A fine marzo, dal suo Osservatorio, l’INPS ha diramato le tabelle sui dati di spesa del primo bimestre dell’anno corrente, relativi all’erogazione della misura di contrasto alla povertà. Le domande nei primi due mesi dell’anno corrente si sono attestate a poco più di 90 mila; ma quel che salta macroscopicamente all’occhio è la notevole riduzione del numero di richieste presentate nel mese di febbraio – istanze per un totale di 2.103 – contro l’ammontare di gennaio che superava gli 88 mila. Sostanzialmente, l’Osservatorio dell’Istituto della Previdenza Sociale ha certificato un abbassamento della spesa destinata alle misure di sostegno al reddito. Infatti la riduzione delle provviste finanziarie, nell’arco di tempo da un mese all’altro, è passata da poco più di 657 mln del mese di gennaio a 576 mln di febbraio.
In altri termini questo andamento, in proiezione, tendenzialmente inciderà in modo sostenuto sulla riduzione della spesa sociale, basti osservare il crollo delle domande – per Reddito di cittadinanza e Pensioni di cittadinanza – registratesi nello stesso periodo dell’anno decorso. Infatti, rispetto al primo bimestre dello scorso anno, considerando l’ammontare complessivo di ben oltre 260 mila istanze per RdC e PdC, oggi si certifica un calo netto pari al 65%. Se si considerano, inoltre, l’inasprimento delle vecchie condizionalità e l’introduzione delle nuove (varate dal governo di ultradestra in carica e che entreranno a regime dopo l’estate) è facile prevedere che i risparmi delle poste in bilancio ridurranno al lumicino le risorse destinate al contrasto della povertà e dell’esclusione sociale.
A fronte del quadro contabile, quel che stupisce sono certe “valutazioni di merito” che vorrebbero spiegare le cause rappresentative degli effetti “virtuosi” acquisiti dalla manovra economica che ha colpito prevalentemente la misura previgente del sostegno al reddito. Ovviamente si parte dal pregiudizio ideologico che il reddito di cittadinanza sia stato un vero flop sociale ed economico, sottintendendo che – nella gran parte degli osservatori mainstream variamente schierati – sia stato utile soltanto ad avvantaggiare elettoralmente il mentore politico che del RdC ha fatto la bandiera programmatica.
Assistiamo quindi ad una campagna mediatica che continua ad alimentarsi con fantasticherie varie, ad iniziare dalla lettura dei dati. Per esempio, rispetto al crollo delle istanze per Reddito e Pensioni di Cittadinanza, messo a fuoco dall’osservatorio INPS, oltre ad evidenziare un dato oggettivo – la mancata presentazione quota-DSU (dichiarazione sostitutiva unica) – qualcuno pensa che la riduzione sia un effetto della “ripresa economica”, la quale avrebbe consentito – “probabilmente” – di trovare lavoro ad una parte di percettori di reddito. Quel “probabilmente” (che troviamo fra le righe di un articolo non firmato di uno storico quotidiano siciliano) è messo opportunamente lì, perché l’indicatore non è supportato da alcuna indagine scientifica; non se ne afferma quindi la certezza, ma si tende a non escluderne la veridicità, giacché astrattamente ciò sarebbe possibile e, soprattutto, se così fosse, sarebbe politicamente del tutto utile a quanti vorrebbero dimostrare la meritoria azione dell’esecutivo in carica, che avrebbe avuto il coraggio liberista di smontare dalle fondamenta la somministrazione del “metadone di stato”.
Con lo smantellamento progressivo della misura di sostegno, posta in essere al fine di contrastare l’inarrestabile crescente impoverimento sociale (così come viene attestato – e lo vedremo più avanti – dalle istituzioni-UE e da altri autorevoli centri di ricerca), la propaganda mediatica di legittimazione della compagine governativa si gioca la partita tutta sulla narrazione di virtù taumaturgiche decantate dalle politiche liberistiche sul mercato del lavoro, una trama narrativa a detta della quale si attesterebbe anche il calo di richieste del reddito di cittadinanza di questo inizio anno, lasciando intendere di presunti inneschi che hanno sortito effetti positivi che, sul breve periodo, dinamizzerebbero l’incontro dell’offerta e della domanda di lavoro. A noi appaiono del tutto evidenti le fantasticherie interessate, dispensate dall’ultradestra fascistoide e da quanti altri avversano il reddito di cittadinanza: non esiste alcun indicatore scientifico che certifichi – da un lato – una riduzione della povertà assoluta e – dall’altro – un rilancio dell’occupazione. Dovrebbe essere in primo luogo lo stesso Istituto della Previdenza Sociale a doverci certificare un simile stato di salute sociale ed economico, in atto tutt’altro che visibile all’orizzonte. Semmai quel che appare è – piuttosto – un fosco e fitto banco di gonfie nuvole scure che non promettono nulla di buono.
