La moderna teoria dell’imperialismo e la scissione del movimento comunista

Da L’AntiDiplomatico – 11/12/2023

La moderna teoria dell’imperialismo e la scissione del movimento comunista – AGINFORM – L’Antidiplomatico (lantidiplomatico.it)

 

di Jana Zavatskaya* (18 febbraio 2023)

Nota del traduttore

Facendo seguito al contributo di Giuseppe Amata sulla situazione internazionale e l’internazionalismo – inviato ai compagni il 30 novembre in previsione del prossimo confronto collettivo e pubblicato anche su Marx21 – mettiamo in circolazione per il Forum dei comunisti questo piccolo saggio di Jana Zavatskaya (o Zawadzki, come viene chiamata in Germania) sulla teoria dell’imperialismo.

Lo scritto merita attenzione per la critica approfondita delle posizioni di quelli, anche tra i pretesi comunisti, che a proposito dell’Ucraina e in genere della situazione internazionale, ancora parlano di ‘scontro tra diversi imperialismi’. L’autrice sottolinea però anche il disastro prodotto dalla restaurazione del capitalismo in Russia e la conseguente necessità di cambiamenti radicali nella società russa per mettersi definitivamente alle spalle la controrivoluzione di Eltsin e Gorbaciov  e ritornare a uno sviluppo di tipo socialista. L’Operazione militare speciale in Ucraina e la contrapposizione all’imperialismo collettivo a guida USA sta favorendo e rendendo ineludibile la resa dei conti con i ceti che hanno guadagnato dalla controrivoluzione, ma l’esito dello scontro è ancora lungi dal potersi dare per scontato.

Jana Zavatskaya, autrice di diverse opere di fantascienza, è nata a Leningrado nel 1970. Nel 1993 si è trasferita con la famiglia in Germania e milita nel Partito Comunista Tedesco (KPD, fondato nel 1990 nella RDT).

Per il forum dei comunisti,

Paolo Pioppi

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La linea di divisione

Il 24 febbraio 2022, il movimento comunista in Germania, Europa e Russia è stato improvvisamente colto da paralisi.

In realtà, non c’era nulla di inaspettato: molti dei problemi che avrebbero dovuto essere risolti da anni si sono trasformati dialetticamente e qualitativamente. L’operazione militare lanciata dalla Russia in Ucraina ha portato tutti noi a chiederci: da che parte stiamo? Come valutiamo questa situazione? Cosa dovremmo dire ai lavoratori?

Tutte queste domande avrebbero già dovuto trovare risposta. Il mondo è in fiamme da molto tempo; la guerra è ovunque, non c’è niente di nuovo. Non si tratta di valutare un paese in particolare, in questo caso la sola Russia. Certamente no. Negli ultimi anni la stessa teoria generale dell’imperialismo ha subito una battuta d’arresto. Una concezione chiara e univoca dell’imperialismo è praticamente scomparsa.

Questo però non vale per tutti i comunisti. Il Partito Comunista di Grecia (KKE), ad esempio, non ha problemi perché ha sviluppato da tempo una nuova teoria dell’imperialismo che sembra uno strumento affidabile per valutare correttamente qualsiasi evento mondiale. Grazie al grande prestigio del KKE a livello internazionale, molti partiti e singoli comunisti si sono radunati sotto l’influenza di questa teoria, che appare addirittura come l’unica possibile “continuazione della teoria dell’imperialismo di Lenin a un nuovo livello”.

In breve, secondo la teoria della piramide imperialista, l’imperialismo è lo stadio del capitalismo che ogni paese raggiunge individualmente, quando al suo interno sono emersi i monopoli ed è comparsa l’esportazione di capitali. In termini concreti, ciò significa che tutti o quasi tutti i paesi capitalisti moderni sono allo stesso tempo imperialisti. Poiché le potenzialità economiche dei diversi Paesi non sono uguali, si forma una “piramide” generale: gli Stati che si trovano in cima alla piramide dominano gli altri. Alla base della piramide ci sono i paesi più poveri (ma anch’essi imperialisti).

Vasilis Opsimos (Βασ?λης ?ψιμος, membro del Comitato Ideologico del Comitato Centrale del KKE), nel suo articolo “La teoria dell’imperialismo di Lenin e le sue distorsioni”[2], critica severamente molti degli “opportunisti” che mettono in discussione questa teoria.

Faremo riferimento in seguito all’articolo del compagno Opsimos. Ma vediamo intanto chi sono gli ‘opportunisti’ che osano dividere i paesi in imperialisti e non imperialisti!

“Tutto questo marciume – scrive il compagno Opsimos[3] – è caratterizzato da continue scuse ed evasioni, tipici segni dell’opportunismo, che Lenin criticò a suo tempo. Non solo si rifiutano di imparare le lezioni della storia, ma si allontanano dalle basi della dialettica rivoluzionaria e dell’analisi concreta delle circostanze concrete, per tornare alle forme pietrificate della moderna strategia riformista dei menscevichi.” Se citiamo queste parole è per un solo scopo, per sottolineare il tono con cui il KKE conduce la discussione e come valuta i comunisti che osano mettere in discussione la teoria del KKE.

Il compagno Opsimos parla delle “chiacchiere opportuniste che presumibilmente riconoscono l’imperialismo come un nuovo stadio del capitalismo, ma fanno una distinzione tra “paesi imperialisti” e “paesi non imperialisti” nel “sistema” dell’imperialismo (sottolineatura mia – J.Z). Inoltre, critica severamente le conseguenze pratiche: la possibilità di liberazione nazionale e la cooperazione con una borghesia di orientamento nazionale nei paesi oppressi.

Vediamo dunque chi sono gli opportunisti che osano dividere i paesi in imperialisti e non imperialisti! Cronologicamente, il primo di questi opportunisti è… Lenin. Lo stesso compagno Opsimos sottolinea che nella sua famosa opera sull’imperialismo, Lenin parla delle colonie e di vari tipi di dipendenza (usando gli esempi dell’Argentina e del Portogallo). Ma questo, afferma, non corrisponde più alla situazione attuale! Noi però possiamo prendere in considerazione altre opere del nostro maestro. Ad esempio, in un discorso al Secondo Congresso del Comintern, Lenin precisa:

“Innanzitutto, qual è l’idea più importante, l’idea di base delle nostre tesi? La distinzione tra nazioni oppresse e nazioni che opprimono. Noi insistiamo su questa distinzione – in opposizione alla Seconda Internazionale e alla democrazia borghese. Per il proletariato e l’Internazionale Comunista è particolarmente importante, nell’epoca dell’imperialismo, affermare fatti economici concreti e basare tutte le questioni coloniali e nazionali non su punti astratti, ma sui fenomeni della realtà concreta.

È una caratteristica dell’imperialismo mostrare il mondo, come lo vediamo oggi, diviso in un gran numero di nazioni oppresse e in un numero molto ridotto di nazioni che opprimono, che possiedono ricchezze colossali e una grande potenza militare”[4] (sottolineatura mia – J.Z.).

Non si potrebbe esprimere più chiaramente il fatto che la posizione dei bolscevichi sulla questione sta proprio nella distinzione tra una minoranza di Stati imperialisti e una maggioranza di nazioni oppresse (che comprende non solo le colonie ma anche gli Stati dipendenti).

Nello stesso discorso, Lenin parla anche di alleanze con la borghesia:

“…come comunisti dobbiamo e vogliamo sostenere i movimenti di liberazione della borghesia nei paesi coloniali, ma solo quando questi movimenti sono veramente rivoluzionari; quando i loro rappresentanti non ci impediscono di educare e organizzare i contadini e le grandi masse degli sfruttati in uno spirito rivoluzionario. Se queste condizioni non sono soddisfatte, i comunisti di questi paesi devono lottare contro la borghesia riformista” (ibid.).

In altre parole, secondo Lenin, le alleanze con la borghesia non sono affatto escluse, sebbene implichino sempre una valutazione concreta del fatto che tale alleanza sia vantaggiosa o dannosa per la classe operaia.

In seguito, la posizione dei comunisti non è cambiata. Nel XX secolo, questa posizione non è stata, in linea di principio, soggetta ad alcuna revisione – tranne che da parte della scienza borghese, ovviamente, che non era disposta ad accettare un simile punto di vista. In questo senso, Stalin, che era anche un discepolo di Lenin, sosteneva i movimenti di liberazione nazionale. Per lui, la divisione dei paesi in paesi imperialisti e paesi dipendenti era evidente. Ciò si manifestava non solo nei suoi discorsi e nei suoi scritti, ma anche nella politica pratica. Ad esempio, consigliò ai comunisti di collaborare con il Kuomintang borghese fino al 1927 e anche dopo il tradimento della borghesia nazionale e la brutale repressione dei comunisti. L’URSS inizialmente ruppe con il Kuomintang, ma nel 1937 ristabilì le relazioni con esso e sostenne sia il PCC che il Kuomintang. È possibile trovare molte dichiarazioni di Stalin sul movimento nazionale borghese in Cina. Ad esempio, ecco cosa dice a proposito di un possibile futuro governo rivoluzionario in Cina:

“Il futuro governo rivoluzionario cinese avrà il vantaggio, rispetto al governo MacDonald, di essere un governo antimperialista.

Non si tratta solo del carattere democratico borghese del potere cantonese, che è l’embrione del futuro potere rivoluzionario di tutta la Cina, ma soprattutto del fatto che questo potere è, e può essere, solo antimperialista; ogni avanzamento di questo potere è un colpo all’imperialismo mondiale, e quindi un colpo a favore del movimento rivoluzionario mondiale”[5].

Continuiamo a elencare altri “opportunisti” che, secondo il compagno Opsimos (KKE), non pensano che tutti i paesi capitalisti siano imperialisti.

Altri “opportunisti” si trovano, ad esempio, nei leader della Corea e di Cuba, che nonostante ciò sono riusciti a realizzare rivoluzioni socialiste. Kim Jong Il parla di neocolonialismo in relazione ai paesi che si erano appena liberati dall’oppressione coloniale. Ecco per esempio cosa scrive nel 1960 a proposito della Repubblica di Corea (la Corea del Sud):

“A causa della vecchia politica coloniale giapponese, il volto della Corea era quello di una colonia dipendente, ma oggi la Corea del Sud, vittima della politica neocoloniale degli Stati Uniti, è una colonia sotto la maschera di uno ‘stato indipendente’[6] (non essendo riuscita a trovare una versione russa di quest’opera, traduco dal tedesco – J.Z.).

