Il Sudafrica porta Israele a giudizio per genocidio – le motivazioni

L’Unità2 – 12/01/2024

IL SUDAFRICA PORTA A GIUDIZIO ISRAELE PER GENOCIDIO. LE MOTIVAZIONI – l’Unità2 (unita2.org)

 

L’APARTHEID DI ISRAELE CONTRO LA POPOLAZIONE PALESTINESE: UN CRUDELE SISTEMA DI DOMINAZIONE E UN CRIMINE CONTRO L’UMANITÀ

SINTESI
“Israele non è uno stato di tutti i suoi cittadini… [piuttosto] lo stato-nazione del popolo ebraico e solo
loro”
Messaggio pubblicato online nel marzo 2019 dall’allora primo ministro israeliano, Benjamin
Netanyahu
Il 18 maggio 2021, la popolazione palestinese in tutte le città e i villaggi in Israele, Cisgiordania
occupata e Striscia di Gaza hanno chiuso uffici, negozi, ristoranti e scuole, hanno lasciato i cantieri
e si sono rifiutati di presentarsi al lavoro per l’intera giornata. In una dimostrazione di unità che non
si vedeva da decenni, hanno sfidato la frammentazione territoriale e la segregazione che affrontano
nella loro vita quotidiana e hanno osservato uno sciopero generale per protestare contro la loro comune
repressione da parte di Israele.
La scintilla per lo sciopero è stato il piano delle autorità israeliane di sgomberare sette famiglie
palestinesi dalle loro case a Sheikh Jarrah, un quartiere residenziale palestinese vicino alla Città
vecchia di Gerusalemme est, che è stato ripetutamente preso di mira dalla campagna di Israele per
espandere gli insediamenti illegali e trasferire coloni ebrei. Per fermare la minaccia di sgombro, le
famiglie palestinesi hanno lanciato una campagna sui social media sotto l’hashta.

Save Sheikh Jarrah, attirando l’attenzione mondiale e mobilitando manifestanti in strada

Le forze di sicurezza israeliane hanno risposto alle proteste con lo stesso uso eccessivo della forza che usano per
reprimere il dissenso palestinese da decenni. Hanno arrestato arbitrariamente manifestanti pacifici,
lanciato granate sonore e assordanti contro la folla, che è stata dispersa con un uso eccessivo della
forza, spruzzando acqua maleodorante e sparando granate stordenti contro fedeli e manifestanti riuniti
nel complesso della moschea di Al-Aqsa.
La brutale repressione ha generato un’ondata di solidarietà altrove, nei Territori palestinesi occupati
(in seguito Tpo) e tra i cittadini palestinesi di Israele, attraverso la Linea verde (la linea di
demarcazione stabilita negli accordi di armistizio del 1949 tra Israele e i suoi vicini che fungeva da
confine de facto dello Stato di Israele fino al 1967). In Israele, le forze di polizia hanno orchestrato
una campagna discriminatoria contro i palestinesi che ha comportato arresti arbitrari di massa e uso
eccessivo della forza contro manifestanti pacifici, mentre non sono riusciti a proteggere i palestinesi
dagli assalti organizzati da parte di aggressori ebrei in seguito allo scoppio della violenza tra le
comunità. Nel frattempo, il 10 maggio sono scoppiate ostilità armate quando gruppi armati palestinesi
hanno lanciato indiscriminatamente razzi su Israele da Gaza. Israele ha risposto con una spietata
offensiva militare di 11 giorni contro il territorio, prendendo di mira le case residenziali senza un
effettivo preavviso, danneggiando le infrastrutture essenziali, sfollando decine di migliaia di persone
e uccidendo e ferendone centinaia di altre. Ha quindi esacerbato la crisi umanitaria cronica causata
principalmente dal blocco illegale di lunga data da parte di Israele.
Per molti palestinesi che hanno partecipato allo sciopero generale in Israele e nei Tpo, queste azioni
discriminatorie e repressive a Gerusalemme est, nella Striscia di Gaza e nelle città e paesi palestinesi,
così come nelle “città miste” con popolazioni ebraiche e palestinesi, rappresentano forme diverse del
sistema globale di oppressione e dominio da parte di Israele. Questo sistema, che opera con vari livelli
di intensità e repressione in base allo status dei palestinesi nelle enclavi separate in cui vivono oggi,
e viola i loro diritti in modi diversi, cerca in definitiva di stabilire e mantenere l’egemonia ebraica
ovunque Israele eserciti un controllo effettivo. Uscendo per protestare, esprimevano unità e rifiuto
della frammentazione israeliana del popolo palestinese. Un manifesto pubblicato sui social media da
alcuni attivisti lo stesso giorno denunciava le pratiche e le politiche israeliane di lunga data che
“hanno cercato di trasformare [i palestinesi] in società diverse, ognuna delle quali vive per sé,
ciascuna nella propria prigione separata”.
