L’incubo di una nuova guerra, che si aggiunge a quelle poco visibili sui grandi media, costringe a fare i conti non solo con questioni geopolitiche. Torna la domanda che Einstein pose a Freud: “C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?”. E torna il bisogno di indagare quella mescolanza di amore e odio che attraversa la relazione tra i sessi come la vita sociale, di gruppi e di nazioni. “La guerra, che quasi sempre si accompagna alla nascita e alle vicende più importanti di una nazione – ha scritto qualche tempo fa Lea Melandri -, distrugge, espelle, ma per aggregare e proteggere…”
Nel Disagio della civiltà Freud si avvicina alla scoperta dell’aspetto violento che si annida nell’amore per quel retaggio preistorico che si porta dentro, come nostalgia dell’originaria unità a due. Violenta è l’appropriazione che il maschio opera rispetto al corpo femminile, da cui ha ricevuto cure e stimoli sessuali (il dominio patriarcale); violento è anche il sogno d’amore, inteso come fusione di due esseri in uno, ricomposizione delle figure del maschile e del femminile create dall’uomo per una sorta di sdoppiamento; pulsione di morte è la tentazione di annegare in una beatitudine che è spegnimento di ogni tensione, e quindi della vita. L’aggressività è necessaria anche per conservare l’unità ideale, per spostare all’esterno ciò che la minaccia. Questo vale anche per l’unità ideale che viene a saldare un gruppo, una nazione, un’etnia (leggi anche Stragi, guerre e orrori privati hanno un sesso).
Sotto questo aspetto – come ripetizione dell’anelito originario – l’Eros contiene in sé logiche di guerra: la guerra mai dichiarata tra i sessi, che passa attraverso l’appropriazione del corpo femminile, la fissazione della donna nel ruolo di madre, la sua espulsione da una comunità storica di uomini, che si configura così come omogenea, con una genealogia in proprio. Si potrebbe parlare di “pulizia sessuale”, cancellazione, da parte del sesso maschile, della sua origine eterogenea.
Ma questa comunità storica, a sua volta, non ha potuto evitare movimenti analoghi, di accomunamento e chiusura, inclusione e settarizzazione. I legami che hanno visto l’uomo nel privato come marito, figlio, amante, si trasferiscono, a volte con accresciuta intensità, nelle sue relazioni pubbliche, in particolare là dove la vita del gruppo appare più minacciata.
“L’intensità dell’amore di guerra – scrive J. Hillman nel suo libro Un terribile amore per la guerra (Adelphi 2004) – nasce dal crollo di tutti gli altri… la disperazione di una vita vissuta insieme comprime tutto l’amore umano in questi pochi con cui faccio la ronda, oltre a mangiarci, a pisciarci, a dormirci insieme”.
Là dove si costituisce una comunità-persona, quasi fosse un’unità organica, in guerra ma anche nei nazionalismi, nella costruzioni identitarie, negli arroccamenti etnici, nell’assolutizzazione delle differenze, si può ipotizzare che si riattualizzi come replica cieca o come ripresa aperta a nuove soluzioni, l’unione originaria con la madre, un modello d’amore immaginario, esclusivo, che vede l’apertura e la diversità come un pericolo. Ciò spiega perché i nazionalismi abbiano avuto anche il consenso delle donne. La “nascita” della nazione è nascita di una genealogia patriarcale, ma è anche richiamo a una “coesione organica”, a una unità totale mistica, che ha a che fare col corpo materno.
È madre-patria o, meglio ancora, matria: un volto d’uomo in un corpo femminile: restaurazione dei ruoli tradizionali di madre, moglie, recupero della metafora della famiglia, che parla di uomini come padri, figli, amanti. Se la nazione è un’idea tutta maschile, ha bisogno tuttavia di incarnarsi in una figura femminile, che non è solo un simbolo, una “muta effigie”.
Per salvaguardare l’Eros nella sua forma “preistorica” – l’unica che secondo lui può dare felicità – Freud è costretto a spostare fuori, su un fattore esterno, l’aggressività, ipotizzando una pulsione di Morte, uguale e contraria all’Eros. È nella Risposta a Einstein (1932), che gli aveva posto la domanda: “C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?”, che Freud si avvicina a una visione meno dicotomica. È proprio la mescolanza di amore e odio, conservazione e distruzione, vita e morte, ad aver reso così difficile il riconoscimento di queste pulsioni. E questo vale sia per la vita intima, per la relazione tra i sessi, sia per la vita sociale: gruppi, nazioni, ecc. Così come l’Eros ha dentro logiche di guerra, anche la guerra è imparentata con l’amore.
La guerra, che quasi sempre si accompagna alla nascita e alle vicende più importanti di una nazione, distrugge, espelle, ma per aggregare e proteggere. È qui che Freud comincia a vedere l’amore e l’odio più intersecati e imparentati di quanto avesse pensato vedendoli come pulsioni contrapposte:
“Amore e odio, conservazione e distruzione sono meno polarizzate di quanto sembri… La guerra come dovere sacrificale, nonostante assolva essenzialmente funzioni distruttive, ha per gli uomini il significato di una distruzione messa la servizio della conservazione di ciò che si ama”.
Forse, con la maggiore consapevolezza di cui disponiamo, si può tentare di sciogliere quel tragico annodamento che oggi va sotto il nome di “guerra umanitaria”.
La coscienza che ha sottratto a una millenaria naturalizzazione il rapporto tra i sessi, oggi può tentare di riportare alla storia – cioè alla cultura, alla politica – altri enigamtici indicibili annodamenti, primo fra tutti quello che imbrigliando vita e morte, amore e violenza, ha impedito finora una messa in discussione radicale dell’uno e dell’altra, e quindi la presa di distanza dall’immaginario che li sorregge. Anche se ancora lontana, comincia a profilarsi la fine di una parentela rovinosa.
Fine della “dialettica”?
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Tratto da Amore e violenza (Bollati Boringhieri 2011), dove è apparso con il titolo completo Il perverso annodamento di logiche d’amore e logiche di guerra.
di Lea Melandri