“È poi inevitabile che, in queste circostanze, l’estensione dell’obbligo vaccinale al personale universitario venga percepito come strumento di repressione del dissenso: … Piuttosto che essere visto come un intervento dettato da urgenze di tipo prettamente sanitario, l’imposizione dell’obbligo in questione all’esigua minoranza di docenti e altro personale che finora avevano preferito non avvalersi dell’opportunità di vaccinarsi rischia quindi di essere interpretato, anche all’esterno del mondo universitario, come una misura vessatoria nei confronti di quanti propongono dall’interno degli Atenei analisi scientifiche e politiche di intervento non in linea con la posizione governativa.” Il Prof. Cosentino rilancia sul suo canale Telegram la lettera aperta da parte di “Universitari e Ricercatori contro il GreenPass” al Presidente del Consiglio Mario Draghi che vi pubblichiamo in calce nella sua interezza.
Per aderire alla lettera – Universitari e Ricercatori contro il GreenPass (wordpress.com)
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Al Presidente del Consiglio dei Ministri
Al Ministro per l’Università e la Ricerca
e, p.c., ai Ministri della Repubblica Italiana
Ai Presidenti della Camera e del Senato della Repubblica
Al Presidente della Corte costituzionale
Siamo un gruppo di lavoratrici e lavoratori di Atenei, di Enti di Ricerca e di Istituti di Alta Formazione italiani (tecnici, amministrativi, bibliotecari, lettori, collaboratori ed esperti linguistici, ricercatori, docenti) che ha avviato una discussione sulle ricadute nel mondo universitario e nella società civile delle politiche di gestione della pandemia. Tra noi vi sono sia persone vaccinate che non vaccinate, altre sono guarite dalla malattia e altre ancora sono state esentate dalla vaccinazione.
Il Decreto Legge n. 1 del 7 gennaio 2022 ha esteso l’obbligo vaccinale al personale delle università, delle istituzioni di alta formazione artistica, musicale e coreutica e degli istituti tecnici superiori e ha introdotto ulteriori restrizioni alle libertà fondamentali dei cittadini: accesso ai trasporti pubblici, negozi, e altri servizi essenziali come banche e uffici postali.
Al riguardo, rileviamo anzitutto che non vi sono basi scientifiche per questo ennesimo inasprimento delle politiche di contenimento della pandemia e non possiamo non esprimerci relativamente alle fortissime implicazioni psicologiche, etiche, giuridiche ed economiche che questo approccio alla pandemia sta avendo sul nostro tessuto sociale e civile. Osserviamo inoltre con estrema preoccupazione l’escalation di violenza verbale e attacchi pretestuosi verso la minoranza di coloro che per vari motivi, tra cui considerazioni di tipo sanitario, hanno scelto di non vaccinarsi. Riteniamo altresì che questo clima e questo modo di operare non possa essere ulteriormente tollerato da parte di istituzioni che si vogliono ancora definire democratiche e, con questo Appello, intendiamo ribadire la nostra ferma volontà di contestare provvedimenti che, nell’arco di pochi mesi, hanno colpito un numero crescente di categorie professionali e che stanno creando un quadro normativo dai contorni estremamente allarmanti.
È poi inevitabile che, in queste circostanze, l’estensione dell’obbligo vaccinale al personale universitario venga percepito come strumento di repressione del dissenso: infatti, la quasi totalità del personale universitario era già vaccinato al momento dell’emanazione del D.L. e le strutture universitarie sono generalmente risultate luoghi sicuri, anche quando le lezioni e parte delle altre attività sono riprese prevalentemente in presenza. Piuttosto che essere visto come un intervento dettato da urgenze di tipo prettamente sanitario, l’imposizione dell’obbligo in questione all’esigua minoranza di docenti e altro personale che finora avevano preferito non avvalersi dell’opportunità di vaccinarsi rischia quindi di essere interpretato, anche all’esterno del mondo universitario, come una misura vessatoria nei confronti di quanti propongono dall’interno degli Atenei analisi scientifiche e politiche di intervento non in linea con la posizione governativa.
