Rosarno: cosa (non) è cambiato a dieci anni dalla rivolta dei braccianti

Sono passati dieci anni da quando Rosarno, piccolo centro della Piana di Gioia Tauro fino ad allora conosciuto solo per gli agrumeti e per la presenza capillare della ndrangheta, è divenuto noto per la cosiddetta “Rivolta di Rosarno”. Solo allora l’opinione pubblica scoprì che ogni anno, nei mesi di picco della raccolta agrumicola, oltre 2000 migranti raggiungono le campagne della Piana per lavorare come braccianti in condizioni di gravissimo sfruttamento, costretti a vivere in edifici abbandonati, casolari diroccati o baraccopoli improvvisate in condizioni drammatiche e umilianti. Quell’anno erano circa 1500 i lavoratori stranieri, per lo più giovani uomini provenienti dai Paesi dell’Africa subsahariana occidentale e regolarmente soggiornanti, presenti nella Piana. Oggi, a dieci anni di distanza, il numero resta pressoché invariato – dopo aver raggiunto picchi di oltre 3000 presenze negli anni passati – e altrettanto sconcertanti restano le condizioni di vita e di lavoro. E d’altra parte, ieri come oggi, le istituzioni locali – spesso commissariate per infiltrazioni mafiose – e quelle nazionali appaiono incapaci di qualsivoglia pianificazione politica efficace, coraggiosa e lungimirante, limitandosi invece a riproporre il circolo vizioso sgombero-tendopoli-baraccopoli, che da dieci anni lascia invariate le piaghe dello sfruttamento lavorativo, del degrado abitativo e dell’abbandono dei territori.

Se infatti nel 2010 i lavoratori impiegati nella raccolta trovavano rifugio in una ex fabbrica in disuso – una delle tante costruite con i finanziamenti della legge 488 del ‘92 e poi abbandonate – e in un’altra struttura abbandonata nella zona industriale di San Ferdinando, oltre che nei numerosi casolari diroccati sparsi nelle campagne dei Comuni limitrofi, in assenza di qualsivoglia servizio di base, oggi il sovraffollamento, l’assenza di servizi e l’estrema precarietà delle condizioni igienico-sanitarie restano invariati per le oltre mille persone che popolano i casali abbandonati. Poco è cambiato anche per le oltre 400 persone che affollano l’ennesima tendopoli ministeriale – sorta in seguito allo sgombero della baraccopoli abitata da circa 2500 migranti avvenuto a marzo 2019 – e che versa in condizioni di sovraffollamento e degrado. La carenza di soluzioni abitative adeguate rende i lavoratori sempre più invisibili, poiché costretti a disperdersi in abitazioni di fortuna nelle campagne, e sempre più esposti   allo sfruttamento e al caporalato.

Dal 2014 Medu opera nella Piana con una clinica mobile, per garantire la tutela della salute e dei diritti fondamentali e l’accesso alle cure e ai servizi socio-sanitari da parte della popolazione degli insediamenti precari del territorio. Da dicembre 2019 la clinica mobile è di nuovo attiva nella Piana di Gioia Tauro e fornisce assistenza sanitaria e socio-legale alla popolazione degli insediamenti precari, in particolare presso la tendopoli ufficiale sita nella zona industriale di San Ferdinando, il campo container di contrada Testa dell’Acqua e i casolari abbandonati nelle campagne di Drosi e Rizziconi. Nel 2014 il lavoro nero e il caporalato erano fenomeni pervasivi, rappresentando di fatto la normale modalità di organizzazione del lavoro: l’83% dei lavoratori visitati da Medu, nella quasi totalità dei casi regolarmente soggiornanti, non aveva un contratto e solo il 5% dei lavoratori non ricorreva ad un caporale. La paga giornaliera si attestava tra i 20 e i 25 euro per 8-9 ore di lavoro. Negli anni successivi, l’aumento dei controlli da parte dell’Ispettorato del lavoro ha determinato un aumento dei contratti, ma nella stagione agrumicola del 2019 i dati raccolti dal team della clinica mobile rivelano che nella maggior parte dei casi il “lavoro grigio”, caratterizzato da gravi irregolarità salariali e contributive e da violazioni delle norme sulle condizioni di lavoro, ha preso il posto del lavoro nero. Anche in presenza di un contratto di lavoro – il 60% dei 438 lavoratori visitati era in possesso di un contratto di breve durata – permane infatti una condizione di sfruttamento diffusa su larga scala, con una retribuzione che resta intorno ai 25-30 euro giornalieri e in assenza di tutele e diritti. Lo stesso dato si riscontra tra i pazienti visitati da Medu nel mese di dicembre 2019: su 74 pazienti, di cui l’83% regolarmente soggiornanti, solo il 35% aveva un contratto di lavoro, ma solo un terzo di questi ha dichiarato di ricevere una busta paga. Molto spesso, una parte della retribuzione viene corrisposta in nero dal datore di lavoro, il quale dichiara in busta paga meno giornate di quelle effettivamente svolte dal bracciante.

