La speranza di un mondo più giusto, la ‘macelleria messicana’, la sospensione della democrazia: il G8 di Genova spiegato a chi ha oggi 20 anni
di Carlo Gubitosa*
Nel 2001 il Movimento dei movimenti – oltre 300mila persone da ogni parte del mondo, la più grande manifestazione per la giustizia globale – si presenta a Genova per protestare contro i Grandi della Terra, per contestare i loro poteri e le loro politiche. Migliaia di attivisti, migliaia di associazioni in rappresentanza del mondo ambientalista, pacifista, ONG, del mondo cattolico e dei centri sociali uniscono le loro forze contro un avversario che capiscono di avere in comune: un modello di sviluppo basato su un’ideologia del mondo che mette al primo posto i profitti, l’economia e la finanzia a cui contrapporre un’altra idea di globalizzazione. Clima, migrazioni, la tassazione sulle transazioni finanziarie, la marcia mondiale delle donne, il diritto alla salute e i brevetti sui farmaci, l’acqua pubblica, agricoltura e sovranità alimentare, pace e disarmo… Sono solo alcune delle tematiche, che si riveleranno profetiche, al centro delle riflessioni e proposte del movimento che voleva cambiare il mondo…
Quel movimento a Genova fu brutalmente schiacciato da una violenza cieca e feroce da parte delle forze dell’ordine. Il corteo pacifico di cittadini e cittadine venne più volte caricato senza ragioni e senza pietà, mentre la macchina repressiva si dimostrava incapace di comprendere, contenere e intercettare le violenze dei cosiddetti “black bloc”. Durante i disordini del 20 luglio in piazza Alimonda viene ucciso Carlo Giuliani, raggiunto da un colpo sparato dal carabiniere Mario Placanica. Il processo per la sua morte sarà archiviato: Placanica avrebbe agito per legittima difesa.
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Alle cariche incomprensibili contro cittadini inermi seguirono l’assalto alla scuola Diaz (una operazione di “macelleria messicana” secondo le parole di Michelangelo Fournier durante il processo nel 2007, ai tempi del G8 vicequestore e comandante del settimo nucleo sperimentale antisommossa del primo reparto mobile di Roma, che si rese responsabile della mattanza), le torture e gli abusi nella caserma di Bolzaneto. “La più grave sospensione dei diritti democratici in Europa dopo la seconda guerra mondiale”, secondo le parole di Amnesty International. Con quella sospensione il nostro paese non ha mai fatto i conti davvero, non lo hanno fatto le forze dell’ordine, non lo ha fatto la politica. Anche per questo è fondamentale mantenere viva la memoria di quel buco nero della democrazia, continuare a denunciare e a pretendere una riflessione sulle criticità sistemiche a partire dalla cultura delle forze dell’ordine e della loro affidabilità democratica. È di questi giorni la pubblicazione dei video dei pestaggi selvaggi ai danni di detenuti inermi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, degli abusi, del tentativo di falsificare le prove e del senso di impunità. Oggi come allora sappiamo che tutto questo non è il frutto di “poche mele marce”.
Ecco perché ancora oggi è necessario raccontare cosa è stato il G8 di Genova a chi ha oggi 20 anni.
Il Genoa Social Forum
Lo stereotipo dei “No global”
L’escalation di violenza parte sui media
La militarizzazione della città
Gli eventi di piazza
Il corteo dei disobbedienti
L’omicidio di piazza Alimonda
La verità negata
Le violenze di strada
Il “Black Bloc”
Il “Corteo internazionale”
La “macelleria messicana” della scuola Diaz
Le vittime
Le torture di Bolzaneto
La verità del Parlamento e quella del processo
Cosa rimane di quella protesta
Il Genoa Social Forum
Dal 14 al 22 luglio 2001 trecentomila persone impegnate per costruire un mondo migliore si incontrano a Genova su iniziativa del “Genoa Social Forum”, una rete internazionale di 1187 organizzazioni che sottoscrivono un “patto di lavoro” con proposte sociali, politiche ed economiche alternative alle ricette di 8 capi di Stato e di governo riuniti nel vertice del “Gruppo degli 8” (G8), che orienta la politica mondiale in base all’agenda dei paesi più ricchi e influenti. I temi trattati durante il “public forum” organizzato nei giorni precedenti all’incontro del G8 riguardano la pace, l’ambiente, lo sviluppo sostenibile, l’economia di giustizia.
