Davanti a uno schermo gigante, la ministra delle politiche penitenziarie, Iris Varela, mostra il sistema di controllo, altamente automatizzato, che consente il monitoraggio in tempo reale delle carceri venezuelane, dove chi vi alberga non viene chiamato detenuto, ma “privata e privato di libertà”.
Spiega Varela: “Ho disegnato io lo schema, che ho poi sottoposto a un ingegnere venezuelano. Il software è cinese, ma l’hardware è nostro. Hai presente il concetto di panottico espresso da Foucault in Sorvegliare e punire? L’idea di fondo è quella. Se il privato di libertà si sente sorvegliato, limiterà le azioni violente”.
Le telecamere funzionano anche nelle celle? “No, certo che no – risponde Varela – rispettiamo la privacy, i diritti umani e l’integrità della persona. Si tratta di sorvegliare per prevenire e reinserire”. E sorride, scuotendo la cascata di riccioli scuri, mentre impartisce disposizioni, efficace e diretta. Una grande organizzatrice, Iris Varela, capace di agire alla velocità della luce per realizzare un’idea, aggirando lentezze e burocrazie. In questi anni ha rivoluzionato il sistema penitenziario, mettendo in riga sia gli incerti che i detrattori.
All’opposizione che le rimproverava di “indottrinare” i detenuti, ha risposto: “Certo, gli sto dando gli strumenti per combattervi, schivando le vostre trappole”. Di trappole, Varela, ha dovuto evitarne parecchie. Durante le violenze dell’estrema destra, il ministero è stato attaccato più volte. “Però con questo sistema – dice – se anche si verificasse un sabotaggio all’edificio, in poco tempo la sala operativa potrebbe essere ripristinata altrove. I dati vengono conservati per cinque anni e consentono di avere una retrospettiva. Attualmente vi sono quattro centri regionali attivi, a Caracas, nel Lara, nel Merida, nel Tachira, altri tre sono in costruzione”.
Ci colleghiamo con alcune delle sale operative regionali. Tutto pulito, calmo, funzionante, distante anni luce dalle bolge di violenza che avevamo visitato fino a qualche anno fa, e dagli allarmi che sistematicamente rimbalzano sui media occidentali. Gran parte delle immagini che servono a suffragare quegli allarmi corrispondono a penitenziari che sono già stati chiusi, demoliti o trasformati in luoghi di cultura.
“Oggi – afferma Varela – possiamo dire che il 100% dei centri di reclusione è sotto il controllo dello Stato. Oltre il 98% degli stabilimenti è retto dal nuovo regime penitenziario, un progetto di attenzione integrale nel quale ogni privato di libertà deve osservare la disciplina, acquisire valori e dedicarsi allo studio e al lavoro”.
Le cifre ufficiali del ministero dicono che in Venezuela vi sono 108 centri detti di formazione più che di detenzione. Lì “vivono persone che hanno problemi e conflitti con la legge; 76 di questi funzionano come penitenziari per i privati di libertà che stanno scontando una pena definitiva, 59 sono per uomini e 17 per donne, e 32 dedicati alla custodia degli adolescenti”. Attualmente, la popolazione detenuta oscilla tra 48.000 e 53.000 persone, ma la capienza complessiva degli stabilimenti è di oltre 80.000 persone.
Direttori e direttore salutano con un “Chavez vive, la patria sigue”. Mostrano le diverse attività svolte con l’impegno degli agenti per costruire un regime penitenziario “umanista, che metta al primo posto il recupero dei privati di libertà attraverso lo studio e il lavoro”. Un gran progresso, che abbiamo potuto constatare recandoci diverse volte nelle carceri nel corso degli anni.
Un cambiamento che avanza al ritmo della rivoluzione bolivariana e che, oltre la cortina di fumo di chi si limita a trascrivere i dati delle Ong di opposizione, viene riconosciuto dagli organismi internazionali preposti, i cui rappresentanti visitano periodicamente il circuito penitenziario. Abbiamo constatato la loro presenza anche in questa occasione.
Varela ci mette a disposizione diversi video, che mostrano il prima e il dopo delle prigioni venezuelane. Il prima era un inferno di violenza e sopraffazione, nell’assenza totale di uno stato per cui gli ultimi erano solo scarti. “Nel 1994 – racconta – durante il governo di Caldera – nel carcere di Sabaneta si è verificato un incendio di grandi proporzioni, la più grande tragedia carceraria del paese. Morirono ufficialmente 108 persone, ma in realtà si parla di 500”.