Secondo Kim Jong-il, le colonie sono state trasformate in stati dipendenti e il saccheggio coloniale continua in forma occulta: gli imperialisti esportano capitali e ritardano lo sviluppo dell’economia nazionale. Questo può essere interessante per quanto riguarda l’Ucraina, “che le sta trasformando nelle sue basi militari“. (Ibid.)

Ma la Repubblica Democratica Popolare di Corea è comunque, dal punto di vista del KKE, “revisionista”. Forse che i comunisti cubani avevano una visione diversa?

Che Guevara:

“…dobbiamo ricordare che l’imperialismo, l’ultimo stadio del capitalismo, è un sistema mondiale e che per sconfiggerlo è necessario un confronto su scala mondiale. L’obiettivo strategico della nostra lotta è la distruzione dell’imperialismo. La partecipazione dei nostri popoli, i popoli dei paesi sottosviluppati e sfruttati, deve inevitabilmente portare alla distruzione delle basi di approvvigionamento dell’imperialismo e alla rottura del suo controllo sui paesi oppressi: i paesi dove l’imperialismo oggi attinge i suoi capitali, attinge materie prime a basso costo e professionisti a basso costo, dove è disponibile manodopera a basso costo e dove vengono investiti nuovi capitali come strumenti di dominio, armi e qualsiasi altro mezzo per mantenere la nostra totale dipendenza[7] (sottolineatura mia – J.Z.).

L’elenco di affermazioni di questo genere potrebbe continuare all’infinito.

C’è da sottolineare inoltre che le rivoluzioni di successo o quasi del XX secolo sono state guidate principalmente dall’idea di liberazione nazionale, a differenza della rivoluzione russa (che aveva anche caratteristiche proprie, che non menzioneremo qui). Il gruppo di Fidel Castro e il suo esercito rivoluzionario non erano marxisti, erano principalmente contadini (la classe operaia a Cuba era ancora una minoranza e poco sviluppata), c’erano solo singoli individui comunisti (come il Che) e fu solo dopo la vittoria della rivoluzione, sotto l’influenza sovietica, che Cuba divenne socialista (cosa che ovviamente contribuì al suo successivo consolidamento). In Cina, Vietnam e Corea, i motivi di liberazione nazionale erano più forti nelle masse popolari rispetto al lavoro del proletariato per costruire il socialismo. Ciononostante, i partiti comunisti di quei paesi furono in grado di guidare il movimento nazionale. Questi fenomeni possono essere interpretati in modo diverso, ma non possono essere negati. E, naturalmente, nel mondo esistono molti più fatti di questo tipo di quanti se ne possano citare in questa sede.

Ad esempio: Nel XX secolo, nel movimento comunista, non c’erano dubbi sul fatto che esistessero paesi imperialisti (una “manciata di paesi” secondo Lenin) e che questi fossero imperialisti proprio perché altri paesi ne erano vittime. Questo è il punto di vista adottato nell’URSS e nella Repubblica Democratica Tedesca.

Questa posizione sull’oppressione neocoloniale è stata evidente per tutto il XX secolo. E nel movimento comunista della Repubblica Federale Tedesca non c’è una percezione diversa. Michael Opperskalski descrive la situazione del XXI secolo come l’egemonia degli Stati Uniti e della nuova potenza imperialista emergente, l’Europa, guidata dalla RFT[8]. Queste potenze cercano di assicurarsi risorse a basso costo da altri paesi. Successivamente Opperskalski menzionò anche altri centri imperialisti, tra cui il Giappone e la Russia. Si parlava sempre di antimperialismo. La lotta antimperialista era considerata parte essenziale del movimento comunista. L’autore del succitato articolo era stato in passato membro dell’ormai defunta Iniziativa Comunista, della cui dirigenza M. Opperskalski e F. Flegel facevano parte. All’epoca, dal 2008 al 2015, abbiamo sostenuto la Siria come stato anti-imperialista e abbiamo criticato certi comunisti che ad esempio durante la Rivoluzione Verde in Iran nel 2009 ritenevano necessario un cambio di regime. Abbiamo capito che l’Iran era sì uno stato conservatore di destra e anticomunista, ma all’epoca aveva una posizione antimperialista. Abbiamo anche criticato le azioni della RFT contro il popolo greco durante la crisi e ci siamo opposti alla presentazione di queste azioni da parte dei media come “aiuto ai greci pigri”. Per noi, comunisti della RFT, si trattava di un chiaro attacco dell’imperialismo della RFT contro la Grecia.

Ma a quanto pare i comunisti greci rifiutano in linea di principio la nozione di anti-imperialismo e considerano tutti i paesi con economia capitalista come imperialisti: si differenziano l’uno dall’altro quantitativamente, per il diverso potenziale economico, ma non differiscono qualitativamente. Poiché il KKE gode di grande prestigio internazionale, la sua teoria è condivisa da altri partiti (ad esempio il potente Partito Comunista Turco). Anche una parte dei comunisti della Germania occidentale è caduta sotto l’influenza di questa teoria e ora rifiuta la lotta antimperialista, a meno che questa non sia direttamente socialista e proletaria. L’autrice di questo articolo ha persino sentito dire in varie discussioni che anche il Venezuela e il Nicaragua sono paesi imperialisti, perché vi prevale l’economia capitalista. E a dir questo sono membri e dirigenti di grande esperienza di organizzazioni comuniste.

Alla luce di quanto detto, si può riassumere che il punto di vista proposto dal KKE è del tutto nuovo e non può essere considerato come un’elaborazione che aggiorna la teoria leninista dell’imperialismo. Inoltre per accettare la teoria della piramide, bisognerebbe ripudiare le esperienze rivoluzionarie di Cuba, Corea, Cina, Vietnam e Unione Sovietica.

Ne consegue, quindi, che la contraddizione nel movimento comunista non è dovuta a valutazioni diverse su un particolare paese o su questa o quella guerra, ma è molto più profonda e grave.

Ed è questa contraddizione innanzitutto che deve essere chiarita. Solo allora potremo parlare di Russia, Ucraina o qualsiasi altro paese.

Sulla scientificità di questo approccio

La teoria marxista pretende di essere una scienza. È certamente vero, il marxismo è una scienza, ma non ne consegue che tutto ciò che viene scritto da un marxista o da qualsiasi altro teorico soddisfi i criteri di scientificità.

Una questione dibattuta

Contrariamente all’approccio postmoderno, che presuppone che non esista una verità ma solo opinioni diverse, il marxismo presuppone l’esistenza di una verità oggettiva, indipendente dai nostri punti di vista. Alcuni compagni poi contestano l’esistenza stessa di “punti di vista diversi” e pretendono di conoscere la verità mentre tutti gli altri hanno solo “punti di vista”. Ma anche questa posizione estrema non è affatto scientifica. Nei campi scientifici non ancora affermati, nella ricerca della verità bisogna che coesistano diversi punti di vista. Robert Koch per esempio pensava che la causa della tubercolosi fosse il bacillo che aveva scoperto, mentre Rudolf Virchow vedeva la causa di questa malattia nelle condizioni sociali. Il successivo sviluppo della scienza ha dimostrato che entrambi avevano ragione, ma all’epoca questo disaccordo fu causa di accesi dibattiti tra gli scienziati.

Sì, esiste una verità assoluta oggettiva, ma il problema è che noi esseri umani possiamo avvicinarci ad essa solo con verità relative, che contengono parti dell’assoluto. La scienza è solo un tentativo di stabilire questa verità (vedi La Dialettica della Natura di Engels). Pertanto, sono necessarie opinioni diverse e la verità si coglie solo nel processo di discussione, osservazione e sperimentazione scientifica. Questo vale anche per il marxismo. Ecco perché non intendo, senza nemmeno discutere, chiamare i miei avversari indiscriminatamente “revisionisti” e “opportunisti”. Per prima cosa bisogna scoprire il loro punto di vista.

 

La questione dell’autorità

L’autorità scientifica e l’autorità politica non sono dello stesso ordine. Le conquiste politiche hanno nel marxismo lo stesso significato di un esperimento riuscito nelle scienze naturali. Ecco perché consideriamo Stalin un classico e Mao, Kim Il Sung e Kim Jong Il dei teorici eccezionali: proprio perché hanno ottenuto un successo indiscutibile in campo politico.

Ma quando si parla di scienza, bisogna prendere in considerazione anche le idee teoriche di coloro che non hanno raggiunto il successo politico. Inoltre, anche gli sviluppi degli scienziati borghesi devono essere studiati e applicati (ad esempio, se parliamo di economia). I fondatori del marxismo hanno fatto esattamente questo: Marx ha utilizzato le idee di Adam Smith, e anche quelle di altri teorici, e ha basato la sua teoria su di esse; il libro di Engels “Le origini della famiglia, della proprietà privata e dello Stato” è stato scritto sulla base delle ricerche di Lewis Morgan, certamente uno scienziato borghese. Lenin utilizzò molte fonti borghesi per il suo libro sull’imperialismo tra cui, per esempio, il lavoro di quel vero opportunista di Hilferding.

Ma oggi alcuni sono convinti che si debba prendere in considerazione solo l’opinione dei membri dei partiti comunisti “corretti” (non trotzkisti, maoisti o revisionisti). Tutte le altre persone, anche se competenti in un certo campo della conoscenza, non possono dire nulla di nuovo al marxista. Va da sé che questa posizione non ha nulla a che fare con la scientificità.

 

Competenza scientifica

Il marxismo è una scienza molto complessa, e infatti un marxista dovrebbe innanzitutto aver seguito corsi universitari di scienze politiche ed economia. Sarebbe inoltre opportuno avere una laurea in storia, filosofia, psicologia sociale, sociologia, ecc. Naturalmente, questo non è possibile. E non è nemmeno necessario: nel mondo moderno, tutte le scienze sono complesse. Una comprensione dei principi di base delle scienze succitate sarebbe sufficiente, così come una conoscenza approfondita dei testi marxisti e della storia del movimento operaio e di liberazione. Oltre a questo, si dovrebbe avere una comprensione delle basi del lavoro scientifico.

Purtroppo, spesso non è così!

I dati contenuti nelle opere dei marxisti contemporanei sono spesso tratti da fonti oscure e dubbie. Ma c’è di peggio: spesso l’autore non capisce il significato delle cifre che riporta. Ad esempio, fornisce cifre sui flussi di capitale in uscita dalla Russia, spacciandole per “esportazione di capitale”.