I palestinesi chiedono il riconoscimento del fatto che il governo israeliano esercita una forma di
apartheid da oltre due decenni e sono stati i principali promotori di tale istanza presso le Nazioni
Unite. Nel tempo, la ricerca condotta dalle organizzazioni palestinesi per i diritti umani e, più
recentemente, da alcuni gruppi israeliani per i diritti umani, ha contribuito a un più ampio
riconoscimento internazionale del trattamento riservato da Israele ai palestinesi come apartheid.
Eppure gli stati, in particolare gli alleati occidentali di Israele, sono riluttanti a dare ascolto a queste
richieste e si sono rifiutati di intraprendere qualsiasi azione significativa contro Israele. Nel frattempo,
le organizzazioni palestinesi e i difensori dei diritti umani che hanno guidato gli sforzi di difesa e le
campagne contro l’apartheid hanno affrontato per anni una crescente repressione israeliana come
punizione per il loro lavoro. Nell’ottobre 2021, le autorità israeliane hanno intensificato ulteriormente
i loro attacchi alla società civile palestinese abusando della legislazione antiterrorismo per mettere
fuori legge sei importanti organizzazioni, tra cui tre importanti gruppi per i diritti umani, per chiudere
i loro uffici e per detenere e perseguire i loro dipendenti. Parallelamente, Israele ha sottoposto le
organizzazioni israeliane che denunciano l’apartheid e altre gravi violazioni dei diritti umani contro i
palestinesi a campagne di diffamazioni e di delegittimazione.
Basandosi su un corpus di lavoro in crescita, Amnesty International ha documentato e analizzato la
discriminazione istituzionalizzata e sistematica di Israele contro i palestinesi nel quadro della
definizione di apartheid secondo il diritto internazionale. Ciò ha lo scopo di determinare se le leggi,
le politiche e le pratiche discriminatorie ed escludenti israeliane contro i palestinesi costituiscano
apartheid come una violazione del diritto internazionale, una grave violazione dei diritti umani e un
crimine contro l’umanità. Lo ha fatto determinando in primo luogo l’intenzione di Israele di opprimere
e dominare tutti i palestinesi, stabilendo la sua egemonia su Israele e sui Tpo, anche attraverso mezzi
demografici, e massimizzando le risorse a beneficio della sua popolazione ebraica a spese dei
palestinesi. Ha quindi analizzato le leggi, le politiche e le pratiche che, nel tempo, sono diventate i
principali strumenti per stabilire e mantenere questo sistema e che oggi discriminano e segregano i
palestinesi in Israele e nei Territori occupati, oltre a controllare il diritto al ritorno dei profughi
palestinesi. Ha condotto questa analisi esaminando le componenti chiave di questo sistema di
oppressione e dominio: la frammentazione territoriale; la segregazione e il controllo attraverso la
negazione della parità di nazionalità e status, le restrizioni alla circolazione, le leggi discriminatorie
sul ricongiungimento familiare, l’uso del governo militare e le restrizioni al diritto alla partecipazione
politica e alla resistenza popolare; le espropriazione di terreni e proprietà; e la repressione dello
sviluppo umano dei palestinesi e la negazione dei loro diritti economici e sociali. Inoltre, ha
documentato specifici atti disumani, gravi violazioni dei diritti umani e crimini di diritto internazionale
commessi contro la popolazione palestinese con l’intento di mantenere questo sistema di oppressione
e dominio.
In questo modo, Amnesty International ha dimostrato che Israele ha imposto un sistema di
oppressione e dominio nei confronti dei palestinesi, ovunque eserciti il controllo sul godimento dei
loro diritti: in Israele, nei Tpo e sui rifugiati palestinesi. La segregazione è condotta in modo
sistematico e altamente istituzionalizzato attraverso leggi, politiche e pratiche, tutte tese a impedire
ai palestinesi di rivendicare e godere di diritti pari a quelli degli ebrei israeliani all’interno di Israele
e dei Tpo, e quindi tese a opprimere e dominare il popolo palestinese. Questa oppressione e dominio
sono state cementate da un regime legale che controlla (negando) i diritti dei rifugiati palestinesi che
risiedono fuori Israele e i Tpo di tornare alle loro case. Nel corso dei decenni, le analisi demografiche
e geopolitiche israeliane hanno plasmato in modi diversi le politiche nei confronti dei palestinesi in
ciascuna delle diverse aree di Israele, Gerusalemme est, il resto della Cisgiordania e la Striscia di
Gaza. Ciò significa che, oggi, il sistema di controllo israeliano non è applicato in modo uniforme in
tutte le aree. I palestinesi sperimentano questo sistema in modi diversi e affrontano diversi livelli di
repressione in base al loro status e all’area in cui vivono.