Lo stereotipo dei “No global”
Questa complessa e articolata rete di organizzazioni per il progresso umano, la giustizia sociale e la tutela ambientale, chiamata “movimento dei movimenti” (o movimento “altermondialista”, dallo slogan “un altro mondo è possibile”) è stata rappresentata sui mezzi di informazione come un movimento “no-global” che si opponeva alla globalizzazione, mentre in realtà chiedeva la globalizzazione dei diritti umani, del benessere e del progresso, che garantiscono soltanto una piccola parte della popolazione mondiale.
L’escalation di violenza parte sui media
Una classe politica lontana dai cittadini e un’informazione troppo vicina al potere politico hanno distorto, manipolato e criminalizzato i principi legittimi di questo movimento, descritto come una pericolosa rete di estremisti. I servizi segreti hanno fatto circolare informazioni false che hanno messo in allarme l’opinione pubblica, la stampa ha recepito queste informazioni acriticamente e senza verifiche, la politica ha preso atto di quello che ha certificato la stampa e ha agito di conseguenza, trasformando la città di Genova in un fortino blindato e la gestione civile dell’ordine pubblico di una manifestazione nella gestione militare di uno scontro con i manifestanti.
La militarizzazione della città
A due giorni dall’inizio degli eventi di piazza, dalla Questura di Genova parte un’ordinanza di servizio che orienta la gestione dell’ordine pubblico in occasione del vertice genovese. In questo documento ripreso e amplificato dai mezzi di informazione si descrivono anche le possibili modalità di “attacco” da parte dei manifestanti, descritte nelle “informative” dei nostri servizi segreti: lancio di palloncini con sangue umano potenzialmente infetto, lancio di frutta con lamette di rasoio all’interno, uso di palloncini ricoperti di carta stagnola per disturbare gli strumenti di volo, utilizzo di deltaplani per sorvolare la “zona rossa” del vertice, dove i normali cittadini non possono accedere per motivi di sicurezza. Mentre la politica, i media e le forze di polizia ragionano su queste bufale conclamate come se fossero vere, il clima di tensione a Genova sale rapidamente in una città blindata, dove chi vive in zona rossa non può ricevere a casa amici che abitano all’esterno, e può passare i varchi solo esibendo un apposito pass.
Gli eventi di piazza
Dopo lo svolgimento tranquillo e pacifico dei dibattiti del “public forum”, la manifestazione prevede tre eventi di piazza: il primo è il “corteo dei migranti” di giovedì 19 luglio, che si svolge pacificamente e senza scontri per riconoscere dignità e diritti a chi cerca speranza, lavoro e futuro nel nostro paese.
Venerdì 20 luglio vengono organizzate varie “piazze tematiche” a ridosso dei varchi di accesso alla “zona rossa” per circondare i luoghi del potere con iniziative simboliche di protesta, organizzate per “gruppi di affinità”. I mediattivisti raccontano la protesta dal “media center” allestito nella scuola Pascoli davanti alla Diaz, le associazioni nonviolente organizzano un blocco di uno dei varchi di accesso con un sit-in, i movimenti antagonisti vogliono varcare simbolicamente il limite della “zona rossa” sfidando i manganelli e i lacrimogeni con protezioni di gommapiuma, per mostrare che il potere non può escludere i cittadini dalle decisioni.
In quel contesto militarizzato gli unici che riescono ad attraversare la zona rossa sono gli “anarcociclisti” del gruppo “Bici G8” partiti da Lecco domenica 15 luglio, che mercoledì 18 entrano a Genova attraverso una sopraelevata che da Sampierdarena porta al quartiere foce. Il 20 luglio, invece, il “corteo dei disobbedienti” che attraversa via Tolemaide viene respinto quando era ancora in un tratto autorizzato, usando mezzi blindati e una inaspettata quantità di lacrimogeni, intrappolando migliaia di persone in un tratto di strada senza vie di fuga praticabili, stretto tra un ponte ferroviario e anguste viuzze laterali. Dei blocchi nonviolenti, invece, resta notizia soltanto per le manganellate, le cariche gratuite e i fitti lanci di lacrimogeni che hanno travolto in quelle ore anche i gruppi più pacifici, di cui esiste una sterminata documentazione videofotografica, a partire dalla brutale carica in Piazza Manin subita dagli attivisti della “Rete Lilliput”, che raccoglie le organizzazioni dell’area ecopacifista.
