Quello che sta accadendo con la vicenda del passaggio da Alitalia a Ita è semplicemente scandalosa, e mostra la tendenza del potere politico a considerare le leggi, il diritto, un mezzo per favorire taluni centri di interesse a scapito di altri, rientrando nella prima categoria il potere economico e finanziario e nella seconda ovviamente lavoratori e cittadini indifesi, per cui invece pare stia restando in piedi solo l’apparato repressivo.
Il perché la vicenda Alitalia-Ita rappresenta in tal senso un punto di non ritorno proverò a spiegarvelo in pochi ma essenziali passaggi normativi, indispensabili per comprendere i pericoli che stiamo correndo.
Di cessioni di ramo d’azienda, ovvero di esternalizzazioni, mi occupo ormai da tantissimi anni seguendo importanti vertenze sul piano nazionale, e posso assicurarvi che i principali processi di ristrutturazione del potere capitalista fanno leva su questo fenomeno.
Attraverso le cessioni di ramo d’azienda ai sensi dell’art. 2112 c.c., i lavoratori possono essere ceduti senza il loro consenso, il che rappresenta una eccezione rispetto alla regola generale dello stesso codice civile (art. 1406) che attribuisce invece valore decisivo al consenso del contraente ceduto.
Ora, non è che l’art. 2112 c.c. dice espressamente che il passaggio dei lavoratori da un’azienda ad un’altra deve avvenire senza il loro benestare, ma ci si arriva per via interpretativa poiché la norma è stata creata per tutelare i lavoratori contro operazioni societarie che possono condurre ad un loro licenziamento abusivo oppure a un peggioramento delle condizioni di lavoro.
L’art. 2112 c.c. stabilisce infatti che in caso di trasferimento tutti i lavoratori impiegati nell’azienda o nella parte di azienda da cedere mantengono il contratto di lavoro e i diritti acquisiti. Altrimenti, l’azienda acquirente potrebbe riassumere i singoli lavoratori alle condizioni che riesce a contrattare con persone che sono, ovviamente, sotto ricatto occupazionale. Talvolta qualcuno prova ad aggirare la norma dichiarando che si tratta di cessione di “singoli beni” e “singoli rapporti di lavoro” e non di ramo d’azienda. Poi è chiaro che se i lavoratori si incavolano e fanno causa spetta al giudice decidere se si tratta dell’uno o dell’altro caso.
E’ vero, quindi, che da un lato i lavoratori non possono opporsi alla cessione (molti fanno causa se ritengono di essere trasferiti illegittimamente, ma questa è un’altra storia che spiego qui) ma d’altro canto l’azienda non può né scegliere pretestuosamente il personale da escludere né tanto meno peggiorare le condizioni di lavoro dei trasferiti.
Vi sono però delle eccezioni a questa regola che riguardano direttamente il caso Alitalia-Ita
1) Se l’azienda che cede versa in uno stato di crisi per cui non si prevede la prosecuzione dell’attività d’impresa, allora le tutele di cui all’art. 2112 c.c. possono essere derogate, con possibilità di escludere alcuni lavoratori dal trasferimento.
2) Se l’azienda che cede prevede la prosecuzione dell’attività d’impresa non è invece possibile disapplicare le tutele previste dalla norma (con sola possibilità di modifica delle condizioni di lavoro previo accordo sindacale), e quindi non è possibile scegliere a propria discrezione il personale da trasferire e quello da trattenere.
I lavoratori Alitalia protestano contro la nuova società Ita che intende acquisire il “ramo aviation” ma con un numero discrezionale di lavoratori “a chiamata”, non applicando la normativa in materia di trasferimento ai sensi dell’art. 2112 c.c. e dell’art 47 l. n. 428/1990.
I dipendenti hanno ragione? Sì, capiamo assieme perché e soprattutto perché ci riguarda tutti.
LE GRAVI INADEMPIENZE DELL’ITALIA SUI DIRITTI SANCITI IN AMBITO COMUNITARIO: L’ARBITRIO A DISPOSIZIONE DELLE GRANDI AZIENDE
Attenzione, l’Italia non è mica stata così diligente nel rispetto delle norme europee da adeguarsi subito a questi sacrosanti principi, che sono ovviamente un intralcio per i manager delle grandi aziende che vorrebbero spostare cose e persone da una società ad un’altra senza intralci.