L’organizzazione ha concluso che Israele ha perpetrato il reato internazionale di apartheid, come
violazione dei diritti umani e violazione del diritto pubblico internazionale, ovunque imponga questo
sistema. Ha valutato che quasi tutta l’amministrazione civile e le autorità militari israeliane, così
come le istituzioni governative e semi-governative, sono coinvolte nell’applicazione del sistema di
apartheid contro i palestinesi in Israele e nei Tpo e contro i rifugiati palestinesi e i loro discendenti
al di fuori del territorio. Amnesty International ha inoltre concluso che i modelli di atti proscritti
perpetuati da Israele sia all’interno di Israele che nei Tpo fanno parte di un attacco sistematico e
diffuso diretto contro la popolazione palestinese e che gli atti disumani commessi nel contesto di
questi attacchi sono stati commessi con l’intenzione di mantenere questo sistema e costituiscono il
crimine contro l’umanità dell’apartheid sia ai sensi della Convenzione sull’apartheid che dello Statuto
di Roma.
Questo lavoro si basa su decenni di ricerche da remoto e sul campo di Amnesty International che
raccolgono prove di violazioni dei diritti umani internazionali e del diritto umanitario in Israele e nei
Tpo, e su pubblicazioni di organizzazioni palestinesi, israeliane e internazionali, oltre a studi
accademici, monitoraggio da parte di gruppi di attivisti locali, rapporti di agenzie delle Nazioni Unite,
esperti e organismi per i diritti umani e articoli della stampa.
Amnesty International ha svolto ricerche e analisi nel corso di questo lavoro tra luglio 2017 e
novembre 2021. I ricercatori hanno analizzato in modo approfondito la legislazione, i regolamenti, gli
ordini militari, le direttive delle istituzioni governative e le dichiarazioni del governo israeliano e dei
funzionari militari pertinenti israeliani. L’organizzazione ha esaminato altri documenti del governo
israeliano, come i documenti di pianificazione e piani di zonizzazione, bilanci e statistiche, archivi
parlamentari israeliani e sentenze dei tribunali israeliani. Ha inoltre esaminato i rapporti e le
statistiche pertinenti pubblicati dalle autorità palestinesi. La ricerca è stata guidata da una policy
globale sulla violazione dei diritti umani e il crimine di apartheid adottata da Amnesty International
nel luglio 2017, a seguito del riconoscimento che l’organizzazione non aveva prestato sufficiente
attenzione alle situazioni di discriminazione e oppressione sistematiche in tutto il mondo.
Nell’ambito della sua ricerca, Amnesty International ha parlato con rappresentanti di organizzazioni
non governative (Ong) palestinesi, israeliane e internazionali, agenzie delle Nazioni Unite competenti,
professionisti del diritto, studiosi e accademici, giornalisti e altre parti interessate. Inoltre, ha
condotto un’ampia analisi giuridica sulla situazione, compreso il coinvolgimento e la consultazione di
esperti esterni in materia di diritto internazionale.
Il lavoro di Amnesty International su questo tema mira a sostenere la società civile palestinese e le
organizzazioni israeliane nei loro sforzi per porre fine all’oppressione e al dominio di Israele sui
palestinesi in un momento in cui il loro lavoro è sempre più minacciato. In tal modo, spera anche di
contribuire a una maggiore comprensione e riconoscimento della discriminazione istituzionalizzata
commessa in Israele e nei Tpo e contro i rifugiati palestinesi come sistema e crimine di apartheid.

L’APARTHEID NEL DIRITTO INTERNAZIONALE
L’apartheid è una violazione del diritto pubblico internazionale, una grave violazione dei diritti umani
protetti a livello internazionale e un crimine contro l’umanità ai sensi del diritto penale internazionale.
Tre principali trattati internazionali vietano e/o criminalizzano esplicitamente l’apartheid: la
Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale (Icerd), la
Convenzione internazionale sulla repressione e la punizione del crimine di apartheid (Convenzione
sull’apartheid) e lo Statuto di Roma del Tribunale Penale Internazionale (Statuto di Roma).
Il crimine contro l’umanità dell’apartheid ai sensi della Convenzione sull’apartheid, dello Statuto di
Roma e del diritto internazionale consuetudinario viene commesso quando un atto crudele o disumano
(essenzialmente una grave violazione dei diritti umani) è perpetrato nel contesto di un regime
istituzionalizzato di oppressione sistematica e dominio da parte di un gruppo razziale rispetto a un
altro, con l’intenzione di mantenere quel sistema. Un regime di oppressione e dominio può essere
meglio inteso come il trattamento discriminatorio sistematico, prolungato e crudele da parte di un
gruppo razziale di persone nei confronti di un altro con l’intenzione di controllare il secondo gruppo
razziale.
Pertanto, il crimine contro l’umanità dell’apartheid viene commesso quando vengono commesse gravi
violazioni dei diritti umani in un contesto, e con l’intento specifico, di mantenere un regime o un
sistema di controllo discriminatorio prolungato e crudele di uno o più gruppi razziali da parte di un
altro.