Certo, è sicuramente vero che le domande sono in netto calo e che, altrettanto verosimilmente, non siano state presentate le richieste per non incappare nelle responsabilità penali che incombono in capo ai percettori mendaci, date le pesanti condizionalità gravanti sulla misura, tanto da dimezzarne molto presto l’accesso al beneficio. Insomma quel che rimarrà del reddito di cittadinanza (o pensioni di cittadinanza) nel prossimo autunno sarà ben poca cosa. Al suo posto si materializzerà un vero simulacro: il RdC sarà sostituito dalla cosiddetta “MIA” -Misura Inclusiva Attiva-, alla quale potranno accedere solo due tipologie di nuclei familiari in difficoltà economica, distinguendo tra “famiglie senza soggetti occupabili” (con minori, over 60 o disabili) e “famiglie con soggetti occupabili”: per la prima tipologia l’assegno mensile si aggirerebbe attorno ai 500 euro; per la seconda il sostegno sarà di 375 euro mensili. Va ricordato che fra i requisiti previsti, in particolare, quello della certificazione massima del reddito (ISEE), rispetto al tetto previsto dal previgente RdC (9.360 euro), è stato ridotto a 7.200 euro. Insomma, una vera e propria misura falcidiante quella del MIA che risponde più a caduche logiche pietistico-residuali, piuttosto che ad un pieno riconoscimento di esigibili diritti soggettivi.
Detto diversamente, potrebbe esser pur vero che molti siano stati costretti, e ancor più lo saranno in futuro, ad accettare condizioni di prestazione lavorative sottoccupate con retribuzioni di fame. Insomma quel che si profila all’orizzonte è la piena ripresa del lavoro-nero semischiavistico, effetto fondamentale consapevolmente voluto da questa destra sempre più fascista che ama favorire, come nel passato, il sistema gerarchico delle corporazioni (a cominciare dall’imprenditoria), nel quale non sono contemplati gli interessi della massa di subalterni che sono la fetta più consistente della popolazione. Non a caso v’è una totale posizione di traverso all’introduzione di un salario minimo, che guarda esclusivamente ad una completa deregulation del mercato del lavoro, confidando in un sistema corporativo di relazioni sindacali, imperniato sull’interesse nazionale ed espungendo dai contratti ogni resistenza conflittuale.
Insomma, questa storiella che a febbraio il reddito di cittadinanza avrebbe toccato il livello minimo di un milione di famiglie, lo stesso numero riscontrato nell’ottobre 2020 (in epoca pre-pandemica e pre-bellica), a causa degli effetti virtuosi della ripresa economica (non percepita concretamente dalla stragrande maggioranza della popolazione, che anzi lamenta il suo depauperamento), contrasta con altre fonti elaborate da istituzioni ed autorevoli centri di ricerca: citiamo per tutti il dato della Fondazione Cariplo, contenuto nel primo rapporto sulle disuguaglianze. Dal rapporto si rileva che nell’anno della crisi epidemiologica due milioni di famiglie si trovavano in condizione di povertà assoluta, in aggiunta al dato secondo il quale – rispetto al 2005 – il numero di famiglie in tale situazione era più che raddoppiato. Non crediamo siano scomparse di punto in bianco più di un milione di famiglie che versavano in stato di povertà assoluta né che si possa fantasticare di un’improvvisa svolta della loro condizione. Anzi quel che si paventa nel prossimo periodo è un aggravarsi della situazione generale: la crescita dell’inflazione rischia di far scivolare nell’indigenza nuove fasce di popolazione con l’aggravarsi anche dell’emergenza abitativa, considerata l’insostenibilità dei pagamenti delle rate di mutuo provocata dall’aumento dei tassi deciso dai falchi della BCE.
D’altra parte, se fosse vera questa dinamica, secondo cui l’unica via di contrasto alla povertà ed all’esclusione sociale sarebbe quella del libero mercato, non si spiegherebbe perché lo scorso 15 marzo il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione che vincola gli Stati membri a rafforzare il reddito minimo europeo. Un diritto al reddito il cui varo si rende necessario alla luce del dato emerso in piena pandemia, nel corso della quale oltre 95 milioni di cittadini europei sono stati investiti dal rischio di povertà assoluta. Ora, anche dopo le sollecitazioni della Commissione UE, sembra probabile il varo del Parlamento di Strasburgo di una direttiva istitutiva di un reddito minimo garantito: «Non un assegno standard ovunque – come rileva Giuseppe De Marzo dal testo parlamentare –, ma una somma che corrisponda al 60 per cento del reddito disponibile mediano nazionale equivalente dopo i trasferimenti sociali» (L’Espresso, 26\3\23 n.12).
Di contro la Meloni con l’introduzione della MIA riduce ai minimi termini la spesa (una mancetta se non una vera e propria elemosina), ben al di sotto di quanto prevedrebbe l’istituzione definitava di un reddito minimo pari ad «un livello adeguato di sostegno che tenga conto della soglia nazionale di rischio povertà per cercare di creare un sistema che garantisca un tenore di vita dignitoso». Nel nostro caso l’importo mediano ammonterebbe a ben oltre i 10 mila euro annui.
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