Giulio Chinappi – 15/11/2023
Il 15 novembre segna il trentacinquesimo anniversario della dichiarazione d’indipendenza della Palestina, un momento che continua a simboleggiare la strenua lotta del popolo palestinese per l’autodeterminazione e la creazione di uno Stato sovrano. In quel giorno del 1988, infatti, Yāsser ʿArafāt, presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), proclamò da Algeri l’indipendenza dello Stato di Palestina. Questa ricorrenza offre l’opportunità di riflettere sul percorso della Palestina verso il riconoscimento internazionale e di esaminare gli atti di oppressione perpetrati contro di essa da parte di Israele, proprio nel corso della nuova crisi che fino ad ora ha portato oltre 11.000 morti tra la popolazione civile gazawi e centinaia di vittime anche in Cisgiordania.
Come abbiamo sottolineato in un recente articolo, negli ultimi decenni, la comunità internazionale ha compiuto passi significativi per riconoscere lo Stato di Palestina. Nel 1988, il Consiglio Nazionale Palestinese proclamò l’indipendenza, e da allora la Palestina ha ottenuto il riconoscimento bilaterale di 138 Stati membri delle Nazioni Unite. Nel 2012, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha accordato alla Palestina lo status di “Stato osservatore non membro”, un passo importante verso il riconoscimento formale.
Tuttavia, nonostante questi progressi, la Palestina continua ad affrontare sfide significative nella sua ricerca del riconoscimento internazionale completo, soprattutto per via della posizione degli Stati Uniti e dei loro alleati occidentali, oltre che della stessa entità sionista. Limitato dal diritto di veto esercitato dagli Stati Uniti, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non è ancora riuscito a prendere una posizione unificata sulla questione palestinese, dovendo fare i conti con pressioni politiche e interessi divergenti.
Uno dei nodi centrali della controversia tra Israele e Palestina riguarda i territori occupati. Dal 1967, Israele ha ampliato i suoi insediamenti nei territori palestinesi, violando il diritto internazionale che proibisce l’acquisizione di territorio per mezzo della forza. La costruzione di insediamenti illegali ha compromesso a lungo la possibilità di una soluzione a due Stati, un obiettivo sostenuto dalla comunità internazionale e dal buon senso, corroborata anche dagli Accordi di Oslo del 1993, successivamente violati in modo continuativo dal governo israeliano.
Inoltre, la costruzione del muro di separazione in Cisgiordania ha comportato l’espropriazione di terre palestinesi, dividendo comunità e famiglie, e limitando la libertà di movimento dei palestinesi. Questa barriera fisica, dichiarata illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia nel 2004, rappresenta un simbolo tangibile della segregazione inflitta al popolo palestinese, al punto che numerose organizzazioni per i diritti umani non hanno esitato a definire Israele come un regime di apartheid.
Ancor peggiore rispetto a quella della Cisgiordania, è la situazione della Striscia di Gaza, una delle aree più densamente abitate e impoverite del mondo, che ha subito decenni di restrizioni draconiane. Il blocco israeliano, che limita l’accesso agli approvvigionamenti umanitari essenziali, ulteriormente acuito proprio nell’ultimo mese, ha generato una crisi umanitaria senza precedenti. La comunità internazionale ha spesso condannato queste misure come violazioni dei diritti umani fondamentali, ma Israele ha mantenuto il sostegno incondizionato degli Stati Uniti e del blocco occidentale, facendo prevalere la legge del più forte sul diritto internazionale. La mancanza di prospettive economiche e la difficile situazione umanitaria mettono a dura prova la resilienza del popolo gazawi, offrendo terreno fertile alle frange estremiste che vedono il terrorismo come unica soluzione a tale situazione.
Negli ultimi anni, la Palestina ha cercato giustizia attraverso organizzazioni internazionali e tribunali penali. Nel 2015, la Palestina è diventata membro della Corte Penale Internazionale (CPI), offrendo una possibilità di perseguire coloro che sono responsabili di crimini di guerra e violazioni dei diritti umani. Nel 2021, la CPI ha avviato un’indagine sulle azioni compiute in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, un passo significativo verso l’attribuzione delle responsabilità al governo sionista israeliano.
Tuttavia, Israele ha respinto questa indagine, rifiutando la giurisdizione della CPI e definendola politicamente motivata. L’atteggiamento di Israele solleva domande fondamentali sulla responsabilità internazionale e sulla necessità di rendere conto delle azioni compiute nei territori palestinesi occupati. Come abbiamo ribadito in numerose occasioni, l’impunità per Israele dipende principalmente dal sostegno incondizionato che continua a ricevere dagli Stati Uniti e dal blocco occidentale, mettendo a repentaglio il significato stesso di un diritto internazionale condiviso da tutti i Paesi del mondo.
A fronte dei soprusi operati dai sionisti israeliani, la comunità internazionale ha il dovere morale e legale di impegnarsi nella risoluzione del conflitto israelo-palestinese, promuovendo una soluzione equa, duratura e basata sul rispetto dei diritti umani. La retorica unilaterale e le azioni punitive devono essere sostituite da un dialogo costruttivo che tenga conto delle aspirazioni legittime di entrambi i popoli. Il principio di autodeterminazione dovrebbe essere il cardine di qualsiasi soluzione, consentendo al popolo palestinese di esercitare il proprio diritto di determinare il proprio destino. La costruzione di uno Stato palestinese realmente indipendente e limitato dai confini riconosciuti internazionalmente, con Gerusalemme Est come sua capitale, dovrebbe essere al centro di ogni negoziato.
Mentre celebriamo il trentacinquesimo anniversario della dichiarazione d’indipendenza della Palestina, riflettiamo sulla resistenza instancabile del popolo palestinese contro l’occupazione e gli atti di oppressione. La comunità internazionale deve rinnovare il proprio impegno per una soluzione giusta e sostenibile, che ponga fine a decenni di sofferenza e permetta a entrambi i popoli di coesistere in pace e sicurezza, come sottolineato dall’intervento del rappresentante permanente cinese presso le Nazioni Unite. Solo attraverso la giustizia, la comprensione reciproca e il rispetto dei diritti umani fondamentali possiamo sperare di costruire un futuro migliore per la Palestina e per l’intera regione.
CLICCA QUI PER LA PAGINA FACEBOOK
Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte e del link originale.