Il quadro dell’apartheid consente una comprensione globale, fondata sul diritto internazionale, di una
situazione di segregazione, oppressione e dominio di un gruppo razziale sull’altro. Amnesty
International rileva e chiarisce che i sistemi di oppressione e dominio non saranno mai identici.
Pertanto, non cerca di sostenere che, o di valutare se, qualsiasi sistema di oppressione e dominio
perpetrato in Israele e nei Tpo sia, ad esempio, lo stesso o analogo al sistema di segregazione,
oppressione e dominio perpetrato in Sud Africa tra il 1948 e il 1994.
Per determinare se Israele ha creato e mantenuto un regime istituzionalizzato di oppressione e
dominio sistematici, Amnesty International ha esaminato il modo in cui Israele esercita il controllo
sul popolo palestinese. Ha anche preso in considerazione una serie di gravi violazioni dei diritti umani
che costituirebbero il crimine contro l’umanità dell’apartheid se commesse con l’intenzione di
mantenere un tale sistema di oppressione e dominio.

INTENZIONE DI OPPRIMERE E DOMINARE I PALESTINESI
Dalla sua istituzione nel 1948, Israele ha perseguito la politica esplicita di stabilire e mantenere
un’egemonia demografica ebraica e di massimizzare il suo controllo sulla terra a beneficio degli ebrei
israeliani riducendo al minimo il numero di palestinesi, limitando i loro diritti e ostacolando la loro
capacità opporsi a questo spossessamento. Nel 1967 Israele ha esteso questa politica oltre la Linea
verde alla Cisgiordania e alla Striscia di Gaza, occupata da allora. Oggi, tutti i territori controllati da
Israele continuano a essere amministrati con lo scopo di avvantaggiare gli ebrei israeliani a scapito
dei palestinesi, mentre i profughi palestinesi continuano ad essere esclusi.
Considerazioni demografiche hanno guidato fin dall’inizio la legislazione e la definizione delle
politiche israeliane. La demografia dello stato appena creato doveva essere modificata a beneficio
degli ebrei israeliani, mentre i palestinesi – sia all’interno di Israele che, in seguito, dei Tpo – erano
percepiti come una minaccia per stabilire e mantenere una maggioranza ebraica e, di conseguenza,
dovevano essere espulsi, frammentati, segregati, controllati, espropriati delle loro terre e proprietà e
privati dei loro diritti economici e sociali.
Gli ebrei israeliani formano un gruppo unificato da uno status giuridico privilegiato incorporato nella
legge israeliana, che si estende a loro attraverso servizi e protezioni statali indipendentemente da
dove risiedono nei territori sotto il controllo effettivo di Israele. L’identità ebraica dello Stato di Israele
è stata stabilita nelle sue leggi e nella pratica delle sue istituzioni ufficiali e nazionali. Le leggi
israeliane percepiscono e trattano l’identità ebraica, a seconda del contesto, come un’identità
religiosa, discendente e/o nazionale o etnica.
Le palestinesi e i palestinesi sono trattati dallo stato israeliano in modo diverso perché razzializzati
come non ebraici, bensì arabi, e, oltre a ciò, come parte di un gruppo con caratteristiche particolari
che è diverso da altri gruppi non ebrei. Per quanto riguarda i cittadini palestinesi di Israele, il
ministero degli Affari esteri israeliano li classifica ufficialmente come “cittadini arabi di Israele”, un
termine inclusivo che descrive una serie di gruppi diversi e principalmente di lingua araba, inclusi gli
arabi musulmani (questa classificazione include i beduini), arabi cristiani, drusi e circassi. Tuttavia,
nei discorsi pubblici, le autorità e i media israeliani generalmente si riferiscono solo agli arabi
musulmani e agli arabi cristiani – coloro che generalmente si autoidentificano come palestinesi –
quando parlano di arabi israeliani e li associano ai palestinesi che vivono nei Tpo e oltre; usano invece
i termini specifici drusi e circassi per questi altri gruppi non ebrei. Le autorità considerano anche
chiaramente i cittadini palestinesi di Israele come un unico gruppo diverso dai drusi e dai circassi
poiché esentano solo questo gruppo dal servizio militare in “considerazione delle loro affiliazioni
familiari, religiose e culturali con il mondo arabo (che ha sottoposto Israele a frequenti attacchi), così
come la preoccupazione per possibili doppie lealtà”.
Nel maggio 1948, la Dichiarazione di istituzione dello Stato di Israele proclamò uno stato ebraico.
Sebbene garantisse il diritto alla “completa uguaglianza dei diritti sociali e politici a tutti i suoi
abitanti”, tale diritto non è stato garantito nelle Leggi fondamentali, che agiscono come atti
costituzionali in assenza di una costituzione scritta. La Dichiarazione del 1948, insieme a istituire
Israele come stato ebraico, ha fatto appello al popolo ebraico di tutto il mondo a immigrare in Israele.
