La lettera firmata da 60 studenti israeliani nel gennaio 2021 e inviata a Benny Gantz, ministro della difesa, Aviv Kochavi, capo delle forze di difesa (Idf), e Yoav Galan, titolare del dicastero dell’Istruzione.
“Siamo un gruppo di diciottenni israeliani a un bivio. Lo stato israeliano chiede la nostra coscrizione nell’esercito. Si presume una forza di difesa che dovrebbe salvaguardare l’esistenza dello Stato di Israele. In realtà, l’obiettivo dell’esercito israeliano non è difendersi da forze armate ostili, ma esercitare il controllo su una popolazione civile. In altre parole, la nostra coscrizione all’esercito israeliano ha un contesto politico e molte implicazioni. Ha implicazioni, in primo luogo, sulla vita del popolo palestinese che ha vissuto sotto l’occupazione violenta per 72 anni. In effetti, la politica sionista di brutale violenza ed espulsione dei palestinesi dalle loro case e dalle loro terre è iniziata nel 1948 e da allora non si è più fermata. L’occupazione sta anche avvelenando la società israeliana: è violenta, militarista, oppressiva e sciovinista. È nostro dovere opporci a questa realtà distruttiva unendo le nostre lotte e rifiutando di servire questi sistemi violenti, primo fra tutti quello militare. Il nostro rifiuto di arruolarci nell’esercito non significa voltare le spalle alla società israeliana. Al contrario, il nostro rifiuto è un’assunzione di responsabilità delle nostre azioni e delle loro ripercussioni.
I militari non servono solo l’occupazione, i militari sono l’occupazione. Piloti, unità di intelligence, impiegati burocratici, soldati combattenti, tutti eseguono l’occupazione. Uno lo fa con una tastiera e l’altro con una mitragliatrice in un posto di blocco. Nonostante tutto questo, siamo cresciuti all’ombra dell’ideale simbolico del soldato eroico. Abbiamo preparato cesti di cibo per lui durante le alte feste, abbiamo visitato il carro armato in cui ha combattuto, abbiamo finto di essere lui nei programmi pre-militari al liceo, e abbiamo venerato la sua morte nel giorno della memoria. Il fatto che siamo tutti abituati a questa realtà non la rende apolitica. L’arruolamento, non meno del rifiuto, è un atto politico.
Siamo abituati a sentire che è legittimo criticare l’occupazione solo se abbiamo partecipato attivamente alla sua applicazione. Che senso ha che per protestare contro la violenza sistemica e il razzismo, dobbiamo prima essere parte dello stesso sistema di oppressione che stiamo criticando?
La pista che percorriamo dall’infanzia, di un’educazione che insegna violenza e rivendicazioni sulla terra, raggiunge l’apice all’età di 18 anni, con l’arruolamento nell’esercito. Ci viene ordinato di indossare l’uniforme militare macchiata di sangue e di preservare l’eredità della Nakba e dell’occupazione. La società israeliana è stata costruita su queste radici marce, ed è evidente in tutti gli aspetti della vita: nel razzismo, nell’odioso discorso politico, nella brutalità della polizia e altro ancora.
Questa oppressione militare va di pari passo con l’oppressione economica. Mentre i cittadini dei territori palestinesi occupati sono impoveriti, le élite ricche diventano più ricche a loro spese. I lavoratori palestinesi vengono sistematicamente sfruttati e l’industria delle armi utilizza i Territori palestinesi occupati come banco di prova e come vetrina per sostenere le sue vendite. Quando il governo sceglie di sostenere l’occupazione, agisce contro il nostro interesse di cittadini: grandi porzioni di denaro dei contribuenti stanno finanziando l’industria della “sicurezza” e lo sviluppo di insediamenti invece di welfare, istruzione e salute.
