto avviene al confine statunitense con il Messico, l’esigenza primaria dell’Occidente è quella di sigillare i confini, di trattenere e contenere rifugiati e migranti in Paesi distanti, dove non sia cogente il rispetto di standard minimi e di diritti umani. All’esternalizzazione delle frontiere si affianca e consegue così il subappalto delle violazioni e dei crimini contro l’umanità. Come se vi fosse davvero differente responsabilità, morale e politica tra il mandante di una strage e il suo esecutore.
Il guardiano della Fortezza Europa
Almeno da quando, nel 2016, alla Turchia è stato assegnato, e lautamente retribuito, il ruolo di frontiera esterna dell’Europa, contemporaneamente le è stato regalato un potere di ricatto inesauribile nei confronti della stessa Unione e un salvacondotto riguardo la quotidiana e sanguinosa repressione interna, il sistematico sfregio dei diritti delle opposizioni e delle minoranze, così come di ogni regola e parvenza democratica, con l’incarcerazione massiccia di esponenti di un partito rappresentato in Parlamento come l’HDP, con l’esautorazione di sindaci regolarmente eletti, con la caccia alle streghe e le retate di contestatori, kurdi e anche turchi. Da ultimo, gli sbirri di Erdogan sono giunti ad attaccare a Istanbul una pacifica marcia durante la Giornata Mondiale contro la Violenza sulle Donne del 25 novembre 2019.
Nell’occasione, il Comando generale YPJ aveva invitato le donne di tutto il mondo ad alzare la voce contro l’occupazione e la violenza inflitte alle donne del Medio Oriente, così come in ogni altro luogo: «La lotta delle sorelle Mirabal oggi continua a vivere nella lotta di migliaia di donne. Noi siamo pronte a pagare ogni prezzo per difendere i successi della lotta delle donne. Per le speranze delle sorelle, per la lotta delle nostre amiche Hevrîn, Dayika Eqîde e Amara, per tutte le migliaia di amiche e amici caduti rafforzeremo ancora la nostra lotta nel nostro legittimo diritto all’autodifesa contro l’occupazione».
Autogoverno e confederalismo fanno paura
Tra le cause scatenanti l’aggressione e l’occupazione del Rojava ve n’è, in effetti, una che supera anche quella della difesa della “Fortezza Europa”: ed è la necessità per la Turchia e dei suoi alleati di distruggere l’unica democrazia del Medio Oriente, vale a dire il modello del confederalismo democratico, di cui si vuole estirpare la vigenza e l’esempio, affinché non possa contagiare altre aree e popoli e non possa interferire e contrastare i regimi autoritari della regione, con i quali l’Occidente ha un rapporto di cointeressenza e di protezione.
Il confederalismo democratico fa paura alla Turchia di Erdogan poiché mostra nel concreto come e quanto la forza della ragione possa opporsi alle ragioni della forza: di quella nazionalista e islamofascista, che opprime popoli ed etnie; di quella maschile e patriarcale, che vorrebbe sottomettere le donne; di quella onnivora e suicida del capitalismo, che minaccia e devasta gli equilibri ecologici.
Per tutto ciò stiamo con i kurdi, qui risiede il significato dell’ultimo numero di Global Rights magazine: schierarsi, prendere parte, solidarizzare con chi è sottoposto alla brutalità della forza militare e statale ma che tuttavia resiste, poiché ha dalla sua l’insopprimibile forza della ragione che combatte – ed è destinata a vincere – contro la legge della forza.
La legge contro la giustizia
Del resto, in generale, la legge è niente più che una lontanissima parente della giustizia, tanto che tra loro spesso neppure si parlano. È una fotografia e rappresentazione dei rapporti tra le classi in un dato momento storico, uno strumento atto a preservare la dominanza di una sulle altre, si diceva e sapeva nel Novecento. La legge del più forte è la quintessenza di quel principio, valida anche nel rapporto tra Stati. Basti guardare a come funziona il Tribunale penale internazionale.
In Turchia la legge impera con violenza, viene imposta con feroce prepotenza; ma, in forme analoghe o sia pure attenuate, ciò avviene in molti altri Paesi del mondo, dove parimenti la giustizia è stata esiliata. Proprio come avviene per i kurdi, la giustizia spesso non ha più luogo e terra dove abitare ma ha una cristallina ragione che la rende insopprimibile e potente.
Terroristi, li chiama Erdogan, con sfacciata torsione della verità dei fatti e della storia. Terroristi sono invece quei governi e quegli Stati che si dicano islamici o si fingano democratici che si impongono attraverso la paura, la privazione della libertà, le polizie, le torture, l’oppressione.
I kurdi sono rimasti soli. Gli Stati Uniti li hanno traditi, l’Unione Europea è ricattata e si volta da un’altra parte, le Nazioni Unite balbettano impotenti.
Sono soli, repressi e violentati perché hanno ragione. Per questo stiamo con loro e gli dedichiamo le pagine di Global Rights – International magazine (il numero di dicembre 2019, è scaricabile da questa pagina di Dirittiglobali.it).
di Sergio Segio
09 Dicembre 2019
Foto di Proget to Banos Film (che ringraziamo) tratta dall’ultimo numero di Global Rights magazine
https://comune-info.net/la-legge-del-piu-forte-e-la-forza-della-ragione/