L’università italiana ha sempre rappresentato, tranne nel periodo buio del ventennio fascista, un baluardo di democrazia e il laboratorio per eccellenza di teorie, opinioni e ipotesi scientifiche caratterizzate da ampio pluralismo, in ossequio alla libertà di scienza e insegnamento di cui all’art. 33 della Costituzione repubblicana. In tale contesto, il rispetto delle minoranze, soprattutto nelle scuole di pensiero, ha sempre rappresentato garanzia del carattere autocorrettivo della scienza.
Come scriveva l’illustre filosofo e medico-psichiatra Karl Jaspers all’indomani del secondo dopoguerra: “L’università deve la sua esistenza ad un clima politico dominato dall’idea che debba esistere un’istituzione indipendente e libera deputata alla ricerca della verità. […] Lo Stato permette e garantisce l’università come spazio franco entro di sé, che egli protegge da intromissioni da parte di altri poteri. […] In realtà esiste sempre una tensione, anzi una lotta, tra Stato e università e in questa lotta lo Stato è senz’altro il contendente dotato di maggiore artiglieria, soprattutto perché l’università ne dipende e ne può essere annientata. […] ciò che conta in questa lotta non è la sconfitta dell’avversario, ma la cooperazione dei due contendenti” (Jaspers, 1945).
L’attuale fase epidemica è caratterizzata da una minore letalità e pericolosità del virus, verosimilmente dovuta più alla circolazione della nuova variante Omicron, rivelatasi generalmente meno pericolosa rispetto alle precedenti, che alla capacità dei vaccini di arginare sviluppi gravi della malattia Covid-19 (HKUMed, 2021).
In un recentissimo articolo apparso su The Lancet (https://doi.org/10.1016/S0140-6736(22)00100-3), Cristopher Murray, Direttore dell’Institute for Health Metrics Evaluation di Seattle, dati (e simulazioni) alla mano offre un quadro della diffusione della variante omicron che è piuttosto rassicurante. Se è vero che la velocità della sua diffusione anticipa, vanificandoli, gli interventi di policy o profilassi vaccinale adottati finora, è anche vero che tale variante, manifestandosi per lo più in forma lieve o asintomatica, contribuisce ad incrementare l’immunità al patogeno nella popolazione. Nello stesso articolo, Murray fa notare che nella maggior parte dei paesi la mortalità causata dalla variante Omicron è paragonabile a quella registrata per l’influenza 2017-2018.
Sulla base delle stesse considerazioni, e in seguito alle raccomandazioni dell’Expert Group for Mathematical Modelling dello ‘Statens Serum Institut’ (SSI, 2021), la principale agenzia sanitaria pubblica del paese, il Governo Danese ha abolito tutte le restrizioni legate al contenimento della pandemia (quarantena, test, pass sanitari di qualsiasi genere). Stesso percorso sta seguendo l’unico stato che aveva adottato restrizioni altrettanto forti quanto quelle volute dal Governo italiano, cioè Israele. Analoghe considerazioni valgono per il Regno Unito, la Spagna, il Portogallo, la Finlandia e la Svizzera, per tacere degli Stati situati oltre la sponda adriatica: Croazia, Bosnia, Serbia, Albania etc. Una proposta di legge per l’obbligo vaccinale dei lavoratori è stata recentemente bocciata negli Stati Uniti, mentre nel Regno Unito il Ministro della Salute intende abrogare anche quello per i sanitari.
Il nodo della questione in Italia è legato al possibile impatto sul sistema sanitario italiano, incautamente e pesantemente ridimensionato nel corso degli ultimi decenni. Va detto, comunque, che il tasso medio di occupazione delle terapie intensive risulta da tempo inferiore al 20%: dal 9% degli inizi di dicembre 2021, si è passati al 17% odierno, con un picco del 18% verificatosi nei giorni scorsi https://www.agenas.gov.it/covid19/web/index.php (ultima consultazione 28 gennaio 2021).