Il ’94 fu l’anno in cui, per un’amnistia richiesta a furor di popolo, venne liberato dal carcere l’allora tenente colonnello Hugo Chavez Frias insieme agli ufficiali che avevano organizzato la ribellione civico-militare del ’92. Allora – racconta ancora la ministra – “tutti cospiravamo contro lo Stato borghese. Nel 1989 il popolo si era ribellato contro il pacchetto di misure neoliberiste nella rivolta del Caracazo. Fino al cambio di marcia innescato dalla rivoluzione bolivariana, le carceri erano una vera e propria discarica sociale. Una terra di nessuno che pullulava di armi di grosso calibro, usata dalle bande criminali come retroterra. Si usciva nel fine settimana per compiere delitti e poi si rientrava, avendo un alibi di ferro”.
Tra i video più sconvolgenti, c’è quello girato da un gruppo rap di Portorico, i Catedraticos, contrattato dalle mafie carcerarie per un concerto molto pubblicizzato all’estero, nel quale si fa spettacolo della violenza. Si vedono detenuti obbligati a tagliarsi le dita da soli e altre efferatezze compiute dai “leader negativi” ai danni dei più deboli. Violenze comprovate dalla montagna di cadaveri mutilati rinvenuti ogni volta che, dopo un lungo lavoro, la rivoluzione bolivariana è riuscita a smantellare quel sistema di potere e connivenze.
Ricorda la ministra: “Durante la campagna elettorale, Chavez non fa promesse a vanvera. Si propone il compito di rifondare la repubblica con un processo costituente, che ha effettivamente luogo nel 1999. Io ho avuto l’onore di essere eletta come costituente per il Tachira, mia zona di origine. Tra tutti i mali che la rivoluzione si è apprestata ad affrontare, c’era il sistema penitenziario. Sono avvocata, me ne rendevo conto benissimo. I detenuti ci chiedevano aiuto in ogni modo, cucendosi la bocca o compiendo altri gesti di autolesionismo, solo che quando provavamo a entrare, venivamo accolti dai proiettili di quei leader negativi che l’opposizione aveva cominciato a chiamare “pranes” e che, all’interno, erano in possesso persino di lanciagranate. Ovviamente, questo indicava un sistema di corruttele con cui pure abbiamo dovuto fare i conti. Impossibile fare un lavoro costruttivo in quelle condizioni”. Non molto diversa era la situazione nei minorili o nelle carceri femminili.
“Chavez – dice ancora Iris – ha saputo interpretare l’anima del nostro popolo, occupandosi degli esclusi fin dal primo momento. La nuova carta magna, una delle più garantiste al mondo in tema di diritti umani, definisce le norme per la ridistribuzione del potere economico, politico, sociale. Su questa base, in Venezuela la casa (ne abbiamo già costruite 3 milioni), la salute, l’educazione, non saranno mai ridotte a merce, non verranno mai privatizzate. Anche le norme che riguardano il sistema penitenziario, che ho contribuito a redigere, sono molto avanzate, non fosse che per una piccola insidia nella quale siamo caduti e che poteva creare ambiguità in merito all’istituzione di carceri private, ma che si è appianata in seguito e che si tratterà di risolvere definitivamente nel prossimo testo costituzionale”.
Fino a qualche anno fa, uno dei problemi più drammatici denunciati dai detenuti era quello del ritardo processuale. Com’è la situazione ora? Afferma Varela: “Quando Chavez ha creato il ministero del Potere popolare per gli affari penitenziari, ho messo insieme una squadra scelta tra deputati e personale che lavorava nell’Assemblea nazionale, e ci siamo recati nelle carceri. Abbiamo fatto assemblee con i detenuti e le detenute, raccolto le loro denunce, la prima delle quali era la situazione di abbandono giuridico in cui versavano. Abbiamo creato allora il piano Cayapa giudiziaria con il quale abbiamo portato direttamente in carcere il potere giudiziario, per rivedere tutte le situazioni. Quando c’erano palesi ingiustizie, il ministero si faceva carico di sanarle, assumendo le responsabilità in prima persone. Poi, sono arrivate norme specifiche che hanno istituito il regime alternativo attraverso l’approvazione del Codice organico penitenziario. Intanto, mentre abilitavamo nuovi stabilimenti, chiudevamo quelli vecchi e trasferivamo i detenuti a nuova sede. Il presidente Maduro sta continuando sulla via di Chavez, nelle carceri si costruisce cultura e dignità”.