Ciò che serve è capire il modus operandi. Ad esempio, per cercare di dimostrare che un paese è imperialista, si utilizza un metodo semplice: si prendono cinque caratteristiche dell’imperialismo dal libro di Lenin e le si “applica” a un determinato paese. Un esempio è “Die Notwendigkeit der Klarheit über die ökonomische Struktur Russlands”[9] di Cervi e Vicario, ma questo metodo si può trovare in molte altre opere. Così, due attributi (il completamento della divisione territoriale del mondo, l’emergere di preoccupazioni internazionali) si applicano chiaramente all’intero sistema, eppure vengono utilizzati solo tre attributi. Ma Lenin non li ha mai menzionati come elementi di “diagnosi”! Non ha fatto riferimento ad essi nell’applicazione a nessun paese in particolare. Perché crediamo che questo metodo possa essere utilizzato per distinguere tra paesi imperialisti e paesi “non ancora imperialisti”? Non c’è una risposta. Mi sembra che questo metodo sia irrilevante perché

  1. considera un singolo paese senza alcun collegamento con il resto del mondo;
  2. presuppone che l’imperialismo sia una fase dello sviluppo di ogni singolo paese.

La realtà non è che ogni paese sia prima feudale, poi capitalista e infine imperialista. L’imperialismo è un sistema unificato con diversi collegamenti: centro, semi-periferia, periferia. E sì, ogni paese appartiene all’ordine mondiale imperialista, ma in questo ordine mondiale i paesi giocano ruoli diversi e non tutti sono sfruttatori internazionali (anche se all’interno di ogni paese, ovviamente, c’è la divisione di classe e lo sfruttamento). Il metodo di utilizzare i “5 attributi” come criterio diagnostico avrebbe dovuto essere motivato, ma invece delle motivazioni, di solito si sentono accuse di ‘deviazione da Lenin’.

Se parliamo specificamente di economia, questa è la parte più difficile: l’economia del nostro tempo è molto complessa, è quasi impossibile studiarla da soli, essendo autodidatti. Ma senza l’economia è impossibile analizzare le basi – e questa è la parte essenziale dell’analisi marxista. Vedo una via d’uscita nella specializzazione. Esistono già economisti marxisti, storici o filosofi marxisti, cioè persone qualificate professionalmente in una di queste discipline e allo stesso tempo marxiste.

In questo articolo farò spesso riferimento al lavoro di questa scuola di economisti marxisti, senza adottare ciecamente le loro convinzioni e valutazioni politiche.

La questione della differenza tra paesi oppressori e paesi oppressi

I teorici del KKE sono ovviamente consapevoli dell’esistenza di queste diverse correnti economiche. Così, il compagno Opsimos ha scritto anche sulle “teorie della dipendenza”, che tuttavia non analizza nel dettaglio, ma si limita a respingere in generale. Tuttavia, come abbiamo mostrato nella Parte I, l’intero XX secolo è stato dominato dalla nozione di dipendenza neocoloniale in politica. Sono emerse molte teorie per spiegare, in vari modi, i meccanismi economici dell’oppressione neocoloniale. Si tratta di teorie di analisi del sistema mondiale (Wallerstein, Braudel, Samir Amin) o di teorie della dipendenza (P. Baran, A.G. Frank). I dettagli di queste teorie differiscono su molti punti. Non possono essere accettate in modo acritico come un “quadro ideologico”. Tuttavia, questi studi sono assolutamente essenziali per comprendere l’imperialismo da un punto di vista economico.

In generale, si concorda sul fatto che il mondo è un “sistema” composto da un centro e da una periferia. Esiste uno scambio non equivalente tra il centro e la periferia. Il capitale fluisce principalmente dalla periferia verso il centro. Questo garantisce la crescente ricchezza del centro e l’impossibilità per la periferia di svilupparsi attraverso la sola crescita economica, senza lottare per l’indipendenza politica. Il centro imperialista limita artificialmente la crescita economica della periferia.

I paesi centrali investono nelle economie della periferia per ottenere il massimo profitto possibile. Ma la divisione internazionale del lavoro è di per sé anche un importante fattore di commercio non equivalente.

Così, R. Dzarasov scrive[10]

“La produzione ad alta intensità di lavoro e a bassa intensità di capitale (bassa struttura di composizione organica del capitale) è caratteristica della periferia del capitalismo globale, mentre la produzione ad alta intensità di capitale (alta composizione organica di capitale)  è caratteristica del centro. Ciò si traduce in una struttura dei prezzi superiore al costo del lavoro per i prodotti dei paesi sviluppati e inferiore al costo del lavoro per i prodotti dei paesi non sviluppati. Ciò significa che le economie della periferia globale sono costrette a cedere gran parte del valore del lavoro creato dai loro lavoratori alle economie del centro. Questa è l’essenza dello scambio non equivalente e dello sfruttamento della periferia del capitalismo globale da parte del centro”.

Come risultato dello scambio ineguale descritto da Dzarasov, lo sviluppo di un’aristocrazia del lavoro diventa possibile nei paesi centrali che, con l’aiuto della lotta economica legale, possono ottenere condizioni leggermente migliori per se stessi, ma a spese della ricchezza creata dai lavoratori della periferia globale. Le lotte dei lavoratori della periferia, d’altra parte, sono oggetto di una brutale repressione. Questi lavoratori subiscono una doppia oppressione: da un lato l’oppressione da parte della propria borghesia e dall’altro, attraverso questa stessa borghesia (chiamata compradora), l’oppressione da parte del capitale straniero.

Spero non sia necessario spiegare qui il concetto di “neocolonialismo” e la sua storia. Se fosse necessario farlo, bisognerebbe scriverne a parte. Esistono libri dedicati specificamente all’oppressione e al saccheggio dell’Africa e dell’America Latina. In questa sede mi soffermo sull’argomento nella speranza che almeno le dimensioni di questi fenomeni siano più o meno note a tutti.

Passiamo alla domanda forse più importante, soprattutto per quanto riguarda gli eventi contemporanei. Questa domanda è stata formulata dal compagno Opsimos come segue:

“Oggi, coloro che insistono nel dividere i paesi in imperialisti e dipendenti non sanno indicare criteri rigorosamente scientifici per classificare un paese in un campo o nell’altro”1.

In realtà, tali criteri strettamente scientifici esistono e li discuteremo di seguito.

Mi baserò sul lavoro della scuola marxista russa di economia, più precisamente sul lavoro di R. Dzarasov e O. Komolov. Quest’ultimo è un candidato in economia e anche un ricercatore senior presso l’Accademia Plekhanov, dove è un attivista politico associato all’organizzazione “Rot Front”. Per inciso, le opinioni di Komolov sull’operazione militare speciale in Ucraina non coincidono con quelle dell’autore di questo articolo: Komolov non è interessato a dimostrare la necessità dell’operazione militare speciale (SMO). Si tratta di un lavoro scientifico e divulgativo. Il lavoro di Komolov sarà discusso principalmente nell’ultima parte di questo articolo.

?. ?. Dzarasov evidenzia 4 elementi alla base del commercio ineguale:

1) Struttura dei prezzi: i prezzi dei prodotti provenienti dal centro aumentano più velocemente di quelli delle economie periferiche.

2) Differenze tecnologiche: la produzione ad alto valore aggiunto si trova al centro, mentre quella a basso valore aggiunto si trova nella periferia.

3) Relazioni monetarie: i tassi di cambio delle valute nazionali dei paesi in ritardo di sviluppo sono artificialmente sottovalutati, il che facilita l’afflusso di risorse dovuto all’aumento delle esportazioni.

4) Flussi finanziari – i redditi della periferia vengono investiti nelle economie sviluppate.

In base a questi criteri, è possibile determinare con precisione se un paese appartiene al centro imperialista o alla periferia. Esistono valute forti e deboli e il valore della valuta è direttamente collegato alla posizione del paese nel sistema mondiale. Inoltre, non è difficile determinare la struttura dell’economia nazionale. I paesi periferici forniscono materie prime, prodotti agricoli, ovvero prodotti a basso valore aggiunto (ad esempio prodotti metallici laminati, ma anche prodotti tessili e casalinghi). Al contrario, i prodotti del centro sono costosi, complessi e assorbono il costo della manodopera a basso costo di tutti i precedenti partecipanti alla produzione, generando così costi elevati per questi prodotti. Ad esempio, un programmatore della Silicon Valley, in California, lavora su un computer prodotto in Asia con materie prime fornite da paesi africani. Il software creato dall’utente finale ha un costo elevato, poiché assorbe il costo di tutti i componenti utilizzati. Questi componenti, a loro volta, sono creati da manodopera a basso costo, con una struttura organica del capitale bassa (molto lavoro fisico, basso livello di automazione).

Questa divisione del lavoro tra i diversi paesi non è affatto “naturale”, ma viene mantenuta con mezzi politici (ad esempio pressioni politiche dirette, rivoluzioni colorate, colpi di stato, guerre, interventi).

Tuttavia, il criterio più pratico per distinguere centro e periferia è la direzione dei flussi di capitale. I profitti fluiscono principalmente dalla periferia al centro. Questo avviene attraverso diversi meccanismi: ad esempio, il pagamento regolare degli interessi sul debito pubblico, che i paesi poveri non possono permettersi di non pagare. Oppure la fuga di capitali: la borghesia compradora porta i capitali fuori dal paese e li deposita in banche centrali “sicure” o in località offshore. Un’altra possibilità è lo sfruttamento diretto di manodopera a basso costo in un paese periferico, sia attraverso una partecipazione azionaria straniera in un’azienda, sia semplicemente collocando filiali di aziende straniere in quel paese. Questi sono solo alcuni dei meccanismi più comuni per il continuo flusso di capitali dalla periferia al centro. Soprattutto, per i veri marxisti, questo non è in contraddizione con l’“esportazione di capitale” come definita da Lenin, perché è per questo che il capitale viene esportato, per realizzare e prendere profitti superiori al capitale investito, e questi profitti fluiscono nella direzione opposta.