Inoltre, com’è noto, le forme più gravi del Covid-19 e i rischi di morte più elevati riguardano essenzialmente i soggetti anziani, per di più affetti da plurime patologie gravi pregresse. In particolare, in base ai dati dell’Istituto Superiore di Sanità[1], si rileva che:
- l’età mediana dei pazienti deceduti e positivi al SARS-COV-2 è di 82 anni, risultando molto prossima alla speranza di vita;
- circa il 95% dei deceduti aveva più di 60 anni di età e l’85% aveva più di 70 anni;
- per contro, solo il 5% dei decessi si riferisce a soggetti di età inferiore a 60 anni, l’1,3% a persone con meno di 50 anni, lo 0,3% a persone con meno di 40 anni e appena lo 0,086% a giovani con meno di 30 anni;
- dall’analisi delle cartelle cliniche emerge che la quasi totalità (il 97,1%) dei deceduti con positività al Sars-Cov-2 soffriva già di altre patologie gravi, nella maggior parte dei casi plurime (con un numero medio di patologie osservate per paziente pari a 3,7).
Considerati questi dati epidemiologici essenziali, l’obbligo vaccinale per gli over 50, o per particolari categorie di lavoratori, appare una misura di cui si fatica a comprendere la reale necessità. Riteniamo ovviamente necessario mantenere alta l’attenzione nei confronti del Covid-19, ma allo stesso tempo non possiamo ignorare che il vaccino non sembra costituire lo strumento risolutivo dell’emergenza, in considerazione soprattutto delle sue limitate capacità di immunizzazione, come anche le stesse case farmaceutiche e le agenzie regolatorie hanno ripetutamente messo in evidenza e come dimostrano i dati epidemiologici di paesi ad alto tasso di vaccinazione (primo fra tutti Israele, ma anche e soprattutto l’Italia). L’evidenza scientifica attesta inoltre che la carica virale presente nelle vie aeree superiori, e quindi la capacità di contagio, è simile nei soggetti vaccinati e non (Bergwerk et al. 2021, Hagan et al. 2021, Knol et al. 2022, Levine-Tiefenbrun et al. 2021, Singanyagam et al. 2021, Tayag, 2021, Wilder-Smith 2021).
I recenti Decreti Legge adottati dal Governo sembrano tuttavia ignorare questi aspetti, introducendo in modo diretto o indiretto l’obbligo di vaccinazione per interi settori della popolazione, incluse le fasce di età più giovani, a bassissimo rischio di sviluppare la malattia Covid-19 in forma severa, come attestano i dati dell’Istituto Superiore di Sanità precedentemente citati e i dati provenienti dagli istituti di statistica di altri paesi, come l’Istituto Nazionale di Statistica britannico (ONS). Nei Decreti, invece, non vi è alcuna traccia di strategie di più ampio respiro, che potrebbero includere l’attuazione di screening ripetuti con test autosomministrati (come avviene ad esempio nel Regno Unito e in Germania), la calendarizzazione di controlli sull’aerazione dei locali, l’attivazione diffusa dello smart working e della didattica a distanza, ove opportuno e possibile.
A due anni dalla pandemia è inoltre inspiegabile l’assenza di una sistematica implementazione di protocolli terapeutici adeguati. Visti i forti dubbi sollevati riguardo all’impiego di paracetamolo nel trattare una patologia pro-infiammatoria come la COVID-19 (Sestili e Fimognari 2020, Pandolfi et al. 2021), si è da tempo in attesa di un cambio di prospettiva e di un atteggiamento di maggiore attenzione verso quei professionisti della salute che hanno sperimentato sul campo l’efficacia di vari protocolli terapeutici, suggeriti da semplici considerazioni cliniche (trattandosi per lo più di comuni antivirali, antibiotici, anti-infiammatori e immunostimolanti/modulanti), efficacia verificata empiricamente da studi internazionali (v. anche: Alexander et al. 2021, Cassone et al. 2020, Di Castelnuovo et al. 2020, Gupta et al. 2021, EU 2021, Procter et al, 2021, Suter et al. 2021). Prima tra tutti va annoverata la terapia con plasma iperimmune, messa a punto grazie alla felice intuizione del prof. Giuseppe De Donno, o con anticorpi monoclonali (basati sullo stesso principio clinico della terapia al plasma). Ci sono poi i corticosteroidi, e farmaci di nuovissima generazione o di consolidata esperienza, come l’idrossiclorochina e l’ivermectina, entrambe ingiustamente sottovalutate sulla base di studi poi rivelatisi inattendibili (alcuni addirittura ritirati dalle riviste scientifiche che li avevano dapprima pubblicati: The Lancet e New England Journal of Medicine: Mehra et al. 2020 a, b). Tali presidi medici nel nostro paese sono stati non solo ignorati, ma anche ostracizzati, quando non addirittura ridicolizzati a livello mediatico, giungendo ad ostacolarne non solo l’utilizzo, ma anche l’investigazione. Anche l’accentramento dell’approvazione degli studi clinici sul Covid-19 presso il Comitato Etico dell’INMI Spallanzani potrebbe avere contribuito ad ostacolare la nascita di studi clinici spontanei su questi e altri farmaci.