Il corteo dei disobbedienti
I manifestanti del “corteo dei disobbedienti”, che volevano mettere piede in zona rossa per lanciare un messaggio politico, non si aspettavano una repressione militare violenta e sistematica, né avevano organizzato un assalto a palazzo Ducale. Si aspettavano soltanto una nuova “invasione simbolica” della zona rossa di un vertice internazionale, simile a quelle già realizzate in occasione di altri “controvertici” dei mesi precedenti, come quello di Praga nel settembre 2000 e di Goteborg nel giugno 2001, dove si è cercato, forzato e trovato con le forze di polizia un punto di equilibrio tra le esigenze di sicurezza dell’incontro e il diritto di espressione del dissenso. Ma il clima mediatico e la tensione dei giorni precedenti rendono impossibile qualunque mediazione, e lo scontro di via Tolemaide tra il corteo dei disobbedienti e l’apparato poliziesco e militare dispiegato in quell’occasione dilaga nelle vie laterali, in via Caffa e successivamente in Piazza Alimonda, dove Carlo Giuliani, un ragazzo genovese di 23 anni alle 17.27 del 20 luglio 2001 viene colpito da un proiettile sparato ad altezza d’uomo da una camionetta Defender dei carabinieri, e morirà pochi attimi più tardi.
L’omicidio di piazza Alimonda
La paternità di quel colpo viene rivendicata da Mario Placanica, carabiniere di leva che all’epoca di quei fatti aveva appena 21 anni, che a caldo dichiara di aver sparato alla cieca, senza vedere chi o cosa avesse davanti, e successivamente cambierà a più riprese la sua ricostruzione di quei momenti. Placanica verrà congedato dall’arma dei carabinieri “per infermità dipendente da causa di servizio”, e le ultime notizie che abbiamo di lui lo descrivono come impiegato del catasto di Catanzaro.
Questo omicidio sarà archiviato con una frettolosa ordinanza in cui si negano le leggi della fisica, si stabilisce che la luce viaggia veloce quanto il suono, (e che quindi è normale sentire il suono di uno sparo nello stesso fotogramma in cui si vede lo sparo che rimbalza su un calcinaccio), si stabilisce che quel calcinaccio mentre si sgretola riesce comunque a deviare un proiettile (nonostante le foto mostrino chiaramente che la pistola era puntata ad altezza d’uomo e non ad altezza calcinaccio).
Un’archiviazione annunciata la sera stessa dell’omicidio Giuliani dal vicepresidente del Consiglio dell’epoca Gianfranco Fini, che nel salotto televisivo di Bruno Vespa è stato il primo a parlare di legittima difesa, mentre il nome del ragazzo ucciso in piazza Alimonda veniva reso pubblico in quella diretta televisiva del 20 luglio 2001 attorno alle 22,30, prima ancora che la famiglia fosse informata del tragico destino di Carlo.
La verità negata
La verità giudiziaria negata dall’archiviazione delle indagini su questo omicidio è stata ricostruita dalla famiglia Giuliani con un paziente e metodico lavoro di raccolta della verità storica, per come è emersa dalle foto, dai filmati, dai reperti e dagli elementi acquisiti agli atti. Grazie a questo lavoro (liberamente consultabile sul sito carlogiuliani.it) possiamo affermare che la pistola era puntata già prima che Giuliani toccasse l’estintore, ed era puntata ad altezza d’uomo in mezzo al mucchio di manifestanti, che la camionetta non era isolata perché un nutrito gruppo di carabinieri si trovava a pochi metri di distanza, che la distanza tra l’estintore e la camionetta era di quattro metri, che qualcuno ha infierito con una pietra sul corpo di Carlo Giuliani dopo che era stato raggiunto dal proiettile, che la pietra fotografata prima pulita e poi sporca di sangue ha procurato una profonda ferita sulla fronte di Giuliani, in un punto dove il suo passamontagna era invece intatto, che il fotografo Eligio Paoni presente sulla scena dell’omicidio è stato picchiato in due tempi dai Carabinieri presenti sul posto, che i suoi rullini sono andati distrutti, che subito dopo lo sparo le telecamere di Toni Capuozzo hanno inquadrato il vicequestore Adriano Lauro mentre gridava “l’hai ucciso tu, con il tuo sasso!” a uno dei manifestanti ancora presenti in piazza Alimonda, che una taglierina verde è stata maldestramente infilata tra il costume da bagno e i pantaloni della tuta di Carlo Giuliani quando era già a terra, e questa taglierina non è stata mai menzionata nelle indagini che hanno portato all’archiviazione del caso per legittima difesa, nonostante fosse un elemento probatorio rilevante.