Questo era un breve chiarimento sulle basi economiche dell’imperialismo moderno. Si noti che l’analisi del sistema mondiale e le teorie della dipendenza sono diverse e spesso confuse. Ci sono molte cose che meritano una critica seria. Eppure, è l’unico filone economico che descrive adeguatamente le relazioni imperialiste. In confronto, la teoria della “piramide imperialista” non è affatto una teoria economica: è solo una teoria politica. Al momento, al di fuori delle teorie della dipendenza non esistono altri strumenti economici nel marxismo che descrivano la situazione del mondo moderno. E come abbiamo dimostrato in precedenza, questi strumenti non contraddicono in alcun modo le opere classiche di Marx e Lenin, ma al contrario le confermano a livello moderno.

Consideriamo ora il sistema mondo moderno da un punto di vista politico.

L’imperialismo moderno

Sebbene nel 1916 prevalesse il sistema coloniale, il genio di Lenin aveva previsto nel suo libro “L’imperialismo come fase suprema del capitalismo” tutte le altre possibili situazioni di dipendenza. Non si trattava di una profezia in senso stretto: semplicemente descriveva le forme di dipendenza che esistevano già all’epoca, al di là del sistema puramente coloniale.

Innanzitutto, c’è la dipendenza neocoloniale, che Lenin illustrò con l’esempio dell’Argentina.

“Tipici di quest’epoca non sono solo due principali gruppi di paesi: quelli proprietari di colonie e le colonie, ma anche varie forme di paesi dipendenti,  formalmente indipendenti politicamente, ma di fatto intrappolati in reti di dipendenza finanziaria e diplomatica. Abbiamo già indicato una delle forme: le semicolonie. Un esempio è l’Argentina. ‘Il Sud America, e soprattutto l’Argentina’, scrive Schulze-Gevernitz nel suo saggio sull’imperialismo britannico, ‘è così finanziariamente dipendente da Londra che dovrebbe quasi essere definita una colonia commerciale inglese’. Schilder stimò il capitale investito dall’Inghilterra in Argentina, secondo i rapporti del console austro-ungarico a Buenos Aires nel 1909, a 8 miliardi e mezzo di franchi. Non è difficile immaginare quali forti legami il capitale finanziario inglese – e la sua fedele ‘amica’, la diplomazia, ottengano grazie a ciò con la borghesia argentina, con i circoli dirigenti dell’intera vita economica e politica di quel Paese”[11].

Dopo la liberazione, la maggior parte delle ex colonie cadde nella dipendenza neocoloniale descritta da Lenin, i cui meccanismi economici sono già stati descritti in precedenza.

D’altra parte, Lenin descrive anche una situazione diversa:

Una forma leggermente diversa di dipendenza finanziaria e diplomatica, con indipendenza politica, è illustrata dall’esempio del Portogallo. Il Portogallo è uno stato indipendente e sovrano, ma in realtà per più di 200 anni, dalla Guerra di Successione Spagnola (1701-1714), è stato sotto il protettorato dell’Inghilterra. L’Inghilterra ha protetto il paese e i suoi possedimenti coloniali per rafforzare la sua posizione contro i nemici, Spagna e Francia. In cambio, l’Inghilterra ricevette vantaggi commerciali, migliori condizioni per l’esportazione delle sue merci e soprattutto per l’esportazione di capitali in Portogallo e nelle sue colonie, la possibilità di utilizzare i porti e le isole portoghesi, i suoi cavi, ecc. Questo tipo di relazione tra grandi e piccoli stati separati è sempre esistita, ma ora, nell’era dell’imperialismo capitalista, diventa un sistema universale, entra a far parte della somma delle relazioni di “divisione del mondo”, diventa un anello delle operazioni del capitale finanziario mondiale.”

Queste due forme di dipendenza, che all’epoca Lenin descrisse come rare eccezioni, sono oggi le principali forme di dipendenza sulla terra. La maggior parte dei paesi è dipendente come l’Argentina nell’esempio di Lenin, oppure è una sorta di “protettorato”, come lo era il Portogallo all’epoca.

Diamo un’occhiata più da vicino a questo sistema moderno. L’economista marxista Samir Amin scrive[12]:

“La Seconda Guerra Mondiale ha portato a una significativa trasformazione delle forme di imperialismo, sostituendo i molteplici imperialismi in conflitto permanente con un imperialismo collettivo. Questo imperialismo collettivo è un insieme di centri del sistema capitalistico mondiale o, più semplicemente, una triade: gli Stati Uniti e la loro provincia canadese, l’Europa occidentale e centrale e il Giappone. Questa nuova forma di espansionismo imperialista ha attraversato diverse fasi del suo sviluppo, ma è esistita senza interruzioni dal 1945”.

Subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, la supremazia degli Stati Uniti è stata non solo accettata ma anche sostenuta dalla borghesia europea e giapponese. Perché?

La mia spiegazione è legata all’ascesa dei movimenti di liberazione nazionale in Asia e in Africa nei due decenni successivi alla conferenza di Bandung del 1955, che portò alla nascita del Movimento dei Non Allineati col sostegno ricevuto dall’Unione Sovietica e dalla Cina. L’imperialismo non solo fu costretto ad accettare la coesistenza pacifica con il vasto territorio che era sfuggito al suo controllo (il mondo socialista), ma anche a negoziare le condizioni per la partecipazione dei paesi asiatici e africani al sistema mondiale imperialista. L’unità della triade sotto la supremazia degli Stati Uniti sembrava utile per la gestione delle relazioni Nord-Sud in quel momento. Gli Stati non allineati si trovarono quindi a confrontarsi con un blocco occidentale quasi indivisibile.

In questo senso, le contraddizioni interimperialiste passarono in secondo piano: dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’imperialismo iniziò a temere per la propria esistenza. Altri autori (ad esempio Kim Jong Il) attribuiscono lo sviluppo di un blocco imperialista coeso al potente sviluppo degli Stati Uniti, che avevano ottenuto vantaggi significativi mentre gli altri partecipanti alla Seconda Guerra Mondiale avevano subito perdite.

Naturalmente non si può parlare di “dipendenza” della RFT; essa fa parte del centro imperialista, agisce in modo indipendente entro certi limiti e sfrutta le proprie “neocolonie“. Tuttavia, la situazione odierna è nettamente diversa da quella del 1914 e se qualcuno dovesse affermare che una guerra diretta, ad esempio tra Germania e Francia o Stati Uniti e Giappone, è possibile ora o nel prossimo futuro, sarebbe estremamente lontano dalla realtà. Per il momento questi Stati hanno smesso di combattersi e hanno formato quello che viene definito un blocco di “imperialismo collettivo”. Questa nozione mi sembra più appropriata dell’espressione spesso usata “Occidente collettivo”, che contiene un riferimento implicito alla teoria della civiltà.

D’altra parte, non si tratta nemmeno di un’approvazione della teoria di Kautsky, come potrebbero pensare i critici. Secondo Kautsky, gli Stati nazionali avrebbero dovuto perdere importanza, ma attualmente stiamo assistendo al contrario. Nella RDT e nell’URSS, l’alleanza imperialista era considerata un fenomeno temporaneo dovuto all’esistenza di nemici comuni, il sistema socialista mondiale e i movimenti di liberazione nazionale. Nell’attuale situazione del 2022, e dato il fatto evidente che nonostante l’assenza di un nemico globale, la NATO non solo non è stata sciolta ma al contrario si è espansa, possiamo tranquillamente affermare che nonostante le contraddizioni interne (il ritiro temporaneo della Francia dalla NATO, il disaccordo sulla guerra in Iraq tra Stati Uniti e Francia, la Brexit, la disputa sulle sanzioni contro la Cina) questa alleanza imperialista viene ancora mantenuta. L’alleanza utilizza il suo potere concentrato per impedire fin dall’inizio la minima ascesa di potenziali concorrenti, come la Russia capitalista o la Cina.

Samir Amin scrive ancora:

“La classe dirigente statunitense proclama apertamente che non permetterà la ricostituzione di alcuna forza economica e militare in grado di sfidare il suo monopolio della supremazia planetaria e, per questo motivo, si è data il diritto di scatenare guerre preventive. L’obiettivo potrebbe essere costituito da tre avversari di principio: Russia, Cina ed Europa”.

In effetti, possiamo concordare sul fatto che oltre allo ‘imperialista collettivo’, ci sono all’orizzonte altri candidati al ruolo di imperialisti nel mondo. La domanda è quanto si siano spinti in questo ruolo e quali siano le loro possibilità.

Il candidato più vicino al ruolo di imperialista rivale è la Cina, con la sua potente economia (non esamineremo in questa sede se e in che misura la Cina aderisca al socialismo). Immaginiamo che la Cina affronti gli Stati Uniti in una battaglia militare.

La Figura 1 mostra un confronto diretto tra gli eserciti di Cina e Stati Uniti. Tuttavia, si tratta di un confronto molto incompleto: ad esempio, non tiene conto della presenza delle basi militari statunitensi, ossia delle posizioni che gli Stati Uniti detengono direttamente lungo la costa cinese (e si noti che non ci sono basi cinesi vicino agli Stati Uniti). Tuttavia, è possibile confrontare almeno alcuni dei rispettivi punti.

Confronto tra le forze armate statunitensi e cinesi 2015

  E-U Chine
Soldati 1 381 250 2 333 000
Missili intercontinentali 450 62
Artiglieria 7 420 13 380
Carri armati 2 831 6 540
Aerei da combattimento 3 130 1 866
Bombardieri 157 150
Elicotteri 902 200
Portaerei 10 1
Incrociatori e fregate 88 73
Testate nucleari 7 000 260

È interessante anche confrontare le spese militari: nel 2021, gli Stati Uniti hanno stanziato 801 miliardi di dollari per le spese militari. La Cina ha stanziato 293 miliardi di dollari per le spese militari[13]. Come possiamo vedere, l’esercito cinese è numericamente superiore a quello statunitense per alcuni aspetti: in termini di carri armati, artiglieria e personale, ma è in netto ritardo in termini di aerei, portaerei, missili e testate nucleari.

A prima vista, il divario non sembra così ampio, ma questo confronto si indebolisce se ricordiamo che in un conflitto diretto, la Cina si troverebbe ad affrontare l’imperialismo collettivo, non solo gli Stati Uniti. Contrariamente ai sogni idilliaci dei patrioti russi, non esiste un’alleanza militare tra Russia e Cina. L’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, spesso paragonata statisticamente alla NATO, non è in alcun modo un’alleanza militare, né una “NATO alternativa” (per non parlare dei BRICS!). Non c’è alcun obbligo per la Russia di fornire assistenza militare alla Cina (e viceversa!).

Non è solo la NATO a combattere la Cina, ma anche il nuovo blocco AUKUS, che include l’Australia. Che possibilità ha la Cina contro tutte queste forze combinate?