Va altresì considerato che i vaccini attualmente somministrati sono farmaci la cui autorizzazione all’immissione in commercio è avvenuta solo in via “condizionata” e temporanea, sulla base del Regolamento della Commissione Europea n. 507/2006 del 29 marzo 2006, che si applica espressamente ai «medicinali» per i quali «non siano stati forniti dati clinici completi in merito alla sicurezza e all’efficacia» (art. 2 e art. 4, n. 1, del regolamento), e che le evidenze scientifiche circa l’efficacia e la sicurezza della somministrazione di dosi booster a distanza ravvicinata sono scarse, ma già preoccupanti. A fronte di una protezione dalla forma grave della patologia causata dal SARS-COV-2 (della durata di 5-6 mesi), i sistemi di farmacosorveglianza passiva come VAERS e EUDRAVIGILANCE, notoriamente affetti da forte sottostima dei casi, hanno registrato una considerevole incidenza di eventi avversi associati alla vaccinazione anti-COVID-19 (Mevorach et al. 2021, Hernandezet et al. 2021, Shiravi et al. 2021, v. anche Lazebnik, 2021, Gundry 2021). Oltre a ciò, sono tuttora inevase le domande relative alla genotossicità e cancerogenicità di tali sostanze (Doerfler 2021, Cimolai 2020) e, non ultimo, i dati grezzi delle sperimentazioni effettuate dalle aziende farmaceutiche, su cui si basa l’approvazione condizionata, non sono stati messi a disposizione della comunità scientifica, impedendo di fatto qualsiasi revisione indipendente dei risultati (Doshi, 2022 https://doi.org/10.1136/bmj.o102).
È evidente l’uso di doppi standard nel valutare il profilo di rischio-beneficio della profilassi vaccinale rispetto a quello delle terapie per la COVID-19, ma, poiché siamo tutti sufficientemente consapevoli delle dinamiche che soggiacciono al finanziamento della ricerca biomedica, non riteniamo necessario dover spiegare al Ministro della Ricerca e ai suoi onorevoli Colleghi fenomeni ormai noti anche al pubblico profano, come quelli del lobbyismo scientifico e della cattura del regolatore (Abbasi 2020, Birn e Nervi 2020, Foucart et al. 2020). Preghiamo quindi gli onorevoli Ministri di prenderne atto e agire di conseguenza.