Siamo stati addirittura condannati dalla Corte di Giustizia Europea (sentenza C-561/07, dell’11 giugno 2009 a seguito della procedura d’infrazione) per aver sostanzialmente ammesso – in contrasto con la direttiva 2001/23/CE – la possibilità di non far transitare tutti i dipendenti presso la nuova società anche quando venga disposta la prosecuzione dell’attività dell’impresa in crisi, equiparando quindi tale ipotesi a quella in cui la società fallisca o sia sottoposta a una procedura concorsuale che comporta la cessazione delle attività, per cui permane tutt’ora la possibilità di escludere taluni lavoratori dalla cessione.
Costretto, il legislatore italiano ha dunque deciso di adeguarsi introducendo il comma 4-bis nell’art. 47 della l. n. 428/1990 (d.l. n. 135 del 2009, conv. in l. n. 166 del 2009, art. 19-quater) – ossia la norma che disciplina l’applicazione del 2112, con deroghe ammissibili previo accordo sindacale in ipotesi di prosecuzione dell’attività d’impresa.
Guarda caso, però, con l’ambigua frasetta “mantenimento, anche parziale, dell’occupazione” si lascia aperta una interpretazione arbitraria su un tema centrale, ossia sulla possibilità di potere escludere alcuni lavoratori dal passaggio alla nuova azienda. Insomma, il lupo perde il pelo ma non il vizio:
“4- bis . Nel caso in cui sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento, anche parziale, dell’occupazione, l’articolo 2112 del codice civile trova applicazione nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo medesimo qualora il trasferimento riguardi aziende…”.
A CHI HA GIOVATO LA “FRASETTA”?
Sapete cosa è accaduto con questa “frasetta”? E’ accaduto che talune aziende, tra queste Alitalia, ha licenziato un gruppo di lavoratori che erano stati esclusi dalla cessione.
Dopo l’ennesima crisi che ha comportato l’ennesima ricerca di un acquirente, nel 2014 Alitalia raggiunge un accordo con Etihad, compagnia degli Emirati arabi, con cui crea una joint venture, che sembra figo, invece è la solita manovra in salsa italiana che consiste nel far transitare i lavoratori in una cosiddetta newco, ossia società di nuova costituzione chiamata Alitalia Sai, per il 49 percento in mano a Etihad e il 51 percento posseduto dai vecchi azionisti di Cai cui si è aggiunta di Poste Italiane.
Ma in virtù della “frasetta”, le aziende si sentono in diritto di far transitare nella newco solo parte dei dipendenti, e su questo presupposto dei lavoratori sono stati licenziati direttamente dalla cedente Cai-Alitalia. Tali licenziamenti sono stati considerati nell’ambito di una complessa trattativa sindacale sulla mobilità per circa 2000 dipendenti in vista della cessione ad Alitalia Sai.
Vi è stato dunque un nesso funzionale tra i licenziamenti e la cessione alla nuova società (per i dettagli si può leggere la sentenza Tribunale di Roma, 15 gennaio 2016).
Ciò ha dato luogo a un ampio contenzioso che è sfociato in una sentenza della Cassazione, n. 10414 del 2020, con la quale i giudici della Suprema Corte hanno ridimensionato la “frasetta” e l’hanno fatta rientrare nei ranghi del diritto comunitario. In estrema sintesi, la Cassazione ha detto che l’espressione “mantenimento, anche parziale, dell’occupazione” non può essere intesa come possibilità di selezionare i dipendenti da trasferire nei casi di prosecuzione dell’attività, perché la lettura della norma deve essere comunitariamente orientata, anche alla luce della giurisprudenza europea, e perché altrimenti non vi sarebbe una effettiva distinzione con l’ipotesi di deroga in caso di cessazione dell’attività prevista dal comma 5 dell’art. 47:
“L’unica lettura coerente della legge risulta quella che si coordina con le indicazioni offerte dalla Corte di Giustizia, nel senso che gli accordi sindacali, nell’ambito di procedure di insolvenza aperte nei confronti del cedente sebbene non “in vista della liquidazione dei beni”, non possono disporre dell’occupazione preesistente al trasferimento di impresa. Tanto vero che solo nel comma 5 dell’art. 47, “nel caso in cui la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata”, è previsto che gli accordi possano stabilire la non applicazione dell’art. 2112 c.c. “… ai lavoratori il cui rapporto di lavoro continua con l’acquirente…” (con il che ammettendo esplicitamente che vi siano rapporti di lavoro che non continuano con l’acquirente), mentre espressioni analoghe, che alludano alla possibilità dell’accordo di limitare il trasferimento dei lavoratori dell’azienda cedente, non si rinvengono nel comma 4-bis, al di fuori del già detto inciso di esordio circa il mantenimento “anche parziale” dell’occupazione. Né l’assenza di tale previsione può essere recuperata – in contrasto con il criterio logico-sistematico e con l’intenzione del legislatore di dare attuazione alla sentenza della Corte di Giustizia – attraverso la specificazione “nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo”, accordo che deve riguardare “le condizioni di lavoro” ma non la continuità dei rapporti di lavoro con la cessionaria”.