Perché la Cina non è riuscita a introdurre truppe a Taiwan quando la signora Pelosi ha visitato l’isola come provocazione? Si scopre che il formidabile “imperialista numero due” non può permettersi di fare nemmeno piccoli passi nella propria sfera di influenza (legalmente, Taiwan è addirittura territorio cinese). Ora confrontate questo dato con la libertà illimitata di cui godono i paesi dell’imperialismo collettivo sul pianeta. Tutte le misure che adottano, compresi gli interventi diretti, si suppone siano moralmente giustificate e non abbiano conseguenze disastrose per loro stessi sotto forma di sanzioni o di conseguenze di una sconfitta militare (anche se la tollerano).

L’esistenza dell’imperialismo collettivo è chiaramente visibile nell’attuale guerra. Persino il più stretto alleato della Russia, la Bielorussia, che è sottoposta a sanzioni in quanto “complice”, non sta fornendo aiuti militari diretti alla Russia. Non un solo soldato bielorusso è entrato in territorio ucraino. L’Iran non può ammettere direttamente di aver venduto droni alla Russia e anche le voci di tali vendite provocano enorme scandalo. La Russia è quasi da sola in guerra con un imperialismo collettivo, i cui membri non solo forniscono armi e addestramento all’esercito ucraino dal febbraio 2022, ma anche dagli otto anni precedenti.

I comunisti del Partito Comunista Greco non sono gli unici a credere in una “moltitudine di centri imperialisti che si combattono come nel 1914“. Anche Putin parla di un “mondo multipolare” in cui si riprodurrebbe la situazione del passato, quella dell’inizio del XX secolo. Ma queste sono solo le speculazioni del governo russo al momento.

Non voglio dire che siano irrealistiche. Ma per il momento siamo immensamente lontani da questo mondo “multipolare”.

E’ più realistico immaginare crisi di enorme impatto che scuotono il mondo occidentale e una nuova società socialista che emerge da potenti conflitti, piuttosto che un ritorno alle relazioni del “buon vecchio 1914”. Si può immaginare l’annientamento reciproco in una fiamma atomica, poiché i membri del “collettivo imperialista” preferirebbero scatenare una guerra nucleare piuttosto che lasciare che i “regimi autoritari” vincano (in altre parole, permettere ad altri candidati di diventare centri imperialisti a tutti gli effetti).

È quindi difficile immaginare una guerra tra centri imperialisti in stile 1914 nel mondo di oggi. L’“imperialismo collettivo” non permette ad altri Stati di elevarsi al livello di candidati a questo ruolo. Li abbatte, per così dire, non appena cercano di uscire dallo stato di dipendenza. Questa situazione è fondamentalmente diversa dai tentativi dell’imperialismo tedesco nel 1914 e negli anni ’30 di “raggiungere” la Gran Bretagna e la Francia e quindi di accaparrarsi le loro colonie: la Germania era già uno stato imperialista (nel 1914 aveva anche delle colonie, ma “troppo poche” per i suoi appetiti). La Germania non era dipendente, anzi, la Russia e alcuni stati europei dipendevano dal capitale tedesco. Pertanto, l’aggressione dell’imperialismo tedesco fu proprio un’aggressione espansionistica e imperialista. Oggi non esiste una situazione simile nel mondo, ci sono solo tentativi di liberarsi dalla dipendenza politica e di agire contro il potere dell’imperialismo collettivo. Si tratta essenzialmente di una lotta antimperialista (torneremo su questo concetto più avanti).

 

Implicazioni politiche.

 Nella sua critica alle teorie dell’analisi del sistema mondiale il compagno Opsimos sostiene la seguente argomentazione.

(Queste teorie) ignorano lo sfruttamento a cui sono sottoposte le masse lavoratrici e i poveri dei paesi capitalisti sviluppati, che in termini numerici (in percentuale e valore del plusvalore) è di gran lunga superiore a qualsiasi ‘tributo’ ricevuto dai profitti monopolistici ‘dalla periferia al centro’Questa idea mette sullo stesso piano i lavoratori e la borghesia dei paesi più sviluppati e inibisce oggettivamente la lotta di classe generale del proletariato a livello globale.”

Purtroppo non sono a conoscenza di alcun lavoro che metta a confronto numericamente l’entità dello sfruttamento nei paesi centrali e i profitti della periferia. Tuttavia, un tale confronto sarebbe comunque incompleto. Uno dei meccanismi dello sfruttamento imperialista consiste proprio nel fatto che la periferia fornisce materie prime, prodotti agricoli e simili a basso valore aggiunto, mentre i paesi centrali producono beni complessi ad alto valore aggiunto. Un transatlantico o un film di Hollywood valgono molto di più e generano molti più profitti di una maglietta o di un computer portatile. Nel frattempo, i lavoratori qualificati locali possono portare ai loro sfruttatori nei paesi core molti più profitti in termini numerici rispetto ai bambini del Congo che estraggono cobalto con il lavoro manuale. Anche le condizioni di povertà più abominevoli in Germania, in cui vivono i beneficiari dell’Harz4 o i lavoratori a basso salario, sembrerebbero molto attraenti per un bambino del Congo, come dimostra chiaramente il flusso di rifugiati verso l’Europa occidentale.

Il compagno Opsimos ci invita semplicemente a chiudere gli occhi di fronte ai fatti reali e a continuare a insistere sul fatto che i problemi e le condizioni sono esattamente gli stessi per la classe operaia di qualsiasi paese. Ma questo contraddice non solo i fatti reali, ma anche Marx ed Engels, che hanno introdotto il concetto di “aristocrazia operaia”, indicando che la migliore posizione dei lavoratori inglesi è garantita dall’oppressione coloniale di altri paesi.

Così, Engels scrive: “La verità è questa: finché il monopolio industriale dell’Inghilterra è persistito, la classe operaia inglese ha partecipato in qualche misura ai profitti di questo monopolio…. Ecco perché, da quando l’Owenismo si è estinto, non c’è più socialismo in Inghilterra [14] .

Lenin è ancora più incisivo:

“La politica coloniale estensiva ha messo il proletario europeo in parte in una posizione tale che non è con il suo lavoro che si mantiene l’intera società, ma con il lavoro dei nativi coloniali quasi schiavizzati. La borghesia inglese, ad esempio, trae più profitto dalle decine e centinaia di milioni di persone in India e nelle altre colonie che dai lavoratori inglesi. In queste condizioni, nei paesi conosciuti si creano le basi materiali ed economiche per la contaminazione del proletariato di questo o quel paese da parte dello sciovinismo coloniale”[15]

Durante la Grande Guerra Patriottica, il popolo dell’URSS chiese anche agli agitatori del partito: “Perché i lavoratori tedeschi hanno attaccato noi, il primo paese socialista? Dopo tutto, era contro i loro interessi di classe e sembra che abbiano una coscienza di classe molto sviluppata? Forse dobbiamo iniziare a pensare con categorie nazionali diverse?”

La risposta corretta è che l’imperialismo tedesco ha dato vita al fascismo e ha promesso ai lavoratori di costruire un favoloso Reich sulle ossa e a spese dei popoli “inferiori”. Questa idea fu purtroppo accettata. Eliminando la principale forza della classe operaia – i comunisti e i socialdemocratici coerenti – i fascisti riuscirono a convincere e a influenzare positivamente le masse di lavoratori che inizialmente erano scettiche e persino ostili all’idea di una “comunità nazionale” a spese degli “inferiori”. Finché il successo militare accompagnò i conquistatori tedeschi, molti di coloro che prima vivevano nella miseria poterono godere dei frutti di questa “comunità di popolo” e provare un senso di realizzazione individuale derubando e uccidendo i “selvaggi” inferiori. Coloro che prima non potevano neanche fiatare  improvvisamente ebbero l’opportunità di andare a letto con qualsiasi ragazza gli piacesse. Il popolo sovietico però non voleva trasformarsi in “nuovi indiani” e respingeva l’aggressione imperialista.

Capire questa realtà comporta forse una scissione della classe operaia? Sembrano le obiezioni dei maschilisti: non si può parlare di una specifica oppressione delle donne perché gli uomini si sentono offesi e svalutati, e questo divide la classe operaia! È vero che questo non è un problema nel movimento comunista dell’Europa occidentale, perché tutti capiscono: i proletari maschi sono in grado di capire che le donne hanno problemi aggiuntivi, e questo è un fatto reale e dimostrabile.

Allo stesso modo, come lavoratore di un paese del cuore dell’imperialismo, non ho problemi ad ammettere che i lavoratori di altri paesi vivono peggio: mangiano meno e addirittura muoiono di fame, hanno meno assistenza sanitaria e sostegno sociale. Questo non rende inutile la lotta sindacale in Germania, ma crea una responsabilità particolare per i lavoratori del centro i quali devono essere pronti a sostenere i lavoratori della periferia in modo solidale e a comprendere almeno la loro situazione di doppia oppressione.

Chi non è disposto a mostrare solidarietà internazionale non ha il diritto di essere chiamato comunista!

Perché è davvero importante riconoscere questa distinzione tra centro e periferia?

La differenza sta nella tattica. La teoria dell’imperialismo di Lenin fornisce alcune raccomandazioni strategiche e tattiche. La lotta antimperialista contro l’imperialismo collettivo, guidata dagli Stati Uniti, deve essere generalmente sostenuta, anche se questa lotta è condotta da un regime borghese. In un paese periferico, i comunisti devono scegliere la loro tattica a seconda che il governo sia anti o pro-comunista e che sia coerente con l’antimperialismo. La classe operaia è sempre più coerente contro l’imperialismo rispetto alla borghesia, quindi i comunisti devono farlo sapere al popolo e sollecitare il governo a essere coerente in questa lotta, mentre loro stessi conducono questa lotta, al di fuori della “normale” lotta di classe. Esistono termini come “borghesia compradora” e “borghesia di orientamento nazionale”“liberazione nazionale” e “lotta per l’indipendenza”, persino il nazionalismo può essere in qualche misura di sinistra e progressista (purché sia il nazionalismo di una minoranza realmente oppressa), e così via. Le lotte nei paesi dipendenti sono per molti versi diverse da quelle del centro.