Un altro aspetto critico della campagna vaccinale è quello relativo alla comunicazione, che è stata estremamente variabile e incoerente: dalla promessa dell’immunità di gregge si è passati all’evidenza che il vaccino non protegge dal contagio; da un solo ciclo vaccinale si è passati alla necessità di una terza dose e forse una quarta, con tutti i pericoli che la somministrazione ripetuta del vaccino rappresenta per l’incolumità fisica dei soggetti trattati (v. Tsumiyama et al. 2009; UK Health Security Agency, 2022). Si vedano a questo proposito anche le recenti dichiarazioni di Marco Cavaleri, responsabile della divisione vaccini dell’EMA: “dovremmo essere molto attenti a non sovraccaricare il sistema immunitario con inoculazioni ripetute” (EMA press conference, 11 gennaio 2022: https://www.ema.europa.eu/en/events/ema-regular-press-briefing-covid-19-11) e di Guido Rasi, ex direttore esecutivo di EMA: “Non è scontato che una stimolazione continua e ripetuta dopo un po’ non crei problemi al sistema immunitario” (AdnKronos, 17 gennaio 2022: https://www.adnkronos.com/vaccino-covid-rasi-contro-quarta-dose-ora-non-ha-senso_4GjlrDfMxtBOEZc5QaSPV6). Anche Sergio Abrignani, membro del CTS e direttore scientifico dell’Istituto Nazionale di Genetica Molecolare, ha espresso preoccupazione per la somministrazione ripetuta di dosi di vaccino: “le immunizzazioni ripetute in tempi ravvicinati a volte producono lo spegnimento della risposta immunitaria” (https://www.sanitainformazione.it/salute/covid-quarta-dose-dubbi-e-timori-degli-scienziati-un-secondo-booster-inutile-e-rischioso/).
Preoccupante in tutta questa vicenda è stata l’opacità e la macchinosità, quando non l’impossibilità assoluta, di accesso ai dati disaggregati dell’Istituto Superiore di Sanità e di altri soggetti pubblici aventi competenza in tema di politiche sanitarie (e.g., AIFA), da parte del mondo dell’università e della ricerca. Infatti, i principali micro-dati sulla situazione pandemica (contagi, malati e decessi, integrati delle caratteristiche individuali rilevanti) non vengono rilasciati ai richiedenti; quelli aggregati pubblicati contengono incongruenze ed anomalie inquietanti, ed il loro esame viene precluso a scienziati terzi che potrebbero fornire un qualificato contributo – proprio perché afferente alle loro attività di ricerca istituzionali. Nel caso delle evidenze detenute dall’agenzia AIFA, si sono perfino verificati casi di diniego di accesso ai dati su richieste degli stessi rappresentanti parlamentari, che pure godrebbero di poteri ispettivi ben maggiori del mondo della ricerca scientifica. È noto come molte di queste opacità e resistenze dipendano dal fatto che, seppur formalmente anche l’Italia si sia dotata di una normativa per l’accesso civico ai dati, essa presenta numerose lacune di effettività e tempestività. In dettaglio, neanche l’emanazione del cosiddetto FOIA, Freedom of Information Act, introdotto con il Decreto Legislativo 25 maggio 2016, n. 97, è riuscito ad incrementare significativamente il grado di rilascio pubblico di dati, in quanto la sua concreta implementazione viene spesso vanificata dall’opposizione di soggetti interni alla Pubblica Amministrazione che frappongono interessi o limitazioni incongruenti con gli interessi sovraordinati di conoscenza pubblica. La richiesta di maggiore trasparenza si è levata più volte non solo da parte del mondo dell’informazione, ma anche da quello della ricerca (Capocci, 2022), ma continua a rimanere inevasa. In questo modo, non solo viene limitato il progresso della scienza e la possibilità di formulare politiche pubbliche rigorose perché basate su un controllo imparziale del loro fondamento (“evidence-based policy-making”), ma viene anche significativamente ridotto il grado di trasparenza del dibattito e delle scelte pubbliche, ed in definitiva viene ridotto il tenore democratico della società e delle istituzioni.
Tutti questi aspetti, uniti alla mancanza di una pianificazione di medio-lungo termine e di una definizione dei parametri che permetteranno di ritenere conclusa l’emergenza Covid-19, rendono preoccupante anche la strategia di estensione dell’obbligo del Super Green Pass, che già si prefigura quale strumento di controllo della vita sociale destinato a sopravvivere alla stessa campagna vaccinale.