Nel 1950, Israele ha concesso a ogni ebreo ed ebrea il diritto di immigrare in Israele ai sensi della
Legge del ritorno, seguito dal diritto alla cittadinanza israeliana automatica ai sensi della Legge sulla
nazionalità del 1952. Le autorità israeliane hanno visto questa scelta in parte come misura necessaria
per impedire un altro tentativo di sterminio degli ebrei sulla scia dell’Olocausto e per fornire riparo
agli ebrei che affrontavano persecuzioni in altre parti del mondo. Nel frattempo, a centinaia di migliaia
di profughi palestinesi sfollati durante il conflitto del 1947-49 è stato impedito di tornare alle loro
case sulla base di considerazioni demografiche. L’essenza del sistema di oppressione e dominio sui
palestinesi è stata chiaramente cristallizzata nella legge sullo stato nazionale del 2018, che ha sancito
il principio che lo “Stato di Israele è lo Stato nazione del popolo ebraico” e che il diritto
all’autodeterminazione è esclusivo “del popolo ebraico”.
Parallelamente, le dichiarazioni di importanti politici israeliani e di alti funzionari civili e militari nel
corso degli anni confermano l’intenzione di Israele di mantenere una maggioranza demografica
ebraica e di opprimere e dominare i palestinesi. Dal 1948, indipendentemente dalle loro affiliazioni
politiche, hanno pubblicamente sottolineato l’obiettivo generale di mantenere l’identità di Israele
come stato ebraico e hanno dichiarato la loro intenzione di ridurre al minimo l’accesso e il controllo
dei palestinesi sulla terra in tutti i territori sotto il controllo effettivo di Israele. Lo hanno fatto
sequestrando le case dei palestinesi e le proprietà e limitandoli di fatto a vivere in enclavi attraverso
pianificazioni e politiche abitative discriminatorie. L’intento discriminatorio di dominare i cittadini e
le cittadine palestinesi in Israele si manifesta anche attraverso dichiarazioni che indicano chiaramente
la necessità di una struttura di cittadinanza separata e diseguale e la negazione del diritto dei
palestinesi al ricongiungimento familiare come mezzo per controllare la demografia.
È altrettanto chiara l’intenzione di dominare e controllare la popolazione palestinese nei Tpo attraverso
politiche discriminatorie in materia di terra, pianificazione abitativa e edilizia, nonché la negazione
di qualsiasi sviluppo agricolo o industriale a beneficio dei palestinesi. Dall’annessione di
Gerusalemme est nel 1967, i governi israeliani hanno fissato obiettivi per il rapporto demografico tra
ebrei e palestinesi a Gerusalemme nel suo insieme e hanno chiarito attraverso dichiarazioni pubbliche
che la negazione dei diritti economici e sociali ai palestinesi a Gerusalemme est è un atto politico
intenzionale per costringerli a lasciare la città. Il ritiro da parte di Israele dei suoi coloni da Gaza, pur
mantenendo il controllo sulla popolazione nel territorio in altri modi, era espressamente legato anche
a questioni demografiche e alla consapevolezza che lì non si poteva raggiungere una maggioranza
ebraica. Infine, i materiali pubblici pubblicati dal governo israeliano rendono ovvio che la politica di
lunga data di Israele di privare milioni di rifugiati palestinesi del diritto di tornare alle loro case è
guidata anche da considerazioni demografiche.

FRAMMENTAZIONE TERRITORIALE E SEGREGAZIONE GIURIDICA
Nel corso della creazione di Israele come stato ebraico nel 1948, i suoi leader furono responsabili
dell’espulsione di massa di centinaia di migliaia di palestinesi e della distruzione di centinaia di
villaggi palestinesi in quella che costituiva una pulizia etnica. Hanno scelto di costringere i palestinesi
nelle enclavi all’interno dello Stato di Israele e, dopo la loro occupazione militare nel 1967, in
Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Si sono appropriati della stragrande maggioranza della terra e
delle risorse naturali dei palestinesi. Hanno introdotto leggi, politiche e pratiche che discriminano
sistematicamente e crudelmente i palestinesi, lasciandoli frammentati geograficamente e
politicamente, in un costante stato di paura e insicurezza, e spesso impoveriti.
Nel frattempo, i leader israeliani hanno scelto di privilegiare sistematicamente i cittadini ebrei nella
legge e nella pratica attraverso la distribuzione di terra e risorse, con conseguente loro relativa
ricchezza e benessere a spese dei palestinesi. Hanno costantemente ampliato gli insediamenti ebraici
nei territori palestinesi occupati in violazione del diritto internazionale.
Nel 1948, prima della fondazione di Israele, i palestinesi costituivano circa il 70 per cento della
popolazione della Palestina (allora territorio del mandato britannico) e possedevano circa il 90 per
cento della terra di proprietà privata. Gli ebrei, molti dei quali emigrati dall’Europa, costituivano circa
il 30 per cento della popolazione e loro e le istituzioni ebraiche possedevano circa il 6,5 per cento
della terra.