Detto in altre parole: sappiamo per certo, e possiamo dimostrarlo con foto e filmati, che in piazza Alimonda le forze di polizia hanno infierito sul corpo di un ragazzo in fin di vita o già morto, hanno picchiato, minacciato e zittito chi aveva raccolto la documentazione fotografica di quella morte e hanno commesso una lunga serie di reati per inquinare con azioni illegali la scena di un omicidio, costruendo “a caldo” e a favore di telecamera una versione dei fatti diversa da quello che era effettivamente avvenuto in quella piazza. E questo in un paese civile dovrebbe essere sufficiente per garantire un’indagine e un processo, purtroppo negati alla famiglia Giuliani. Ma nel loro maldestro tentativo di manipolazione, i depistatori in divisa non avevano fatto i conti con la stagione del mediattivismo: nel 2001 non c’erano ancora smartphone collegati a internet ma c’erano comunque macchine fotografiche e telecamere, digitali e non, che hanno penetrato un muro di silenzio e di manipolazioni che altrimenti sarebbe stato difficile da penetrare, risultando fondamentali per documentare quello che è accaduto in piazza Alimonda e la costruzione di false prove a carico dei manifestanti nella scuola Diaz.
Le violenze di strada
Il 20 luglio, prima e dopo la tragedia di piazza Alimonda, centinaia di persone sono state ferite dalla violenza cieca delle forze di polizia durante gli scontri di piazza. Ci sono stati feriti anche tra gli avvocati di strada che offrivano assistenza legale ai manifestanti e gli infermieri del servizio sanitario organizzato dal Genoa Social Forum, che hanno stimato il numero dei feriti attorno alle 1000-1200 persone, con uno spiegamento di forze pari a 10.900 operatori delle forze di polizia, tra poliziotti, finanzieri e carabinieri.
Il “Black Bloc”
In mezzo ai poliziotti che agiscono in nome dello Stato e i manifestanti che riempiono le piazze riconoscendosi nel programma del Genoa Social Forum ci sono i “black bloc”, il “blocco nero”, l’anima più intransigente, antisistema e violenta della protesta, un’area culturalmente ispirata all’anarchismo (ma aspramente contestata dalla Federazione Anarchica Italiana) che si ribella contro lo strapotere delle multinazionali, delle élites finanziarie, degli organismi economici sovranazionali come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio, con un’etica della protesta che cerca di contrastare la violenza del sistema economico e politico sulle persone con una “violenza tattica” diretta verso sportelli bancomat, auto di lusso e forze di polizia, senza escludere generici danneggiamenti alla proprietà o attacchi diretti verso operatori dell’informazione o chiunque si interponga tra loro e l’obiettivo delle loro azioni. Minoritari ma molto visibili, sfuggenti ma efficaci, più teatrali che sovversivi, ma comunque in grado di spaventare un sistema repressivo che ha bollato dei “vandali politicizzati” come terroristi di estrema sinistra. I black bloc, descritti come la “parte malata” delle piazze di Genova, sono stati in realtà una parte di una piazza malata di violenza. Usando le azioni circocscritte, identificabili, minoritarie e limitate del blocco nero come detonatore per la repressione, una gestione dell’ordine pubblico dissennata e violenta si è aggiunta con diecimila e 900 agenti alla violenza di poche centinaia di esponenti del blocco nero. Nelle ore della contestazione al G8 questo cocktail di violenza è esploso in faccia a chiunque non indossasse una divisa: l’azione repressiva è stata “sparata nel mucchio” delle manifestazioni autorizzate pacifiche, incontenibile anche sul piano verbale, mediatico, culturale, politico, poliziesco, giudiziario e repressivo, e non solamente sul piano fisico dei pestaggi, delle torture e degli arresti.