Con specifico riferimento alla vita della comunità universitaria, dobbiamo inoltre rilevare che l’applicazione del Decreto Legge è destinata inevitabilmente ad alimentare conflitti e discriminazioni. La nuova normativa, infatti, impedirà di lavorare e di percepire lo stipendio a chi sceglierà di non vaccinarsi o di non completare il ciclo vaccinale, introducendo di fatto una sanzione che non trova precedenti nel nostro ordinamento. Questa sanzione produrrà gravi ripercussioni sociali e psicologiche, che incideranno sulla vita individuale e familiare dei lavoratori sospesi, incluse persone al termine della loro carriera lavorativa, oltre ad avere ricadute sulla formazione degli studenti, sulla ricerca e sull’attività culturale e amministrativa dei nostri atenei. Singolare dal punto di vista giuslavorista appare poi la possibilità che i lavoratori strutturati sospesi possano essere sostituiti da lavoratori precari, ai quali sarà richiesto, se di età non superiore ai 50 anni, il Green Pass semplice, acquisibile, come era finora anche per il personale strutturato, mediante il semplice tampone. Se, infine, i lavoratori sospesi sono i principal investigators di progetti di ricerca italiani ed europei, al danno individuale si aggiungerebbe il danno istituzionale legato all’interruzione di attività di ricerca, con impatto anche sulle relazioni con istituzioni di ricerca straniere, con grave danno all’internazionalizzazione del nostro sistema universitario, già piuttosto carente su questo punto.
Per tutti questi motivi, a nostro parere le misure previste dal Decreto Legge n. 1/2022 non sono né coerenti né commisurate allo scenario attuale: in particolare, intendiamo ribadire con forza che l’imposizione di un vaccino sprovvisto delle adeguate garanzie di sicurezza ed efficacia è una misura non solo sproporzionata rispetto ai benefici che si pretende di ottenere, ma anche lesiva di diritti e libertà fondamentali costituzionalmente garantiti.
A questo proposito, evidenziamo di seguito le principali criticità etiche e giuridiche del Decreto Legge n. 1/2022, che a nostro avviso pongono tale Decreto in palese contrasto con il diritto internazionale, europeo e costituzionale:
- In base all’art. 32 della Costituzione gli obblighi in tema di salute possono essere imposti esclusivamente mediante leggi approvate dal Parlamento in via definitiva («Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge»), laddove per «legge» non può che intendersi un provvedimento legislativo adottato dal Parlamento al termine di un dibattito democratico aperto e trasparente che, per quanto riguarda l’obbligo vaccinale e la disciplina del Green Pass, in Italia a tutt’oggi è evidentemente mancato.
- Anche laddove una legge siffatta dovesse essere adottata dal Parlamento, essa non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana, come stabilisce lo stesso art. 32 della Costituzione («La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana»). L’applicazione del Decreto, invece, configura a nostro avviso una violazione dei limiti in questione laddove subordina a un trattamento sanitario il godimento dei diritti fondamentali al lavoro, alla sussistenza e alla socialità.
- In materia di tutela della salute, inoltre, l’art. 32 della Costituzione antepone esplicitamente il diritto individuale all’interesse collettivo («La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività»). L’impostazione sistematica della Carta costituzionale, confermata da costante giurisprudenza della Consulta, fa sì che la salute del singolo non possa mai essere sacrificata o messa a rischio nell’ottica di salvaguardare la salute collettiva. Considerato che l’assunzione dei suddetti farmaci è da ritenersi un atto irreversibile, che esistono numerose segnalazioni di effetti avversi post-vaccinazione anche gravi (v. i numerosi report in Eudravigilance, VAERS e nei vari sistemi di sorveglianza spontanea) e che la sperimentazione in materia si concluderà solo a fine 2023, non ci sono elementi per ritenere che il diritto individuale alla salute sia tutelato. Al contempo, non garantendo il vaccino l’immunità sterilizzante, è ragionevole dubitare anche della capacità del vaccino di tutelare la salute collettiva. Su questi temi, diversi gruppi di accademici italiani, tra cui numerosi firmatari del presente APPELLO, hanno collaborato alla stesura di vari documenti scientifici reperibili qui:
https://informazionecovid.wixsite.com/home ;
www.tinyurl.com/ricercacritica.