Scorrono altri video con le testimonianze dei detenuti. La ministra illustra i piani di recupero che li hanno via via coinvolti nelle unità socio-produttive, nella costruzione di case popolari, nell’orchestra sinfonica nazionale. “Spesso – dice – mi porto gruppi di adolescenti al Cuartel de la Montaña, in spiaggia, lavoriamo con le famiglie. Una volta abbiamo visitato la base navale di Puerto Cabello, i ragazzi hanno fatto immersione insieme ai sub della Forza Armata Nazionale Bolivariana e poi tutti volevano diventare militari. Ai giovani bisogna dare opportunità e modelli positivi, soprattutto se provengono da famiglie disfunzionali o da situazioni di degrado dove l’azione politica e sociale dello Stato non è ancora arrivata”.
Varela si commuove raccontando la storia di una sedicenne incontrata in carcere per una vicenda di droga: “Aveva ferite da taglio in diverse parti del corpo – ricorda – viveva per strada con un padre alcolizzato e un uomo che l’obbligava a chiedere l’elemosina per procurarsi la droga, e che se non portava abbastanza soldi, si scatenava su di lei. Aveva già due bambini. Quando era incinta del secondo, era finita all’ospedale in fin di vita, e lì un poliziotto l’aveva violentata. Com’era possibile che una ragazzina avesse già sopportato il peso di così tanta violenza?”
Le parole della ministra e le immagini raccolte nei video ci accompagnano mentre visitiamo l’Istituto nazionale di orientamento femminile (INOF), un penale a regime chiuso che alberga un totale di 629 detenute. Ci accompagna la viceministra Mirelys Contreras. Il tabellone affisso all’entrata elenca in dettaglio nazionalità, situazione giuridica e regime carcerario delle detenute.
In un’ala a parte dell’Istituto, si trovano le madri con bambini. Per legge possono rimanere lì fino a tre anni, “ma nei fatti, quando la situazione lo richiede, li teniamo lì fino ai cinque anni – ci ha detto Varela – e poi ci sono i piani di accompagnamento delle famiglie all’esterno, attraverso il lavoro o lo studio”. La giovane agente all’entrata indica che oggi è giorno di visita.
Nello spiazzo antistante, le detenute chiacchierano con i loro parenti. Una volta al mese, hanno diritto anche a un colloquio intimo. Parliamo con diverse di loro. I reati principali sono quelli del traffico di droga, ma anche sequestro e omicidio. Visitiamo i laboratori in cui si cuce, si tesse, ci si taglia i capelli o si continua a studiare attraverso le varie misiones educative e nell’università aperta. Vi sono 11 laboratori socio-produttivi.
Ogni volta che entriamo, veniamo accolte dal seguente saluto: “Umanizzazione, rispetto, ordine e disciplina. Verso la costruzione della donna e dell’uomo nuovo. Buongiorno autorità”. Chiediamo a Yamileth cosa significhi per lei quel saluto: “All’inizio – dice – non capivo, mi avevano detto che faceva parte delle regole, e lo ripetevo. Poi, imparando il rispetto, imparando a conoscere altre parti di me attraverso il lavoro e lo studio, mi è risultato chiaro”. Yamileth, che sta scontando 15 anni per traffico di droga, è una delle donne che, dopo aver imparato il mestiere, è stata abilitata per diventare insegnante del corso, e dovrà formare altre formatrici.
Veniamo attirate da un irresistibile odore di dolci appena fatti. Entriamo nella panetteria, dove lavorano 20 donne, 10 alla mattina e 10 al pomeriggio. Per Dyana, che sta aspettando di uscire in misura alternativa dopo una condanna per sequestro, il carcere ha significato “sofferenza, ma anche una rinascita”.
Qui ha approfittato degli studi, quando uscirà vuole aprire una panetteria, ma anche continuare a esercitarsi con gli strumenti che ha imparato – clarinetto e contrabbasso – e che ha suonato per anni nell’orchestra sinfonica bolivariana.