Le autorità israeliane hanno agito per capovolgere questa situazione. Alcuni di coloro che fuggirono
dalle loro case durante il conflitto del 1947-49 furono sfollati internamente dai loro villaggi, paesi e
città verso altre parti di quello che divenne Israele. Altri sono fuggiti in diverse parti di quella che
allora era la Palestina del mandato britannico (il 22 per cento della quale è caduta sotto il controllo
della Giordania e dell’Egitto in seguito al conflitto – quelli che ora sono i Tpo). La maggior parte degli
altri è fuggita nei vicini paesi arabi di Giordania, Siria e Libano. Israele impedisce a questi rifugiati
palestinesi, ai loro discendenti, nonché agli sfollati interni all’interno di Israele, di tornare ai loro
precedenti luoghi di residenza.
I palestinesi si sono ulteriormente frammentati dopo la guerra del giugno 1967, che ha portato
all’occupazione militare israeliana della Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est, e della Striscia di
Gaza, alla creazione di un regime giuridico e amministrativo separato per controllare i territori occupati
e a un’altra ondata di spostamento di popolazione palestinese.
Il nuovo regime militare nei Tpo è stato stabilito in cima a un sistema legale stratificato e preesistente
composto da leggi ottomane, britanniche, giordane ed egiziane, eredità delle potenze che in
precedenza avevano controllato l’area. Nel 1994, gli accordi di Oslo tra Israele e l’Organizzazione per
la liberazione della Palestina (Olp) hanno creato l’Autorità palestinese e le hanno concesso un
controllo limitato sugli affari civili palestinesi nei centri urbani. Oltre a non riuscire a porre fine
all’occupazione, gli accordi di Oslo hanno diviso la Cisgiordania in tre diverse aree amministrative,
con diversi livelli di giurisdizione militare e civile palestinese e israeliana, frammentando e segregando
ulteriormente i palestinesi a vantaggio di Israele. Anche se Israele ha ritirato i coloni israeliani dall
Striscia di Gaza nel 2005, ha mantenuto il controllo effettivo sul territorio, che ha rafforzato
ulteriormente attraverso un blocco illegale aereo, marittimo e terrestre e una politica ufficiale che
separa Gaza dalla Cisgiordania, in seguito all’acquisizione del territorio da parte di Hamas due anni
dopo. Di conseguenza, l’intera Cisgiordania e la Striscia di Gaza rimangono sotto l’occupazione
militare israeliana, con Israele che controlla la popolazione palestinese che vi vive, le loro risorse
naturali e, fatta eccezione per il breve confine meridionale di Gaza con l’Egitto, i loro confini terrestri
e marittimi e spazio aereo. Due insiemi di quadri giuridici internazionali complementari continuano
ad applicarsi alla condotta di Israele come potenza occupante con un controllo effettivo sui Tpo: il
diritto internazionale dei diritti umani e il diritto internazionale umanitario.
I palestinesi dei Tpo che vivono sotto queste giurisdizioni separate necessitano dei permessi delle
autorità israeliane per attraversarle – da e per la Striscia di Gaza; da Gerusalemme est occupata e il
resto della Cisgiordania – e sono anche separati dai cittadini palestinesi di Israele, sia
geograficamente sia in base al loro status. Nel frattempo, i rifugiati palestinesi sfollati durante i
conflitti del 1947-49 e del 1967 continuano a essere fisicamente isolati da coloro che risiedono in
Israele e nei Territori occupati a causa della continua negazione da parte di Israele del loro diritto di
tornare alle loro case, città e villaggi.
I palestinesi di Israele sono soggetti alle leggi civili israeliane, che in generale offrono loro maggiori
libertà e protezione dei diritti umani rispetto ai palestinesi che vivono nei Tpo, ma ciononostante
negano loro uguali diritti con gli ebrei israeliani (compresa la partecipazione politica) e ne
istituzionalizzano la discriminazione. Ai palestinesi nella Gerusalemme est occupata che vivono sotto
la legge civile israeliana viene concessa la residenza permanente anziché la cittadinanza. I palestinesi
nel resto della Cisgiordania rimangono soggetti al governo militare israeliano e agli ordini militari
draconiani adottati dal 1967. La stragrande maggioranza di questi ordini non si applica più alla
Striscia di Gaza dopo che Israele ha rimosso la maggior parte degli aspetti del suo governo militare lì
con il ritiro dei coloni nel 2005. I palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza sono inoltre
soggetti alle leggi palestinesi.
Oggi i cittadini palestinesi e i residenti permanenti di Israele costituiscono circa il 21 per cento della
popolazione israeliana e sono circa 1,9 milioni. Circa il 90 per cento dei palestinesi con cittadinanza
israeliana vive in 139 città e villaggi densamente popolati nelle regioni della Galilea e del Triangolo
nel nord di Israele e nella regione del Negev/Naqab nel sud, come risultato di deliberate politiche di
segregazione. La stragrande maggioranza del restante 10 per cento vive in “città miste”.