Come nel 2014, le patologie riscontrate nella giovane popolazione degli insediamenti precari – principalmente infiammazioni delle vie respiratorie, patologie osteoarticolari e patologie dell’apparato digerente – sono attribuibili nella maggior parte dei casi alle pessime condizioni di vita e di lavoro. L’accesso alle cure d’altra parte era allora ed è ancora oggi ostacolato da numerosi fattori, tra i quali l’isolamento dei luoghi di vita in assenza di trasporti pubblici, la mancanza di informazioni sul diritto alla salute e le modalità di accesso ai servizi, le gravissime carenze strutturali dei servizi di salute pubblica locali, l’impossibilità di effettuare l’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale in assenza di una residenza riconosciuta.

Quella dei braccianti e dei ghetti sembra ancora oggi un’emergenza umanitaria, nonostante si ripeta vergognosamente ogni anno. In presenza di una filiera produttiva iniqua e di adeguate politiche di settore, il comparto agrumicolo continua a richiedere ogni anno braccianti a basso costo e senza diritti per poter sopravvivere. I migranti rappresentano la manodopera ideale, ancor più negli ultimi anni, in virtù delle recenti politiche che hanno determinato una crescente precarietà giuridica, sociale e lavorativa dei migranti e dei titolari di protezione internazionale e umanitaria, che costituiscono la quasi totalità della popolazione dei ghetti. Una terra ingiusta, è stata definita da Medu quella della Piana di Gioia Tauro, ma anche una terra bruciata, dove troppe persone hanno trovato la morte in evitabili incendi di baracche o in odiosi episodi di violenza criminale. Quattro sono state le persone morte carbonizzate in poco più di un anno, tra il 2018 e il 2019: Moussa Bà, nella baraccopoli, Sylla Naumè, nella tendopoli ministeriale e poi ancora Becky Moses e Suruwa Jaiteh. A queste si aggiungono Soumalia Sacko, ucciso da colpi di arma da fuoco di un civile mentre cercava delle lamiere per costruire una baracca e Sekine Traore, ucciso da un carabiniere durante un intervento delle forze dell’ordine presso la tendopoli.

E’ di ieri la notizia di diversi arresti, frutto di un’inchiesta della procura di Palmi nata dalla denuncia di un bracciante agricolo sfruttato, che ha portato all’arresto di una rete di caporali responsabili, d’accordo con aziende agricole della Piana, di intermediazione illecita di manodopera e sfruttamento lavorativo. A dieci anni dalla rivolta di Rosarno e dopo i numerosi protocolli istituzionali rimasti lettera morta, appare quanto mai urgente, necessaria e indifferibile una condanna decisa della piaga dello sfruttamento lavorativo e un impegno concreto e coordinato da parte della politica e di tutte le istituzioni competenti nella direzione del suo superamento e dell’affermazione dei diritti fondamentali – in particolare i diritti sul lavoro -, della legalità, della solidarietà sociale e dello sviluppo del territorio.

In particolare, Medu chiede:

– l’introduzione di efficaci meccanismi di incontro legale tra la domanda e l’offerta di lavoro e il potenziamento di quelli esistenti;

– l’adozione di un piano graduale e strutturato di inclusione socio-abitativa dei lavoratori agricoli nei Comuni in via di spopolamento della Piana, anche attraverso pratiche di intermediazione abitativa già dimostratesi efficaci nel territorio della Piana e in altri territori;

– il riconoscimento della residenza presso gli insediamenti informali, condizione imprescindibile per consentire l’accesso ai diritti fondamentali; la sensibilizzazione e il sostegno alle aziende che rispettino i diritti dei lavoratori:

– l’attivazione di politiche che favoriscano la regolarità del soggiorno dei migranti (quali il ripristino dei permessi di soggiorno per motivi umanitari, la possibilità di conversione in permesso di lavoro per tutte le tipologie di protezione, la regolarizzazione del sommerso, etc.), requisito indispensabile per poter accedere ad un lavoro con diritti e dignità.

Rosarno, 9 gennaio 2020

 

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