Quello che non poté la condizione sociale poté la sete di criptovalute.
Che la situazione sociale del Kazakistan fosse precaria era una informazione nota da tempo. Che precipitasse per gli equilibri digitali del nuovo mondo globale digitale legato alla Blockchain non era prevedibile (almeno negli schemi del passato).
Nei mesi scorsi, infatti, la Cina aveva assunto la decisione di eliminare i sistemi di criptovalute ad eccezione di quella statale. Nel provvedimento era incluso il divieto di effettuare il cosiddetto “mining” delle blockchain sottostanti (la tecnologia su cui si basano le criptovalute e che per le transazioni necessita di una forte capacità di calcolo informatico – chiamato mining – reso disponibile da veri e propri centri di calcolo che vivono attraverso queste funzioni). La Cina, fino a quel momento, era il primo territorio per capacità di mining nel mondo. Il Kazakistan il secondo.
Ora dobbiamo ricordare che Cina e Kazakistan non condividono solo un confine ma anche una sorta di “scambio” di popolazioni che caratterizza una sorta di “contiguità” tra i territori. Da un lato il territorio kazako vede una parte della popolazione uiguri sul proprio suolo e, dall’altra, una fetta di popolazione di kazaka vive sul territorio cinese. I confini, come si sa, non dividono le popolazioni in maniera netta (forse solo in Europa – dove nasce la teoria politica dello stato-nazione – possiamo identificare i confini con i popoli e neanche in ogni caso…).
Nella fattispecie storica, la decisione della Cina di mettere al bando le tecnologie della Blockchain sul proprio territorio ha spinto alla migrazione verso il Kazakistan, ove esistevano già le tecnologie, le basi logistiche e il know-how. In particolare, nella città di Almaty.
Si sa che il processo di mining richieda grosse quantità di energia (sia per il calcolo sia per il raffreddamento degli ambienti necessari ad ospitare gli impianti) e che la situazione di richiesta di energia da parte di questo comparto avesse messo in crisi l’intero sistema produttivo e distributivo del paese già dalla scorsa estate. Gli operatori del settore, infatti, avevano avvertito che il sistema energetico del paese non era in grado di soddisfare così tanti “minatori digitali” assetati di potere (economico e energetico) che lasciavano la Cina.
Le difficoltà di approvvigionamento, infatti, hanno visto i gestori della rete limitare la potenza alle operazioni di mining informatiche per privilegiare l’uso industriale e sociale, ostacolando gli interessi delle aziende impegnate nella grande caccia ai “Bitcoin&C.”.
Questa la miccia reale della rivolta kazaka e questo il grumo di interessi che sta sfruttando la grave situazione sociale sottostante e sulla quale contano gli “ispiratori” della protesta per avere una base di massa. Non è un caso che, questa volta, anche in Occidente, si parli apertamente di gruppi oscuri armati che capeggino e guidino la battaglia contro il governo. Scopo reale e primario di questa rivolta, quindi, non è l’equità sociale ma la realizzazione di un territorio a gestione “autonoma” al servizio del grande circo di interessi legati alla necessità dell’uso delle criptovalute speculative.
Questo non toglie che la condizione sociale sia critica e che il paese necessiti di riforme e di un nuovo livello di equità ma occorre comprendere che la crisi kazaka si sia innescata per le dinamiche legate allo sviluppo del mondo digitale e rappresenta, probabilmente, la prima rivolta sociale che poggia le sue motivazioni sulle necessità di sviluppo del nuovo mondo delle criptovalute.
7 Gennaio 2022
Il digitale innesca la crisi kazaka. – Sergio Bellucci