Cosa ci offre invece la teoria del KKE? A prescindere dalla coscienza di classe esistente, secondo la teoria della piramide, dobbiamo sempre lottare contro il governo borghese, anche se, come in Bielorussia o in Venezuela, le forze filo-occidentali cercano di organizzare una rivoluzione colorata e un cambio di regime. In altre parole, si chiede alla classe operaia di essere solidale con questi colpi di mano e di fare il gioco dell’imperialismo collettivo. Si tratta di una strategia molto discutibile! Finché si tratta di stringersi in un circolo di persone che la pensano come te, va bene, non importa a nessuno. Ma se si vuole lavorare con masse specifiche, con persone specifiche, iniziano le difficoltà. Le masse lavoratrici del Venezuela, ad esempio, dovrebbero essere solidali con Guaidó e andare a manifestare contro il governo chavista, con l’“opposizione”? Se anche portassero con sé i propri manifesti e volantini, gli slogan che equiparano Maduro e Guaidó e proclamano “No Maduro, no Guaidó!” sarebbero altrettanto discutibili. Il Partito Comunista del Venezuela, pur non fondendosi con i moderni chavisti a causa della loro incoerenza, non mette sullo stesso piano questo governo popolare e l’opposizione filo-imperialista, ma prende una posizione specifica.

Questo può essere dimostrato anche con l’esempio del Donbass. La popolazione del Donbass sente molto chiaramente l’ingiustizia e la crudeltà che viene perpetrata contro di loro con il sostegno dei centri imperialisti, per mano dei militari e dei fascisti ucraini. Sono sopraffatti dal sentimento della necessità di difendere la loro patria e se stessi, la loro storia e la loro cultura o semplicemente le loro vite. Non hanno bisogno di propaganda per farlo. La propaganda dei media occidentali e ucraini (a loro disposizione!) li dipinge come “separatisti filorussi” e persino “fascisti”, negando loro qualsiasi diritto morale di difendersi. Sono considerati privi di volontà personale e di soggettività; dopo tutto, sono solo “agenti filorussi”.

Ci sono persino comunisti, come i rappresentanti del KKE, che accettano ciecamente questa narrazione dell’imperialismo collettivo, e fanno discorsu del tipo: “Siete solo servi di un altro imperialista (che in realtà è altrettanto cattivo), con una cosiddetta repubblica popolare tra virgolette, quindi la vostra lotta non è giustificata. Tornate a casa, fate pace con i fascisti ucraini (come si fa a fare una pace duratura con i fascisti, forse erigendo volontariamente monumenti a Bandera?) e, meglio ancora, cercate di lottare per ottenere aumenti salariali attraverso i sindacati, questa è la strada giusta. Forse tra 50 anni imparerete finalmente a difendervi collettivamente, avrete un movimento sindacale organizzato in linea con le nostre idee, e inoltre un partito comunista normale, senza deviazioni revisioniste, e allora potremo dire che la vostra lotta è giusta e corretta!” .

Ops. Se questo è comunismo, io non sono certo comunista. Voglio essere tra le file dei nostri combattenti caduti Alexey Mozgovoy (che non era comunista) e Alexey Markov-Dobry! Voglio essere là dove comunisti e non comunisti che hanno combattuto o sono morti in questa lotta si trovano ancora oggi. Voglio essere dove si fa la storia.

Voglio essere nelle file dell’esercito mondiale guidato dal Che, da Allende, da Ho Chi Minh, da Sankara, da Lumumba, da Kim Il Sung.

 

Nelle file della resistenza antimperialista!

Infine, se i comunisti dei paesi centrali non riconoscono i numerosi problemi del proletariato della periferia, come possono valutare fenomeni come le migrazioni (molto rilevanti in Germania!) o le “rivoluzioni colorate”? Come possono i compagni del KKE spiegare che alcuni paesi sono altamente sviluppati e altri arretrati? Forse ripetono la menzogna dei media tedeschi sui “greci pigri”: i greci non lavorano come i tedeschi e per questo hanno problemi economici? La teoria del sistema mondiale (o della dipendenza) aiuta a capire perché, in particolare, la Grecia, la semiperiferia europea, ha sofferto così tanto durante l’ultima grande crisi economica. Tuttavia, possiamo presumere che i compagni stessi intuiranno, al più tardi quando cercheranno una spiegazione per la carestia in Africa, che la causa è ovviamente lo sfruttamento imperialista. Qualsiasi altra spiegazione sarebbe razzista.

A volte ci si chiede perché il KKE abbia avuto bisogno di un termine come “imperialismo”. Dopotutto, secondo la “teoria della piramide”, basterebbe dire che oggi tutti i paesi sono capitalisti e che un paese capitalista, se ha un certo potere militare ed economico, persegue sempre una politica aggressiva. E noi dovremmo “semplicemente” opporci a tutti i capitalisti e schierarci con la classe operaia e basta!

La Russia

In quest’ultima parte analizzeremo il “colpevole” dell’attuale crisi teorica: la Russia e la sua Operazione speciale, con la conseguente guerra economica dell’Occidente.

Negli ultimi anni, le discussioni sulla Russia sono sempre ruotate intorno agli stessi temi: da una parte si sosteneva che la Russia saerebbe un gigante imperialista emergente (citando tre delle cinque caratteristiche menzionate da Lenin e dimostrando che queste sono osservabili in Russia). Molti altri sembravano semplicemente nutrire un amore segreto per il Paese, dichiarando ingiustificatamente che la Russia è “non capitalista”, quasi socialista: “La Terza Via”“Compagno Putin”“In Russia la politica ha la precedenza sull’economia”… e altre idee inverosimili. Il secondo punto di vista mi è sembrato molto lontano dalla realtà (e lo è ancora!), quindi ho analizzato più da vicino il primo.

Per vedere la reale posizione della Russia nell’attuale sistema mondiale, ci rivolgeremo ancora una volta all’articolo di Oleg Komolov “Capital Outflow from Russia in the Context of World-Systems Analysis” (Il deflusso di capitali dalla Russia nel contesto dell’analisi dei sistemi mondiali).[16] Questo articolo contiene molti grafici e tabelle, che non presenterò qui a causa della loro lunghezza, poiché possono essere studiati da tutti nella fonte originale.

Komolov discute il concetto di “deflussi di capitale”, in relazione alle categorie di esportazione di capitale, fuga o esportazione di capitale.

“L’esportazione di capitali è tradizionalmente intesa come ‘esportazione di capitali all’estero, effettuata in forma monetaria o di merci, con l’obiettivo di aumentare i profitti, rafforzare le posizioni economiche e politiche ed espandere la sfera operativa’” [p. 96].

Questa interpretazione è vicina a quella data da V.I. Lenin in “L’imperialismo come fase suprema del capitalismo”. L’esportazione di capitale è definita dal processo di “sovramaturazione” del capitalismo metropolitano, che cerca di collocare il capitale in modo redditizio nei paesi arretrati [p. 359]. In una certa misura, questo fenomeno è specifico anche per l’economia nazionale. Le grandi aziende russe e le multinazionali stanno investendo attivamente all’estero, acquisendo beni e lottando per espandere la loro quota di mercati esteri. Ad esempio, la società statale Gazprom sta investendo 102,4 miliardi di rubli nel progetto Nord Stream-2. Il portafoglio ordini esteri di Rosatom Corporation alla fine del 2016 ammontava a 133 miliardi di dollari. Complessivamente, gli investimenti diretti esteri della Russia all’estero ammonterebbero a 335,7 miliardi di dollari alla fine del 2016.

Di passaggio, si può già notare che tutte le esportazioni di Gazprom non sono servite a nulla, e il Nord Stream-2 non ha portato alcun beneficio.

“L’esportazione di capitale è una caratteristica delle economie sviluppate e forti, che inviano il capitale all’estero per un’applicazione redditizia. In questo caso, il paese esportatore avrà un afflusso netto costante di capitali, dove ogni dollaro esportato produrrà un guadagno teorico di 10 centesimi. Tuttavia, il deflusso netto di capitali dalla Russia per decenni suggerisce che questi profitti rimangono all’estero e non rientrano nell’economia russa, oppure si rivelano insufficienti a compensare il deflusso di capitali ‘non investiti’ in patria. Inoltre, questi investimenti possono essere utilizzati come strumenti per spostare le attività fuori dal paese, in aree offshore. Ad esempio, secondo la Banca Centrale Russa, nel 2014 la Russia ha indirizzato più di 82 miliardi di dollari in investimenti diretti nell’economia delle BVI (Isole Vergini Britanniche) una cifra 77 volte superiore al PIL nominale annuo del paese. Ovviamente, questi investimenti esteri non possono essere classificati come esportazioni di capitali.

Inoltre, ci sono anche flussi di capitali in uscita e migrazioni (che differiscono solo per la loro velocità e motivazione). Questi deflussi e migrazioni avvengono solo perché i proprietari cercano di spostare i loro beni in luoghi più sicuri.

Nel movimento comunista della Germania Occidentale esiste una leggenda secondo la quale la fuga di capitali dalla Russia si sarebbe fermata alla fine degli anni ’90 dopo il giro di vite di Putin. Komolov dimostra che non è così.

“Per la Russia, negli ultimi decenni, l’intensificazione della fuga di capitali si è verificata nel 2008 e nel 2014. – In entrambi i casi, il Paese ha dovuto affrontare un’inflazione vertiginosa, un calo della domanda dei consumatori e massicci fallimenti aziendali. Tutto ciò è stato accompagnato da un’elevata volatilità del tasso di cambio, da aspettative di svalutazione e da tassi di interesse in aumento. In questi due anni, il settore privato ha ritirato 285 miliardi di dollari dall’economia russa”.

“Secondo alcune stime, il deflusso di capitali che non sono legati alle normali attività commerciali, ma che sono piuttosto destinati a nasconderle, rappresenta circa il 70% di tutti i beni che attraversano il confine russo” [p. 114].

Dove vanno i capitali russi? Negli ultimi decenni, la principale ubicazione dei patrimoni nazionali era (ed è tuttora) offshore – 42 zone offshore tradizionali specificate nell’elenco ufficiale della Banca Centrale Russa (che comprende principalmente stati insulari esotici), nonché paesi ‘driver offshore’ [p. 8] (Regno Unito, Paesi Bassi, Irlanda, Svizzera, Cipro, Liechtenstein, Lussemburgo), che fungono da punti di trasferimento per i capitali russi. Si tratta di giurisdizioni che offrono condizioni fiscali attraenti per le società non residenti, combinate con aliquote d’imposta sulle società relativamente basse e una serie di vantaggi fiscali, un regime valutario favorevole e un alto livello di riservatezza. Per determinare la quota delle società offshore sul totale dei capitali in uscita dalla Russia, passiamo alle statistiche sul saldo degli investimenti esteri della Russia (investimenti diretti e di portafoglio). Secondo la Banca Centrale Russa, negli ultimi 10 anni le società offshore hanno rappresentato circa il 70% degli investimenti in uscita. La maggior parte di essi è stata destinata a paesi offshore, mentre la quota degli investimenti offshore insulari è scesa al 10% nel 2017).