L’esercito è un’istituzione violenta, corrotta e corruttrice fino al midollo. Ma il suo peggior crimine è imporre la politica distruttiva dell’occupazione della Palestina. I giovani della nostra età sono tenuti a prendere parte a far rispettare le chiusure come mezzo di “punizione collettiva”, arrestare e incarcerare minori, ricattare per reclutare “collaboratori” e altro ancora – tutti questi sono crimini di guerra che vengono eseguiti e insabbiati ogni giorno. Il governo militare violento nei Territori palestinesi occupati è applicato attraverso politiche di apartheid che comportano due diversi sistemi legali: uno per i palestinesi e l’altro per gli ebrei. I palestinesi sono costantemente messi a confronto con misure antidemocratiche e violente, mentre i coloni ebrei che commettono crimini violenti – in primo luogo contro i palestinesi ma anche contro i soldati – sono “ricompensati” dai militari israeliani che chiudono un occhio e nascondono queste trasgressioni. I militari impongono l’assedio a Gaza da oltre dieci anni. Questo assedio ha creato una massiccia crisi umanitaria nella Striscia di Gaza ed è uno dei principali fattori che perpetua il ciclo di violenza di Israele e Hamas. A causa dell’assedio, a Gaza non c’è acqua potabile né elettricità per la maggior parte delle ore della giornata. La disoccupazione e la povertà sono pervasive e il sistema sanitario è privo dei mezzi più basilari. Questa realtà è la base sulla quale è intervenuto il disastro del COVID-19 che ha peggiorato le cose a Gaza.
È importante sottolineare che queste ingiustizie non sono un evento occasionale o un allontanamento dalla via maestra. Queste ingiustizie non sono un errore o un sintomo, sono la politica e la malattia. Le azioni delle forze armate israeliane nel 2020 non sono altro che una continuazione e il sostegno dell’eredità del massacro, dell’espulsione di famiglie e del furto di terre, l’eredità che ha “consentito” l’istituzione dello Stato di Israele, come un vero stato democratico, per Solo ebrei.
Chiediamo ai senior delle scuole superiori (shministiyot) della nostra età di porsi una domanda: cosa e chi stiamo servendo quando ci arruoliamo nell’esercito? Perché ci arruoliamo? Quale realtà costruiamo servendo nell’esercito dell’occupazione? Vogliamo la pace e la vera pace richiede giustizia. La giustizia richiede il riconoscimento delle ingiustizie storiche e presenti e della continua Nakba. La giustizia richiede riforme sotto forma di fine dell’occupazione, fine dell’assedio di Gaza e riconoscimento del diritto al ritorno per i profughi palestinesi. La giustizia richiede solidarietà, lotta congiunta e rifiuto.”
We are a group of Israeli 18-year-olds at a crossroads. The Israeli state is demanding our conscription into the military. Allegedly, a defense force which is supposed to safeguard the existence of the State of Israel. In reality, the goal of the Israeli military is not to defend itself from hostile militaries, but to exercise control over a civilian population. In other words, our conscription to the Israeli military has political context and implications. It has implications, first and foremost on the lives of the Palestinian people who have lived under violent occupation for 72 years. Indeed, the Zionist policy of brutal violence towards and expulsion of Palestinians from their homes and lands began in 1948 and has not stopped since. The occupation is also poisoning Israeli society–it is violent, militaristic, oppressive, and chauvinistic. It is our duty to oppose this destructive reality by uniting our struggles and refusing to serve these violent systems–chief among them the military. Our refusal to enlist to the military is not an act of turning our backs on Israeli society. On the contrary, our refusal is an act of taking responsibility over our actions and their repercussions.
The military is not only serving the occupation, the military is the occupation. Pilots, intelligence units, bureaucratic clerks, combat soldiers, all are executing the occupation. One does it with a keyboard and the other with a machine gun at a checkpoint. Despite all of this, we grew up in the shadow of the symbolic ideal of the heroic soldier. We prepared food baskets for him in the high holidays, we visited the tank he fought in, we pretended we were him in the pre-military programs in high school, and we revered his death on memorial day. The fact that we are all accustomed to this reality does not make it apolitical. Enlistment, no less than refusal, is a political act.