Senonché, la stessa Corte di Cassazione ricorda che quella fornita in occasione della condanna ad Alitalia è tra l’altro una interpretazione coerente con il tanto agognato adeguamento del legislatore italiano – oramai messo all’angolo pure dai giudici – che nel 2019 partorisce una legge (d. lgs. n. 14, “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”, art. 389, comma 4, lettera b)) che chiarisce la questione, attraverso una nuova formulazione del comma 4-bis dell’art. 47, stabilendo che :
“…l’articolo 2112 del codice civile, fermo il trasferimento al cessionario dei rapporti di lavoro, trova applicazione, per quanto attiene alle condizioni di lavoro, nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo (sindacale) medesimo”.
Oh, finalmente! Se l’attività prosegue i lavoratori facenti parte dell’attività devono tutti passare alle dipendenze della società cessionaria.
Oh.
Aspetta un attimo, l’art. 389, comma 7, del decreto in questione prevede l’entrata in vigore decorsi diciotto mesi dalla data della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, per farla breve il 15 agosto 2021.
Invece no, un ulteriore ritardo previsto dall’art. 5 del d. l. n. 23 dell’8 aprile 2020 posticipa l’entrata in vigore al 1° settembre.
E va beh, direbbe qualcuno, siamo a Ottobre e ancora il passaggio è in una fa embrionale e quindi il cambio di data non può in tal senso avere alcun impatto.
Discutendo un po’ più seriamente, non è chiaro però se e in che termini l’aver posticipato l’entrata in vigore delle modifiche del comma 4-bis abbia a che fare con la vicenda Alitalia, stesso ragionamento per quanto riguarda i commi 1-bis, 5-bis e 5-ter, la cui modifica è stata addirittura posticipata a maggio del 2022.
IL LEGISLATORE ITALIANO SI ARRENDE E SI ADEGUA, GOVERNO SENZA SCAMPO CAMBIA STRATEGIA E APRE UNA NUOVA PARTITA PER ANDARE COMUNQUE OLTRE L’ART. 2112
L’annosa questione sembra dunque concludersi positivamente per i tutti i lavoratori, e in particolare anche per quelli di Alitalia, perché in regime di amministrazione straordinaria senza cessazione dell’attività non è possibile escludere alcuni lavoratori dal passaggio alla nuova società.
Invece no, figuriamoci se il potere si arrende dinanzi ai diritti dei lavoratori, i quali hanno contro una pericolosa associazione tra il governo in quanto apparato pubblico e il governo in quanto capitalista, con un Parlamento a disposizione.
Cosa mai potrebbe accadere? Semplice, accade che il governo fa quello che ogni capitalista desidera fare quando trova ostacoli di questo tipo: prova a cambiare il campo dove si svolge la partita, perché in quello della deroga illegittima all’art. 2112 c.c. le istituzioni europee, i giudici europei e i giudici della Cassazione sono dalla parte dei lavoratori.
Il governo decide così di cambiare le norme sulla transizione dalla vecchia alla nuova società, nel senso che non si cita più solo “la cessione di singoli rami d’azienda” (comma 4, art. 6, decreto legge n. 99 del 30 giugno 2021) per realizzare il passaggio di attività e dipendenti ma con un successivo decreto si prevede la possibilità di cedere anche “parti di essi (di rami d’azienda)” o “singoli beni” (lettera a), comma 2, art. 7, decreto legge n. 121 del 10 settembre 2021).