Il “Corteo internazionale”
Con la morte di Carlo Giuliani nel cuore, e molta apprensione per le notizie di abusi e violenze che viaggiavano con il passaparola, sabato 21 luglio 2001 trecentomila persone si sono ugualmente date appuntamento a Genova per il “Corteo internazionale” che chiudeva il programma di iniziative del Genoa Social Forum, spinte dalla grande sete di cambiamento e progresso sociale che caratterizzava quegli anni. Eravamo nel pieno una stagione di grande partecipazione e impegno politico, prima che gli attentati dell’11 settembre spingessero i governi verso una criminalizzazione del dissenso ancora più spinta, con una visione distorta della sicurezza basata sulla rinuncia ai diritti civili e alle garanzie democratiche.
Ma anche quel corteo internazionale è colpito da una gestione sconsiderata dell’ordine pubblico, e viene spezzato in due: la “testa” del corteo viene lasciata libera di arrivare fino a fine percorso, con le forze dell’ordine convinte di aver isolato nella “coda” la parte violenta dei manifestanti. Il resto è caccia all’uomo, fuggi fuggi, pioggia di lacrimogeni e manganellate, violenza cieca gratuita su gente semplice e comune, documentata in dettaglio da innumerevoli foto e filmati raccolti e archiviati dal servizio di “supporto legale” che ha assistito i manifestanti coinvolti nei processi del “dopo Genova”.
La “macelleria messicana” della scuola Diaz
La sera dello stesso giorno, per ragioni che possiamo solo ipotizzare (Prova di forza? Adrenalina da smaltire? Vendetta tribale? Repressione politica? Resa dei conti? Semplice voglia di menare le mani? Pulsioni fascistoidi? Legge del branco? Una combinazione di tutto questo?) alcuni tra i più autorevoli e prestigiosi funzionari della polizia di Stato dispongono una “perquisizione” all’interno della scuola Diaz, usata di giorno come luogo di formazione per le azioni di protesta e di notte come punto di appoggio per chi voleva dormirci dentro col proprio sacco a pelo. Le virgolette sono d’obbligo perché quella “perquisizione” sarà definita come una “macelleria messicana” dagli stessi poliziotti che l’hanno realizzata, un termine usato nella testimonianza resa durante il processo che ha fatto seguito a quei fatti, per sintetizzare con un’espressione efficace la violenza gratuita, abnorme e immotivata usata sugli occupanti di quella scuola, che ormai è un fatto storico oggettivo e accertato perfino da chi aveva provato a spacciare quella violenza come una legittima operazione di polizia.
Le vittime
Questa violenza inizia ancora prima dell’irruzione, e si scatena sul mediattivista britannico Mark Covell, picchiato selvaggiamente dai carabinieri davanti alla scuola fino a entrare in coma per due giorni, con i polmoni perforati dalle costole che gli erano state rotte a calci. A lui si aggiunge Arnaldo Cestaro, picchiato a 62 anni nella scuola Diaz con danni permanenti a un braccio e una gamba in seguito alle fratture provocate dai manganelli, che ha dovuto ricorrere alla Corte europea per i diritti umani per ottenere nel 2015 quella giustizia che i tribunali italiani gli avevano negato, e una sanzione ai danni dell’Italia che all’epoca non aveva ancora recepito nel suo ordinamento gli impegni sottoscritti nelle convenzioni internazionali contro la tortura. L’elenco delle vittime di abusi potrebbe continuare fino al totale di 93 persone, con 82 feriti (di cui 63 ricoverati in ospedale), che vengono arrestate e accusate di “associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e saccheggio”, un reato riesumato dal vecchio codice Rocco dell’era fascista appositamente per i manifestanti di Genova, che aggiunge alla dimensione giuridica di quei processi una prospettiva politica. A sostegno di queste accuse, le magliette nere di alcuni occupanti della scuola, mazze e picconi dell’impresa edile che aveva un cantiere in corso nell’edificio scolastico e due bottiglie molotov portate nella scuola dai poliziotti con un sacchetto azzurro fortunatamente intercettato dalle telecamere dei mediattivisti di Indymedia che avevano la loro base operativa nella scuola Pascoli, dove non verrà arrestato nessuno, ma saranno picchiati alcuni manifestanti e interrotte in diretta le trasmissioni di “Radio Gap”, il network radiofonico creato in occasione del controvertice, e sequestrati i computer delle redazioni che lavoravano in quella scuola durante i giorni del controvertice: il Manifesto, Liberazione e il settimanale “Carta”.