We are used to hearing that it is legitimate to criticize the occupation only if we took an active part in enforcing it. How does it make sense that in order to protest against systemic violence and racism, we have to first be part of the very system of oppression we are criticizing?
The track upon which we embark at infancy, of an education teaching violence and claims over land, reaches its peak at age 18, with the enlistment in the military. We are ordered to put on the bloodstained military uniform and preserve the legacy of the Nakba and of occupation. Israeli society has been built upon these rotten roots, and it is apparent in all facets of life: in the racism, the hateful political discourse, the police brutality, and more.
This military oppression goes hand in hand with economic oppression. While the citizens of the Occupied Palestinian Territories are impoverished, wealthy elites become richer at their expense. Palestinian workers are systematically exploited, and the weapons industry uses the Occupied Palestinian Territories as a testing ground and as a showcase to bolster its sales. When the government chooses to uphold the occupation, it is acting against our interest as citizens– large portions of taxpayer money is funding the “security” industry and the development of settlements instead of welfare, education, and health.
The military is a violent, corrupt, and corrupting institution to the core. But its worst crime is enforcing the destructive policy of the occupation of Palestine. Young people our age are required to take part in enforcing closures as a means of “collective punishment,” arresting and jailing minors, blackmailing to recruit “collaborators” and more– all of these are war crimes which are executed and covered up every day. Violent military rule in the Occupied Palestinian Territories is enforced through policies of apartheid entailing two different legal systems: one for Palestinians and the other for Jews. The Palestinians are constantly faced with undemocratic and violent measures, while Jewish settlers who commit violent crimes– first and foremost against Palestinians but also against soldiers- are “rewarded” by the Israeli military turning a blind eye and covering up these transgressions. The military has been enforcing a siege on Gaza for over ten years. This siege has created a massive humanitarian crisis in the Gaza Strip and is one of the main factors which perpetuates the cycle of violence of Israel and Hamas. Because of the siege, there is no drinkable water nor electricity in Gaza for most hours of the day. Unemployment and poverty are pervasive and the healthcare system lacks the most basic means. This reality serves as the foundation on top of which the disaster of COVID-19 has only made things worse in Gaza.
It is important to emphasize that these injustices are not a one-time slippage or straying away from the path. These injustices are not a mistake or a symptom, they are the policy and the disease. The actions of the Israeli military in 2020 are nothing but a continuation and upholding of the legacy of massacre, expulsion of families, and land theft, the legacy which “enabled” the establishment of the State of Israel, as a proper democratic state, for Jews only.
Historically, the military has been seen as a tool which serves the “melting pot” policy, as an institution which crosscuts social class and gender divides in Israeli society. In reality, this could not be further from the truth. The military is enacting a clear program of ‘channeling’; soldiers from upper-middle class are channelled into positions with economic and civilian prospects, while soldiers from lower socioeconomic backgrounds are channelled into positions which have high mental and physical risk and which do not provide the same head start in civil society. Simultaneously, women’s representation in violent positions such as pilots, tank commanders, combat soldiers, and intelligence officers, is being marketed as feminist achievment. How does it make sense that the struggle against gender inequality is achieved through the oppression of Palestinian women? These “achievements” sidestep solidarity with the struggle of Palestinian women. The military is cementing these power relations and the oppression of marginalized communities through a cynical co-opting of their struggles.
We are calling for high school seniors (shministiyot) our age to ask themselves: What and who are we serving when we enlist in the military? Why do we enlist? What reality do we create by serving in the military of the occupation? We want peace, and real peace requires justice. Justice requires acknowledgment of the historical and present injustices, and of the continuing Nakba. Justice requires reform in the form of the end of the occupation, the end of the siege on Gaza, and recognition of the right of return for Palestinian refugees. Justice demands solidarity, joint struggle, and refusal.
Fonte: Pierangelo Monti (Presidente MIR)