In parole semplici, siccome le tutele lavoristiche sancite nell’art. 2112 c.c. si applicano in caso di cessione di ramo e non in caso di cessione di singoli beni “parti di ramo”, in tal modo il governo, manco fosse l’avvocato del diavolo, tenta di superare la questione delle tutele estraniando taluni passaggi di attività e di personale dai limiti previsti dal codice civile dichiarando che non si tratta di cessione di ramo d’azienda.
Certo, al giurista attento non sfugge che in verità l’art. 2112 c.c. non utilizza l’espressione “ramo d’azienda”, utilizzata nel gergo comune, ma l’espressione “parte dell’azienda”, quindi tecnicamente “parti di ramo” sarebbe “parti di parte dell’azienda”, direbbe l’avvocato del diavolo se non pensasse che quelli intelligenti sono soltanto loro.
In altri termini, è stato sancito tramite decreto un qualcosa che l’avvocato di una grande azienda può utilizzare dinanzi a un giudice del lavoro per vincere la causa contro i lavoratori.
Francamente credo che difficilmente questa tecnica da azzeccagarbugli, questa commistione tra logiche capitaliste e agire istituzionale, possa avere successo dentro le aule di tribunale.
Intanto però, in virtù di questa nuova “frasetta”, i passaggi di personale possono essere realizzati senza mantenimento delle tutele, ma soprattutto selezionando a proprio piacimento il personale da trasferire, riducendo ai minimi termini la trattativa sindacale.
La strategia normativa è francamente mediocre ma allo stesso tempo diabolica, perché in tal modo diviene molto semplice non assumere tutti i dipendenti, disapplicare quindi l’art. 2112 c.c. trattando separatamente la cessione di singoli beni e la cessione di pezzi di attività e di personale con accordi distinti, sebbene poi nella sostanza possa configurarsi un ramo di azienda.
Vi è da evidenziare che solo con un governo fortemente orientato a fare quel che gli pare possono accedere cose simili, e questo, ripeto, deve spaventarci tutti.
NELLA PENTOLA PERÒ IL GOVERNO HA MESSO UN COPERCHIO DIFETTOSO, MA È COMUNQUE UN PIANO DIABOLICO
Ma l’ordinamento giuslavoristico non è mica così fesso, perché resta appunto sempre ferma la possibilità per i lavoratori di rivolgersi al giudice del lavoro per chiedere di accertare, qualora ne sussistano i presupposti, che le operazioni nella sostanza configurano un trasferimento di ramo (o parte di azienda) e non di “singoli beni” o di “parti di ramo”.
Nel caso in cui il giudice conclude che si tratta di ramo d’azienda, la società è obbligata ad applicare le tutele previste dal 2112, compresa dunque l’acquisizione del personale eventualmente escluso.
Attenzione a questo passaggio, perché chi nel governo ha ideato una simile strategia normativa non ignora il fatto che i lavoratori possano fare comunque causa, ma è consapevole che queste verterebbero non su una questione di diritto persa in partenza e già chiusa dalla Cassazione (ammettere già in partenza che si tratta di ramo di azienda con palese violazione dell’art. 47), ma su una questione di merito, ossia la verifica in concreto dell’esistenza di un ramo d’azienda ai sensi dell’art. 2112 c.c. (articolazione funzionalmente autonoma preesistente al trasferimento).
Il tutto ovviamente si regge su una logica di ricatto occupazionale, perché intanto Ita ha lanciato proposte individuali per le nuove assunzioni, a cui hanno risposto molti dipendenti Alitalia. Quindi immagino che a coloro che saranno assunti verrà chiesto di firmare una rinuncia a rivendicare l’applicazione dell’art. 2112 c.c., mentre forse l’ipotesi di una vertenza sarà valutata da coloro che saranno scartati. Il “ricatto” tra l’altro è stato costruito bene, perché Ita mette in competizione i lavoratori di Alitalia con lavoratori estranei alla compagnia di bandiera, avendo aperto le offerte di lavoro a chiunque, neutralizzando in tal modo la possibilità per i lavoratori di fare scudo, e lasciandoli esposti a un frenetico “si salvi chi può”.
Per fortuna, sulle cessioni di ramo d’azienda la magistratura italiana ha una maturità e un’autorevolezza fuori discussione, quindi la partita è ancora tutta da giocare.
Lidia Undiemi