A luglio 2021, c’erano 358.800 residenti palestinesi entro i confini del comune di Gerusalemme,
che comprendevano il 38 per cento della popolazione della città. Di questi, circa 150.000 vivevano
in aree segregate dal resto della città dalla recinzione/muro e da altri posti di blocco militari. Circa
225.178 coloni ebrei israeliani vivevano anche a Gerusalemme est in 13 insediamenti illegali costruiti
dalle autorità israeliane e in case private sottratte ai palestinesi nell’ambito di schemi discriminatori.
Circa tre milioni di palestinesi vivono nel resto della Cisgiordania, oltre a 441.600 coloni ebrei
residenti in 132 insediamenti ufficialmente stabiliti dal governo israeliano, nonché 140 avamposti
non autorizzati che sono stati stabiliti dagli anni Novanta senza l’approvazione del governo e sono
considerati illegali anche dalla legge israeliana. Nella Striscia di Gaza vivono circa 2 milioni di
palestinesi. Di questi, circa 1,4 milioni (oltre il 70 per cento della popolazione) sono rifugiati registrati
presso l’Agenzia delle Nazioni unite per il soccorso e il lavoro per i rifugiati palestinesi nel vicino
oriente (Unrwa).


SEGREGAZIONE E CONTROLLO LEGALI
Il controllo di Israele sui Tpo attraverso ordini militari nel contesto della sua occupazione ha dato
origine a una falsa percezione che il regime militare nei Tpo sia separato dal sistema civile nella
Gerusalemme est occupata e all’interno di Israele. Questo punto di vista ignora il fatto che molti
elementi del sistema militare repressivo israeliano nei Tpo hanno origine nei 18 anni di governo
militare di Israele sui cittadini palestinesi di Israele e che lo spossessamento nei confronti dei
palestinesi in Israele continua ancora oggi.
L’esistenza stessa di questi regimi legali separati, tuttavia, è uno dei principali strumenti attraverso i
quali Israele frammenta i palestinesi e rafforza il suo sistema di oppressione e dominio, e serve, come
notato dalla Commissione economica e sociale delle Nazioni unite per l’Asia occidentale (Escwa),
“per oscurare l’esistenza stessa del regime [dell’apartheid israeliano]”. In effetti, le politiche
israeliane mirano a frammentare i palestinesi in diversi domini geografici e legali di controllo non solo
per trattarli in modo diverso, o per separarli, dalla popolazione ebraica, ma anche per trattarli in modo
diverso l’uno dall’altro al fine di indebolire i legami tra le comunità palestinesi, per sopprimere
qualsiasi forma di dissenso prolungato contro il sistema che hanno creato e garantire un controllo
politico e di sicurezza più efficace sulla terra e sulle persone in tutti i territori.

UTILIZZO DEL DOMINIO MILITARE PER IL CONTROLLO E LO SPOSSESSAMENTO
Nel corso degli anni, Israele ha utilizzato il controllo militare come strumento chiave per stabilire il
suo sistema di oppressione e dominio sui palestinesi su entrambi i lati della Linea verde, applicandolo
quasi continuamente a diversi gruppi di palestinesi in Israele e nei Tpo dal 1948, con l’eccezione di
un intervallo di sette mesi nel 1967 – per far avanzare l’insediamento ebraico in aree di importanza
strategica e per spossessare i palestinesi delle loro terre e proprietà con il pretesto di mantenere la
sicurezza.
Israele ha posto i palestinesi sotto il suo controllo militare per i primi 18 anni della sua esistenza
(1948-1966) e durante quel periodo ha utilizzato i regolamenti britannici di difesa del mandato (di
emergenza) che hanno concesso loro poteri illimitati per controllare il movimento dei residenti
palestinesi, confiscare le loro proprietà, consentire la chiusura di interi villaggi come zone militari,
demolirne le case e processarli davanti ai tribunali militari. I palestinesi necessitavano di permessi
per lasciare le loro aree di residenza, incluso per accedere alle cure mediche e al lavoro. Le istituzioni
statali israeliane hanno posto i palestinesi sotto un sistema di sorveglianza e controllo che ha
deliberatamente limitato le loro libertà politiche vietando le proteste e arrestando attivisti politici a
causa delle loro attività politiche.