Le torture di Bolzaneto
Nei giorni del G8 gli arrestati che non sono trattenuti in ospedale vengono portati nella caserma di polizia di Bolzaneto, trasformata in un “carcere temporaneo” dove far transitare gli arrestati prima di trasportarli in un “vero” istituto penitenziario. Il problema è che in quel carcere temporaneo i diritti individuali vengono sospesi per decisione del ministero della Giustizia, le persone sono state trattenute senza poter informare i familiari, senza poter parlare con un avvocato, con piercing strappati violentemente da medici in tuta mimetica, musica fascista diffusa con le suonerie dei cellulari. “Dal punto vista formale sicuramente non abbiamo violato la legge, spero anche non dal punto vista sostanziale”, dirà il ministro della Giustizia di allora al comitato parlamentare d’indagine sui fatti di Genova. Nella sostanza, a Bolzaneto le persone arrestate sono state costrette a rimanere per ore in piedi, faccia al muro e gambe divaricate, molestate, minacciate, insultate e umiliate, in una parola: torturate. E queste torture non sono un’opinione, ma una verità storica e giudiziaria messo agli atti da una sentenza definitiva. Ma all’epoca di quel processo il reato di tortura in Italia ancora non c’era, perché la politica aveva aderito nel 1984 alla Convenzione ONU sulla tortura e poi si era “dimenticata” di fare una legge specifica per recepire quella convenzione nel nostro ordinamento. L’assenza di un reato specifico ha portato facilmente alla prescrizione 37 imputati del processo sulle violenze di Bolzaneto, dove sono stati condannati solo sette funzionari.
La legge sulla tortura arriverà in Italia nel 2017 con un compromesso al ribasso che la porta ad anni luce di distanza dai principi della convenzione ONU, e i primi a contestare i limiti di questa legge saranno proprio vittime della violenza di Stato durante il G8 di Genova, vittime di tortura e di violenza, familiari di persone uccise e torturate da forze di polizia, magistrati chiamati a giudicare casi di tortura senza una legge sulla tortura, giuristi, psicologi e accademici esperti di tortura. Dopo aver ignorato queste obiezioni, oggi in Italia c’è una legge dove il crimine di tortura è un reato comune che può andare in prescrizione, si configura solo se le azioni di tortura sono ripetute e non considera le torture psicologiche.
La verità del Parlamento e quella del processo
La violenza della “macelleria messicana” e le torture della caserma di Bolzaneto spingono le istituzioni alla creazione di un comitato parlamentare di indagine sui fatti di Genova, al termine del quale viene approvata una relazione in cui la politica si è assunta la responsabilità di dichiarare che “la linea scelta dal Governo Berlusconi e l’azione delle forze dell’ordine sono state, sul terreno dell’ordine pubblico, certamente positive”. Una affermazione resa opinabile dalla magistratura nei tre gradi di giudizio che hanno portato alla condanna definitiva per i superpoliziotti dei processi Diaz e Bolzaneto, dove sono state documentate alcune verità storiche tutt’altro che positive: nella scuola Diaz poliziotti di altissimo grado, prestigio e responsabilità hanno portato false prove introducendo bottiglie molotov raccolte altrove, hanno simulato un accoltellamento per giustificare e compensare una violenza squadrista descritta da Amnesty International come “la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”, hanno picchiato selvaggiamente persone inermi e disarmate, con 69 feriti su 93 arrestati, hanno gettato su quegli arrestati l’accusa infamante di “associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e saccheggio”, smontata solo grazie al lavoro dei mediattivisti e dei legali che hanno assistito i manifestanti, hanno messo in bocca al portavoce della Polizia di allora bugie sulle “ferite pregresse” di chi era entrato in quella scuola sulle sue gambe e ne è uscito in barella, hanno umiliato i giornalisti in una conferenza stampa dove non sono state raccolte le loro domande, mostrando come prove di reato magliette nere, volantini contro lo strapotere delle multinazionali, attrezzi del cantiere allestito nella scuola, e le fantomatiche bottiglie molotov magicamente comparse nel cortile della scuola a pestaggio già avvenuto (e poi magicamente sparite dall’archivio delle prove del tribunale di Genova durante il processo ai funzionari della polizia di stato che avevano tramato nell’ombra per piazzare quelle false prove).