Questa situazione riflette senza dubbio lo stato di salute dell’economia russa. Anche le autorità ai massimi livelli ne parlano.

Il governo russo sta cercando di adottare misure per prevenire la fuga di capitali, ma queste misure si sono rivelate inefficaci:

“Sono passati cinque anni dalla dichiarazione di guerra all’offshore, ma i risultati della politica di de-offshoring e rimpatrio non hanno avuto successo. L’economia russa continua a perdere decine di miliardi di dollari all’anno e nel 2017 la quota offshore dei deflussi di capitale ha superato l’82%. Nel frattempo, il calo nominale dei deflussi netti di capitale degli ultimi anni è dovuto principalmente al forte calo dei guadagni in valuta estera derivanti dalle esportazioni di materie prime e al calo di quasi due volte del tasso di cambio della valuta nazionale russa rispetto al dollaro”.

Komolov dimostra quindi che la fuga e il deflusso di capitali in Russia superano di gran lunga le esportazioni di capitali. Komolov spiega poi il meccanismo con cui viene sfruttata l’economia russa in particolare. Le economie periferiche sono in concorrenza tra loro per vendere, in questo caso, materie prime. Komolov scrive:

“Uno degli strumenti più efficaci in questa lotta è la politica deliberata degli Stati periferici di sottovalutare la valuta nazionale, che crea un ambiente economico favorevole per gli esportatori”. Secondo M.V. Ledneva, le relazioni economiche tra la periferia e il centro del capitalismo globale fanno sì che i paesi occidentali (dove risiede il 16% della popolazione mondiale) consumino l’85% delle risorse naturali mondiali [p.46]. In generale, esiste una chiara correlazione tra il livello di sviluppo economico di un Paese e il grado di deviazione del tasso di cambio nominale della valuta nazionale (in termini di potere d’acquisto) rispetto al dollaro USA.

Nel 2014, l’entità della bilancia commerciale della Federazione Russa è più che triplicata: da 60 a 190 miliardi di dollari. Il massiccio afflusso di petrodollari nel mercato dei cambi ha esercitato una pressione significativa sul tasso di cambio del rublo, favorendone la crescita. Dopo il brusco calo dei prezzi globali delle materie prime nel 2014, questa pressione si è attenuata e il tasso di cambio effettivo reale del rublo è diminuito leggermente. Questo ha peggiorato la posizione degli esportatori russi e ha costretto il governo ad adottare misure per frenare la crescita. Una chiara indicazione di ciò è l’indice del tasso di cambio effettivo nominale in costante diminuzione, cosa che non sarebbe potuta accadere senza che i principali attori influenzassero deliberatamente questo indicatore.

In queste circostanze, i deflussi netti di capitale su larga scala dall’economia russa sono un fattore positivo per il governo, in quanto riducono l’offerta di dollari sul mercato dei cambi e quindi frenano l’apprezzamento della valuta nazionale. Inoltre, lo Stato russo ha ritirato attivamente i capitali dal Paese per tutti questi anni, in misura minore rispetto al settore privato. Il governo e la Banca Centrale hanno utilizzato due strumenti principali a questo scopo: l’accumulo di riserve internazionali e il rimborso del debito nazionale.

Come dimostrano i dati sopra riportati, il governo agisce come soggetto attivo del deflusso di capitali dalla Russia. Inoltre, quando il settore privato ha smesso di ritirare beni dall’economia nazionale (2006-2007), lo ha fatto anche lo Stato. È in questo periodo che la Banca Centrale ha iniziato ad accumulare rapidamente le sue riserve di valuta estera, acquistando i dollari che erano entrati nel mercato valutario russo, riducendone così l’offerta. Questi fondi sono stati poi investiti in larga misura nell’acquisto di titoli del mondo sviluppato. Ad esempio, tra il 2007 e il 2013, la somma di denaro investita dalla Russia in titoli del Tesoro americano è passata da 8 a 164 miliardi di dollari. Questo denaro non lavora in Russia e non viene investito nello sviluppo dell’economia nazionale; viene invece investito nelle economie dei paesi occidentali, con scarsi profitti per l’investitore a causa dei bassi tassi di interesse attualmente fissati in Occidente. Un altro strumento per ritirare i beni in dollari dall’economia è il rimborso del debito estero da parte dello Stato. Nel 2000, i debiti esteri dello Stato russo ammontavano a 149 miliardi di dollari, mentre nel 2017 si sono ridotti di tre volte a 51 miliardi di dollari27. Poiché il debito estero viene pagato in valuta estera, il suo rimborso è anche un importante strumento per “alleggerire” la pressione sul mercato nazionale dei cambi. Combinando i due canali di deflusso dei capitali dalla Russia (privato e pubblico), vediamo che il deflusso totale di beni dall’economia nazionale ha una tendenza al rialzo.

Sommando queste cifre anno per anno, otteniamo l’ammontare del deflusso netto di capitali dall’economia russa negli ultimi vent’anni. Si tratta di oltre 1.000 miliardi di dollari.

Pertanto, il governo non può considerare il deflusso di capitali come un fattore negativo per il funzionamento del modello economico russo. Al contrario, il settore privato aiuta il governo a raggiungere un importante obiettivo politico, caratteristico dei paesi periferici e semi-periferici, ovvero mantenere la valuta nazionale sottovalutata. Tuttavia, cosa significa questo per l’economia russa?

Infine, sostenere un particolare tasso di cambio della valuta nazionale non rende il paese più ricco o più povero. È solo uno strumento per ridistribuire i beni tra i partecipanti all’economia. Se il rublo è sottovalutato, le attività vengono sottratte agli importatori: ne risentono i consumatori comuni che acquistano prodotti stranieri, l’industria manifatturiera nazionale e, in particolare, l’agricoltura, che fa grande affidamento su macchinari, fertilizzanti, sementi, ecc. importati. Allo stesso tempo, gli esportatori russi (tra cui il 70% delle aziende produttrici di materie prime) “nuotano” nella liquidità del rublo, …

… Secondo il Servizio Federale delle Dogane, nel 2016. Il 47% delle importazioni russe era costituito da macchinari e attrezzature e il 18% da prodotti chimici. E sono proprio trattori e mietitrebbie, strumenti di trasporto e macchine utensili, fertilizzanti e prodotti chimici le componenti più importanti dei costi di produzione dei beni di consumo di base. Allo stesso tempo, le industrie delle materie prime sono diventate le principali beneficiarie del rublo a buon mercato. La quota di petrolio e gas nelle esportazioni nazionali, anche nel contesto di un calo di due volte del prezzo di queste materie prime, è del 60%. I settori delle materie prime, grazie alla loro elevata redditività, assorbono una quota crescente degli investimenti nell’economia nazionale, necessari per lo sviluppo di nuove aree [p. 18]. La posizione privilegiata dell’industria delle materie prime, dovuta alla sottovalutazione del rublo, fa sì che diventi più redditizio esportare carburante piuttosto che venderlo sul mercato interno. Questo porta a una carenza di offerta sul mercato interno e a un ulteriore aumento del prezzo del carburante e dei prodotti energetici. La sottovalutazione del rublo riduce l’efficacia dell’attrazione di prestiti in valuta estera e indebolisce il ruolo della Russia come investitore nell’economia globale, poiché le attività estere diventano troppo costose. In sintesi, scopriamo che i deflussi di capitale sono intrinseci alle economie della periferia globale, che hanno rapporti di cambio non equivalenti con i Paesi sviluppati.

Poiché la Russia fa ancora parte del sistema capitalistico mondiale, essendo un fornitore di materie prime, la lotta contro i deflussi di capitale sembra inutile e futile. Anche le richieste sempre più frequenti di restituzione dell’oro e delle riserve di valuta estera investite in titoli di paesi stranieri sollevano dubbi. Se l’attuale modello socio-economico (dominato dall’industria delle materie prime e aperto al mercato mondiale grazie all’adesione all’OMC) verrà mantenuto, il Paese subirà solo un calo dei proventi delle esportazioni e squilibri fiscali.

È impossibile cambiare un elemento mantenendo inalterato il sistema. La lotta contro i deflussi di capitale dalla Russia deve essere accompagnata dall’elaborazione di una nuova strategia per lo sviluppo dell’economia nazionale e la sua reindustrializzazione. Utilizzando i meccanismi di pianificazione, lo Stato dovrebbe concentrare le proprie risorse su alcune delle industrie più importanti, soprattutto quelle ad alta intensità di conoscenza. In questo caso, il trattenimento dei capitali che escono dalla Russia sarà una fonte di investimenti iniziali, mentre il rafforzamento del rublo permetterà a queste industrie di dotarsi rapidamente di attrezzature moderne e a basso costo. Quando queste industrie diventeranno più forti e competitive, la Russia sarà in grado di entrare nel mercato mondiale con un nuovo ruolo, rifornendosi di prodotti che attualmente importa in grandi quantità. Tuttavia, con l’attuale strategia socio-economica volta principalmente a proteggere gli interessi delle aziende produttrici di materie prime, l’attuazione di un simile progetto è discutibile.

Queste lunghissime citazioni sono purtroppo necessarie come spiegazione scientifica di ciò che sta accadendo nell’economia russa. Subito dopo l’imposizione delle sanzioni occidentali, abbiamo potuto osservare – e non è affatto una coincidenza – che il rublo è improvvisamente aumentato rispetto al dollaro e all’euro (da 80-90 a febbraio a 60, e prima ancora a 50 rubli per dollaro). I meccanismi di svalutazione del rublo hanno smesso di funzionare (si stanno riprendendo, secondo lo stesso Komolov, ed è per questo che non vediamo più una crescita della valuta russa – la Russia continua a esportare materie prime, semplicemente reindirizzando i flussi, il rublo dovrebbe scendere nell’interesse degli esportatori).