Al piano di sopra, ci accoglie Flor Ramirez, professora di musica che anima il primo laboratorio penitenziario di liuteria di tutta l’America Latina. Alle pareti vi sono pezzi di legno pregiato, violini, chitarre e cuatros, e strumenti per costruirli. Una sfida alla guerra economica: “I materiali sono molto costosi – dice la docente – ma ci vengono forniti grazie a un convegno realizzato dal ministero con un’impresa cinese e Fundamusical”. Le detenute staccano alcuni strumenti e ci dedicano un piccolo concerto.
Insieme alla viceministra assistiamo poi a uno spettacolo di danza offerto dalle “private di libertà”. Segue una piccola assemblea durante la quale le donne fanno richieste e proposte. Le difficoltà ci sono. Dato il perdurare della guerra economica, già mantenere questo livello di assistenza è quasi un miracolo. Manca il personale specializzato, medici, psicologi, magistrati, molti se ne sono andati, ma restano i più motivati. Marelys Contrera risponde in modo franco e si vede che per questo le detenute l’apprezzano.
C’è un gruppo arrivato da poco da un carcere che è stato chiuso, quello di Coro. Fra loro spicca una giovane donna carismatica e esuberante, che fa proposte e critiche propositive. Si chiama Amanda: “Prima – ci racconta – ero una leader negativa, ho sempre vissuto per strada, ho trascorso 14 anni nei penali quasi tutti in punizione. Da un anno sono qui, faccio cose che non avrei mai pensato di fare, voglio uscire per buona condotta, studiare”.
Ci stringiamo le mani, ci abbracciamo. “Auguri di libertà”. “Amèn, amèn”, rispondono in coro. La viceministra risponde a tutte, prende nota. Un’anziana balla reggendosi al bastone: “Ho imparato a danzare in prigione – dice – presto torno in Olanda, sono a fine pena”.
Passiamo all’ala dove ci sono le mamme con i bambini. Una struttura aperta, con un grande giardino e parco giochi. “Quando la ministra ha formato la sua squadra e mi ha chiesto di farne parte – racconta Contreras – per capire cosa fare, entravamo in un carcere alle 9 di sera e ne uscivamo il mattino dopo, facendo inchieste e assemblee. Le condizioni, qui, erano orribili, non c’erano spazi per le madri e per i bambini. C’era una specie di fossa per le punizioni, chiamata el Tigrito, c’erano corruzione, armi, droga. E guarda, invece, adesso. Le carceri stanno diventando scuole di formazione e unità socio-produttive autonome. A dirigere il ministero siamo tutte donne, oltre alla ministra Iris, vi sono tre viceministre. Lavoriamo tutte a tempo pieno, soprattutto a costruire le condizioni affinché le donne possano riacquistare la propria libertà, che ovviamente è la cosa che più desiderano”.
Ci sediamo all’ombra di un albero. Visitare una prigione lascia sempre il segno, un segno in chiaro-scuro. Pensiamo al video diffuso dall’europarlamentare di centro-destra Antonio Tajani. Proveniva dallo Stato Anzoategui. Mostrava detenuti nudi stesi a terra, tormentati da uomini in divisa.
Che ne pensa la viceministra? Contreras spiega: “Nel sistema penitenziario, tutto il personale riceve una formazione permanente, basata sul rispetto dei diritti umani e con attenzione al tema di genere. Cose del genere non potrebbero succedere. I Centri di detenzione preventiva non competono al nostro ministero. Dipendono dalla polizia municipale, e lì possono verificarsi violazioni dei diritti. In molti casi, la situazione di questi centri è simile a quella che abbiamo incontrato all’inizio del nostro lavoro, nel 2011. In questo caso, in primo luogo si agisce con tutto il peso della legge. Il nostro Pubblico Ministero, Tareck William Saab, che è stato Difensore del Popolo, considera che uno stato senza giustizia non possa funzionare. Ma, intanto, stiamo cercando di affrontare il problema in termini generali. La ministra Varela ha chiesto che il nostro ministero assuma anche altre competenze al riguardo. Abbiamo già ottenuto la direzione generale di otto Stati, dove stiamo applicando gli stessi piani di attenzione giuridica e amministrativa sperimentati nel circuito penitenziario. Ma è un lavoro da formica e i problemi sono ancora tanti, ci vuole tempo”.
di Geraldina Colotti