Per le violenze della scuola Diaz la sentenza definitiva è stata scritta nel 2012, con 25 condanne che hanno chiamato in causa l’intera catena di comando dell’operazione. Tra gli imputati ci sono funzionari di altissimo grado condannati per falso ideologico aggravato, l’unico capo di imputazione sottratto alla prescrizione dopo un iter giudiziario durato 11 anni. Nel frattempo molti di quei funzionari hanno continuato a fare carriera: tra i tanti anche l’uomo che ha piazzato le molotov nella scuola Diaz per accusare vigliaccamente persone picchiate, torturate, arrestate e calunniate, promosso nel 2017 a comandante del centro operativo della Polstrada di Roma, mentre i manifestanti accusati di “devastazione e saccheggio” scontavano pene detentive a due cifre per aver consumato reati contro il patrimonio e non contro le persone.
Al di là delle condanne definitive che hanno raggiunto i vertici della catena di comando, molti degli agenti responsabili delle torture e delle violenze all’interno della scuola Diaz non sono stati identificati per una scarsa collaborazione con i magistrati da parte delle forze dell’ordine. I più grandi investigatori d’Italia hanno impiegato mesi a identificare tredici firme su quattordici tra quelle apposte sul verbale di perquisizione della scuola Diaz, lasciando nel mistero il nome del quattordicesimo funzionario, non sono riusciti a identificare il picchiatore con la coda di cavallo ripreso nei filmati dei mediattivisti (magicamente comparso nelle udienze finali del processo, quando i suoi reati erano già prescritti) e per l’identificazione degli operatori di polizia ritratti nelle foto e nei filmati delle violenze la polizia ha fornito vecchie foto degli agenti che hanno partecipato all’operazione, mettendo a disposizione le foto del reclutamento invece di agevolare le indagini dei magistrati con foto più recenti.
Cosa rimane di quella protesta
Le ragioni del movimento altermondialista sono valide oggi più di allora: c’è sempre più bisogno di una società che difende la vita di tutti a prescindere dal passaporto, che favorisce lo sviluppo sostenibile con un’equa distribuzione delle risorse, che mette le persone prima del profitto e le famiglie prima delle aziende, che difende i diritti dei lavoratori nati dalle lotte del novecento, che tutela l’ambiente come preziosa infrastruttura biologica indispensabile alla vita di tutto e tutti. Quelle ragioni sono state raccolte dai giovani di “Friday for future“, dal volontariato internazionale, dalle ONG che salvano vite umane con le “ambulanze del mare” che qualcuno chiama taxi, da tutte le persone di buona volontà che ogni giorno si impegnano per costruire un mondo migliore a partire dal proprio quartiere. Se a Genova non c’eri, o eri troppo giovane per ricordare e capire tutto quello che accadeva in quei giorni, seguendo i fili, i link e le tracce di questo promemoria quelle ragioni potranno essere raccolte anche da te.
*Carlo Gubitosa (1971) giornalista e scrittore, ingegnere di mestiere, è autore di “Genova, Nome per nome”, una inchiesta di 600 pagine sui fatti di Genova liberamente disponibile in rete con licenza Creative Commons all’indirizzo http://url.gubi.it/genova2001 [scaricabile qui]. In occasione del ventennale della protesta di Genova ha pubblicato per le edizioni People il libro “Abbiamo ragione da vent’anni. La contestazione al G8 del 2001 nelle lotte sociali del 2021” illustrato da Mauro Biani, con prefazione di Haidi Giuliani e introduzione di Lorenzo Guadagnucci. Per la medesima ricorrenza ha anche contribuito con testi e note al volume illustrato sui fatti del G8 “Vent’anni dopo” di Lucio Villani (Edizioni Red Star Press) e al saggio collettivo “2001-2021. Genova per chi non c’era” (Altreconomia).
“La speranza di un mondo più giusto, la ‘macelleria messicana’, la sospensione della democrazia: il G8 di Genova spiegato a chi ha oggi 20 anni” sarà il tema del prossimo incontro di Valigia Blu Live, in diretta giovedì 15 luglio alle ore 18.30 sul gruppo Facebook “VB Comunity”. Insieme ad Arianna Ciccone ci saranno Annalisa Camilli (Internazionale – potete ascoltare il suo podcast “Limoni – Il G8 di Genova vent’anni dopo” qui) e Luca Martinelli (Altreconomia).
L’incontro sarà poi disponibile anche in versione podcast qui e sul nostro canale YouTube.
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Immagine in anteprima: “Genova 2001: No G8“di han Soete sotto licenza CC BY-NC-SA 2.0