La Russia è quindi un tipico stato periferico capitalista. Una visione in bianco e nero sarebbe sbagliata, in quanto in Russia ci sono sia flussi di capitali in uscita che in entrata, ma i flussi di capitali in uscita sono chiaramente predominanti e la posizione di fornitore di materie prime a basso costo per l’Europa non è in alcun modo salutare o gratificante per il popolo russo. Putin non ha cambiato affatto questa situazione e anche la defunta URSS ha iniziato gradualmente a riprendere il ruolo di esportatore di materie prime[17], ma ovviamente l’URSS non aveva la fuga di capitali verso le banche occidentali o la proprietà privata di tali capitali.

La Russia è governata dalla borghesia dei compradores, i re delle materie prime, che hanno ben poco interesse all’integrità territoriale e all’indipendenza della Russia. Anche se la Federazione Russa venisse divisa in tante piccole entità e completamente saccheggiata, anche se le compagnie straniere ottenessero l’accesso diretto al petrolio e al gas, questi oligarchi otterrebbero comunque la loro parte di profitti e ne sarebbero felici. Hanno ville e castelli in Occidente, i loro figli sono stati educati in Occidente e in ogni caso non si sentono tanto russi quanto cittadini del mondo occidentale. Alcuni alti funzionari si comportano allo stesso modo e servono gli interessi di questi compradores.

Nell’entourage di Putin sembra esserci un’altra fazione di funzionari che sostiene politiche russe relativamente indipendenti. Il governo di Putin sta cercando di trovare alleati alternativi e di mantenere alcune conquiste sociali (sebbene anche in questo caso ci siano delle perdite, come l’aumento dell’età pensionabile o la “ottimizzazione” dell’istruzione e della sanità).

Sulla base dei fatti noti dell’accerchiamento della Russia da parte della NATO (posso fare riferimento all’eccellente articolo del compagno Kissel su Kommunistische Organisation,[18]) e delle politiche e della retorica generalmente aggressive, si può concludere che l’attuale situazione in Russia non è abbastanza vantaggiosa per l’imperialismo collettivo. Vuole ottenere le ricche risorse del nostro Paese in modo ancora più economico e senza alcuna condizione. Forse le aziende statunitensi vogliono solo conquistare e smantellare la Russia come meglio credono. Ecco perché l’Ucraina, così come diversi altri paesi limitrofi, hanno iniziato a trasformarsi in “basi militari” per la guerra contro la Russia.

Molto è già stato scritto sul contesto politico e sui dettagli dell’Operazione speciale e non voglio ripeterlo in questa sede.

Da tutto ciò che è stato scritto sopra, si possono trarre le seguenti conclusioni:

  1. La Russia è una periferia imperialista, la sua economia è sfruttata e ha poche possibilità di sviluppo; i profitti della Russia vanno principalmente agli imperialisti collettivi.
  2. Il governo russo, tuttavia, persegue una politica indipendente e vuole preservare almeno l’indipendenza politica, l’integrità territoriale e un certo tenore di vita per la popolazione.
  3. La grande borghesia russa è in gran parte una borghesia compradora, che favorisce l’imperialismo collettivo.
  4. La crisi in Ucraina è stata preparata dai servizi segreti dell’imperialismo collettivo fin dal 2014, e in realtà da molto prima, per mettere la Russia al suo posto politicamente e, se possibile, per smantellarla in modo che non possa più prendere decisioni indipendenti (niente armi nucleari, niente grande esercito, un territorio diviso, ecc.)
  5. Senza dubbio, le politiche degli imperialisti occidentali e della NATO sono estremamente pericolose anche per la classe operaia russa. La “vittoria” sulla Russia descritta sopra e la privazione della sua indipendenza significherebbero anche un massiccio deterioramento della classe operaia, dal punto di vista economico e politico (parola chiave “decomunistizzazione”).
  6. La classe operaia ucraina soffre già oggi di un regime fascista e totalmente dipendente, almeno dal 2014 (l’imperialismo collettivo vorrebbe vedere qualcosa di simile in Russia). Oltre a una pessima situazione sociale, all’anticomunismo e in parte (soprattutto nell’est e nel sud) al terrore fascista, secondo il Ministero della Difesa russo, gli imperialisti non hanno nemmeno smesso di condurre esperimenti biologici sulle persone nei laboratori della NATO. Naturalmente, l’attuale guerra sta portando grandi sofferenze al popolo ucraino. La fine di questa guerra è altamente auspicabile. Ma dato che la guerra è già iniziata, dovrebbe finire quando gli interessi di tutti i popoli coinvolti – Russia, Donbass e Ucraina – saranno tutelati, e non nell’interesse dell’imperialismo collettivo, che con il pretesto di una “lacrima di bambino” (Dostoevskij) vorrebbe ottenere la Crimea e l’accesso alla costa del Mar Nero, le ricche risorse del Donbass e della Tauride, e a lungo termine lo smembramento della Russia e la sua totale dipendenza.
  7. Questa guerra non può essere definita “inter-imperialista” perché è la più grande borghesia russa a non avere alcun interesse in questa guerra, come dimostrano le numerose dichiarazioni degli oligarchi e le fulminee partenze all’estero di Chubais, Prokhorov ad esempio, e altri super-ricchi. Non si tratta di una guerra condotta dagli “imperialisti russi”, ma di una guerra condotta dalla borghesia di orientamento nazionale e da funzionari patriottici, con un grande sostegno da parte del proletariato (75% di sostegno popolare secondo i sondaggi, un notevole movimento di volontari).

Si tratta di una guerra antimperialista difensiva.

  • Questa guerra sta rallentando le ambizioni globali degli imperialisti. In questo senso, qualsiasi equidistanza, qualsiasi condanna della Russia come “anche aggressore” e “anche imperialista” è un tradimento della solidarietà internazionale.

Oggi possiamo vedere con i nostri occhi come i popoli del mondo comprendono spontaneamente questa situazione: in Africa o nel lontano Perù, i combattenti antimperialisti sventolano improvvisamente bandiere russe e manifesti con le parole “Putin, intervieni!”“Russia, aiuta a proteggere la nostra patria!”. Percepiscono la Russia come un “compagno” in posizione periferica, ma con un esercito più forte, come una forza che sta dalla loro parte – contro l’imperialismo.

Naturalmente, non dobbiamo idealizzare la Russia in questo modo: la presenza di una potente classe di borghesi comprador le impedisce di portare avanti una politica antimperialista in modo coerente, da qui i numerosi fallimenti, le vacillazioni e i problemi riscontrati nell’Operazione Militare Speciale. Ma la posizione dei comunisti, che ogni giorno cercano “l’imperialismo russo” per non stare risolutamente dalla parte dei popoli in lotta, è debole e conciliante.

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* Il Partito comunista operaio russo (PCOR) ha pubblicato il testo (su ????.???/2023/02/18) con la seguente premessa:

«Continuiamo a informare i nostri lettori sulla controversia nel movimento comunista internazionale nella valutazione delle cause della guerra in Ucraina e, di conseguenza, delle tattiche proposte dai partiti comunisti.

Il lettore attento sa già che, secondo il Partito Comunista dei Lavoratori di Russia, la divergenza di opinioni è in gran parte dovuta all’errata interpretazione da parte di alcuni partiti della teoria leninista dell’imperialismo. C’è stata una ricca discussione teorica su questo argomento tra il PCOR e i compagni greci, i cui verbali sono disponibili sul nostro sito web e su Solidnet.

Oggi portiamo alla vostra attenzione un articolo di Jana Zawadzki del Partito Comunista di Germania, che non sembra aver seguito la discussione di cui sopra, ma ha pubblicato in modo indipendente un’analisi delle relazioni di lunga data dei compagni tedeschi con il Partito Comunista di Grecia (KKE) sullo stesso argomento, giungendo a conclusioni simili.

Ci auguriamo che questo materiale sia utile ai comunisti pensanti e che, come disse Lenin, “li aiuti a comprendere la questione economica fondamentale, senza lo studio della quale è impossibile capire qualcosa nella valutazione della guerra moderna e della politica moderna; vale a dire: la questione dell’essenza economica dell’imperialismo”».

[2] Vasilis Opsimos, “La teoria dell’imperialismo di Lenin e le sue distorsioni”.

[3] Nota dell’autrice che utilizza il testo tedesco fornito dallo stesso KKE.

[4]  V.I. Lenin, PSS, (Polnoe Sobranie Sochinenii – opere complete) vol. 41, p. 241. Discorso pronunciato al Secondo Congresso del Comintern.

[5] Stalin, Opere complete, vol. 8, p. 69, “Sulle prospettive della rivoluzione in Cina”.

[6] Kim Jong Il, Ausgewählte Werke T 1. Agosto 1960-Giugno 1964.

[7] Ernesto Che Guevara. “Messaggio ai popoli del mondo inviato alla Conferenza Tricontinentale” (skepsis.net)

[8] Michael Opperskalski. “Einige Thesen zur sogenannten ‘Neuen Weltordnung'”, in: “Imperialismus und anti-imperialistische Kämpfe in 21. Jahrhundert”, 28/29 ottobre 2020, Editore: Offensiv.

[9] E.Cervi, S.Vicario “Die Notwendigkeit der Klarheit über die ökonomische Struktur Russlands” (La necessità di chiarezza sulla struttura economica della Russia) in: Offensiv 02-2022.

[10] R. S. Dzarasov,  “Lo sviluppo nel mondo moderno. E’ possibile un capitalismo a orientamento nazionale?”. In: “Economia della metropoli e delle regioni”, 2013 ? 1(48), p. 8-35.

[11] Lenin, L’imperialismo come fase suprema del capitalismo, PSS T. 27, p. 299.

[12] Samir Amin. “L’imperialismo americano, l’Europa e il Medio Oriente”. 2004. (archive.org).

[13] Statista.de de.statista/statistik/daten/studie/157935/umfrage/laender-mit-den-hoechsten-militaerausgaben/ (paesi con le maggiori spese militari),

[14] F. Engels. Prefazione all’edizione tedesca de “La condizione della classe operaia in Inghilterra”, 1892.

[15] V.I. Lenin, “Congresso Internazionale dei Socialisti a Stoccarda”, PSS, vol. 16, p. 79.

[16] Il testo è reperibile dalla biblioteca elettronica CyberLeninka (cyberleninka.ru).

[17]  Commercio estero dell’URSS | Progetto “Materiali storici” (istmat.org).

[18] F.Kissel, Zur Kritik am “Joint Statement” und zur NATO-Aggression gegen Russland, Kommunistische Organisation

 

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