- I contenuti del Decreto si pongono in contrasto anche con gli orientamenti espressi dalle due principali organizzazioni internazionali operanti sul piano regionale europeo, il Consiglio d’Europa e l’Unione Europea, che hanno ritenuto necessario ribadire la libertà di scelta vaccinale allo scopo di scongiurare l’introduzione di illecite discriminazioni tra persone vaccinate e non vaccinate. Per prima è intervenuta l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, mediante la risoluzione n. 2361/2021 del 27 gennaio 2021, secondo cui nessuno deve subire «pressioni politiche, sociali o di altro tipo affinché si vaccini, se non desidera farlo personalmente». In seguito, è intervenuta anche l’Unione Europea, mediante il Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio n. 953/2021 del 14 giugno 2021, il cui considerando 36 afferma chiaramente che «è necessario evitare la discriminazione diretta o indiretta di persone che non sono vaccinate», anche nel caso specifico di coloro che «hanno scelto di non essere vaccinate».
- Le azioni che il Governo italiano pone in essere, adottando provvedimenti che di fatto spingono direttamente o surrettiziamente larghe porzioni di cittadini all’assunzione di farmaci ancora sotto sperimentazione, quali sono da considerare de facto i vaccini anti Covid-19, si pongono in contrasto con alcuni principi generali di diritto internazionale ed europeo, nonché con i principi fondamentali della bioetica (CIEB, Parere sull’obbligatorietà del vaccino anti-Covid, 20 dicembre 2021. https://www.ecsel.org/wp-content/uploads/2022/02/I-Parere-CIEB-italiano.pdf), quali: il principio dell’habeas corpus e l’inviolabilità della persona umana, il principio di precauzione, come formulato dalla Dichiarazione di Rio de Janeiro del 1992 e recepito dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea; il principio del consenso informato, sancito da strumenti sia di natura deontologica (il Codice di Norimberga del 1947 e la Dichiarazione di Helsinki del 1964) che giuridica (il Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, ratificato dall’Italia nel 1978); i principi di beneficenza, di non maleficenza e di equo accesso alle cure sanitarie, cui si ispira anche la Convenzione europea per la protezione dei diritti dell’Uomo e della dignità dell’essere umano nei confronti delle applicazioni della biologia e della medicina (Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e la biomedicina), firmata nel 1997 e ratificata nel 2001 anche dall’Italia, anche se non ancora in vigore nel nostro ordinamento.
- Riteniamo che la sospensione dal lavoro e la perdita del sostentamento economico, come conseguenza dell’inadempimento all’obbligo vaccinale, rappresenti un’imposizione sproporzionata e ingiustificata dal punto di vista sanitario che, se non cancellata, condurrebbe i soggetti penalizzati ad agire davanti alla Corte Penale Internazionale in quanto atto persecutorio nei confronti di un gruppo sociale, in questo caso identificabile dal suo status vaccinale (art. 7 dello Statuto di Roma).
- Riteniamo particolarmente grave, infine, obbligare gli studenti ad esibire il Green Pass per poter partecipare in presenza alla vita universitaria. Ai fini della salvaguardia della salute di tutti, la distribuzione gratuita di test rapidi antigenici, anche salivari, che sono in grado di rilevare con elevata sensibilità non tanto la positività quanto la contagiosità degli individui, pare assai più efficace come misura di tutela della salute delle comunità universitarie.
Nel clima di dialogo e confronto su cui si basa la vita della comunità accademica, siamo fiduciosi che si possa avviare nell’immediato una riflessione congiunta su questi temi così cruciali per l’Università nel suo complesso.
In questa prospettiva, auspichiamo che Lei, signor Presidente del Consiglio dei Ministri, voglia prendere urgentemente in considerazione la necessità di ritirare il suddetto Decreto e di abolire ogni forma di restrizione di libertà fondamentali o imposizione vaccinale, allo scopo di restituire agli atenei l’universalità e la pluralità di pensiero, che è alla base dello stesso concetto di universitas,e di salvaguardare i principi e i valori su cui si fonda la nostra società, in nome di quanti hanno contribuito alla loro affermazione e di quanti hanno il diritto inalienabile a costruirvi la propria felicità.
Riferimenti
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febbraio 5, 2022
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