Ormai da otto lunghi anni l’Ucraina è il principale serbatoio che alimenta la tensione permanente in seno allo spazio continentale, distanziando l’Europa occidentale dalla Federazione Russa. In larga misura deindustrializzata e ridotta al rango di paese più povero d’Europa l’Ucraina fa i conti con un conflitto da anni combattuto a bassa intensità nella parte orientale del paese: un conflitto che ha polarizzato l’Ucraina, trovandosi ciclicamente sopito e destinato, almeno in questa fase, a rimanere irrisolto. Come confermano le tensioni delle ultime settimane, i presupposti per una risoluzione del conflitto ucraino mancano pressoché in toto.
Non esiste, oltre i Carpazi, alcuna “Pax Occidentalis”: non esiste, cioè, la possibilità di un’Ucraina stabile e pacificata senza il presupposto di un accordo reale e duraturo tra Mosca, gli Stati Uniti e le principali forze dell’Europa occidentale. Tale accordo potrebbe reggersi solo a partire dalla condizione irrinunciabile di neutralità dell’Ucraina e della sua polarizzazione geopolitica a somma zero. Per poterlo immaginare, sarebbe anzitutto necessario considerare l’Ucraina per quello che è – una terra di mezzo – ed immaginare un paese aperto tanto alle influenze occidentali quanto a quelle russe. Tale importanza veniva attribuita alla neutralità del paese da parte della sua dirigenza che questo presupposto venne inserito nella prima dichiarazione di sovranità statuale del paese del 1990: “La RSS ucraina dichiara solennemente la sua intenzione di diventare uno stato permanentemente neutrale che non partecipi a nessun blocco militare e che aderisca ai tre principi di denuclearizzazione: quelli di non accettare, non produrre e non acquistare armi nucleari.”.
Il corso post-sovietico dell’Ucraina ha man mano eroso questo presupposto durante i mandati presidenziali di Leonid Kravchuk, Leonid Kuchma e Viktor Yushenko, caratterizzati ad intensità variabile dall’avvicinamento alla Nato.
Durante il mandato presidenziale di Viktor Yanukovich venne promulgata, in controtendenza rispetto ai mandati precedenti, una legge che ribadiva il non allineamento militare dell’Ucraina.
Pochi mesi dopo la destituzione violenta di Yanukovich, nel dicembre del 2014 il parlamento ucraino aveva votato con un’ampia maggioranza per la fine della neutralità del paese, contribuendo a determinare la situazione di instabilità e crisi profonda in cui l’ex repubblica sovietica versa da ormai otto lunghi anni.
La mancata risoluzione del conflitto ucraino appare una scelta molto più che una contingenza. La necessità del posizionamento neutrale dell’Ucraina sembra essere deliberatamente ignorata dalla coppia Londra-Washington, il cui oltranzismo appare esponenziale perfino se accostato a certe posizioni dell’attuale compagine politica ucraina: i ripetuti annunci di imminenti invasioni da parte di Mosca hanno finito per irritare persino Kiev. Sia il Ministro degli Esteri che il presidente Volodymyr Zelensky hanno stigmatizzato come inopportuno l’atteggiamento statunitense.
Le tensioni russo-statunitensi si inseriscono nel quadro di crisi della produzione che si registra soprattutto in Europa occidentale: una crisi provocata dall’aumento vertiginoso del costo delle materie prime, dalle difficoltà nell’approvvigionamento della componentistica così come dal costo e dai tempi di trasporto transnazionale delle merci. Dai risvolti di questa crisi sembrano emergere precise scelte da parte di Washington, scelte volte a controllare l’Europa occidentale e mettere in difficoltà Pechino e Mosca: la prima sul piano produttivo, la seconda sul piano delle esportazioni energetiche.
Malgrado il frastuono dei tamburi di guerra, nessuno degli attori coinvolti dovrebbe voler davvero arrivare ad uno scontro aperto sul piano militare, tanto meno l’Ucraina. Le conseguenze sarebbero devastanti per tutti gli attori coinvolti nella crisi, direttamente o indirettamente: l’Europa occidentale potrebbe trovarsi sommersa da nuove ondate migratorie e nuove crisi, forse anche militari, e guai enormi sul piano economico e della stabilità regionale. Uno scenario di scontro aperto avrebbe anche per la Russia enormi costi economici: le conseguenze interne sul piano sociale e politico sarebbero immani. Gli Stati Uniti – e la Gran Bretagna – rischierebbero una figura peggiore di quella fatta nel 2008, quando le truppe georgiane vennero rassicurate e mandate allo sbaraglio in Ossezia. Senza contare che la scelta di andare allo scontro con Mosca, anche se su procura, finirebbe per acuire le già significative tensioni presenti in seno alla società ed alle istituzioni statunitensi.
E’ probabile che la decisione statunitense di inviare un ulteriore numero di uomini in Europa orientale voglia ricordare ai paesi dell’Europa occidentale di essere ancora in grado di determinare in larga misura la loro condizione, e secondariamente rassicurare i governi dei paesi più a ridosso del limes russo.
In visita a Kiev, il primo ministro britannico Boris Johnson, ha sottolineato la necessità di “rendere noto ai cittadini russi che gli ucraini si batteranno fino all’ultima goccia di sangue”. Nonostante ciò, la possibilità di una guerra su larga scala in Ucraina è ad oggi remota. Mentre se ne discute si sorvola sulla guerra in atto da anni – non solo nelle trincee del Donbass – e della sua natura psicologica, mediatica ed economica. Fondamentale nello scontro tra Washington e Mosca è infatti la questione energetica: gli Stati Uniti appaiono sedotti dall’idea di imporre all’Europa occidentale la massima riduzione possibile delle importazioni di gas e petrolio russo, prefigurandosi di indebolire economicamente Mosca, contenere la produttività dell’Europa occidentale ed ottenere il controllo del mercato energetico di questa, rendendo una scelta obbligata l’importazione di idrocarburi statunitensi.
Maurizio Vezzosi
2 Feb , 2022
L’Ucraina divide l’Europa. Verso nuove sanzioni antirusse? | La Fionda