Israele alla fine ha abolito il suo controllo militare sui cittadini palestinesi nel dicembre 1966 dopo
aver impedito con successo ai palestinesi sfollati interni di tornare alle loro case in villaggi vuoti,
distruggendoli e sottoponendo la loro terra alla forestazione. Sebbene le restrizioni alla circolazione
siano state progressivamente rimosse e la situazione dei diritti umani dei cittadini palestinesi di
Israele sia indubbiamente notevolmente migliorata dalla fine del governo militare su di loro, elementi
del sistema sono rimasti. Le norme di emergenza non sono mai state abrogate e, a partire dal 1967,
la loro applicazione fu estesa alla Cisgiordania occupata (esclusa Gerusalemme est occupata) e alla
Striscia di Gaza per controllare la popolazione palestinese lì, prevenire qualsiasi forma di dissenso e
consentire allo stato israeliano di spossessare i palestinesi della loro terra e delle loro risorse. Al di là
della legislazione, l’esperienza accumulata dalle autorità israeliane durante il controllo militare sui
cittadini palestinesi di Israele ha costituito la base per l’amministrazione militare nei Tpo.
Nonostante l’istituzione dell’Autorità palestinese, più di 1800 ordini militari israeliani continuano a
controllare e limitare tutti gli aspetti della vita delle e dei palestinesi in Cisgiordania: i loro mezzi di
sussistenza, status, movimento, attivismo politico, detenzione e stato di accusa, accesso alle risorse
naturali. La legislazione militare israeliana in Cisgiordania è applicata dal sistema giudiziario militare.
Dal 1967, le autorità israeliane hanno arrestato oltre 800.000 uomini, donne e bambini palestinesi
in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est e la Striscia di Gaza, portando molti di loro davanti a
tribunali militari che sistematicamente non rispettano gli standard internazionali di equo processo e
dove la stragrande maggioranza dei casi si conclude con la condanna.
I palestinesi della Striscia di Gaza sono stati soggetti alla legislazione militare israeliana e processati
davanti a tribunali militari fino a quando Israele non ha smantellato i suoi insediamenti nel 2005. Da
allora, elementi del diritto militare israeliano hanno continuato ad applicarsi nell’area per quanto
riguarda il movimento di persone e merci dentro e fuori da Gaza, l’accesso alle acque territoriali e la
“zona cuscinetto” lungo la recinzione che separa Israele da Gaza.
Al contrario, i coloni ebrei sono stati esentati dagli ordini militari che governano i palestinesi dalla
fine degli anni Settanta, dopo che Israele ha esteso extraterritorialmente la sua legge civile sui
cittadini israeliani che risiedono o viaggiano attraverso i Tpo. I coloni ebrei nella Cisgiordania occupata
vengono quindi portati davanti ai tribunali civili israeliani.


NEGAZIONE DI NAZIONALITÀ, RESIDENZA E VITA FAMILIARE

Israele mantiene il suo sistema di frammentazione e segregazione attraverso diversi regimi legali che
garantiscono la negazione della nazionalità e dello status ai palestinesi, violano il loro diritto
all’unificazione familiare, al ritorno al loro paese e alle loro case e limitano gravemente la libertà di
movimento in base allo status legale. Tutti hanno lo scopo di controllare la popolazione palestinese e
mirano a preservare una maggioranza ebrea israeliana in aree chiave di Israele e dei Territori occupati.
Mentre viene loro concessa la cittadinanza, ai palestinesi di Israele viene negata la nazionalità,
stabilendo una differenziazione legale dagli ebrei israeliani. Sono inoltre negati alcuni benefici a
causa dell’esonero dal servizio militare.
Intanto, i palestinesi residenti a Gerusalemme est non sono cittadini israeliani. Al contrario, viene
loro concesso un fragile status di residenza permanente che consente loro di risiedere e lavorare in
città e di godere dei benefici sociali forniti dall’Istituto nazionale di previdenza israeliano e
dall’assicurazione sanitaria nazionale. In base a leggi e politiche discriminatorie, tuttavia, le autorità
israeliane hanno revocato lo status di migliaia di palestinesi, anche retroattivamente, se non è stato
possibile provare che Gerusalemme fosse il “centro della loro vita”. Ciò ha avuto conseguenze
devastanti sui loro diritti umani. Al contrario, i coloni ebrei israeliani residenti a Gerusalemme est
godono della cittadinanza israeliana e sono esentati dalle leggi e dalle misure emanate contro i
residenti palestinesi di Gerusalemme est.
Allo stesso tempo, Israele ha controllato il registro della popolazione in Cisgiordania e a Gaza dal
1967 e ha imposto politiche, restrizioni e misure per controllare la demografia del territorio. I
palestinesi in questi territori rimangono senza cittadinanza e sono considerati apolidi, ad eccezione
di coloro che hanno ottenuto la cittadinanza da un paese terzo. L’esercito israeliano rilascia loro carte
d’identità che consentono di vivere e lavorare permanentemente nel territorio. Il controllo israeliano
del registro della popolazione dal 1967 ha ulteriormente facilitato la frammentazione dei palestinesi
e limitato la loro libertà di movimento in base al loro status legale e alla loro residenza.
Dopo lo scoppio dell’intifada (rivolta) palestinese alla fine del 2000, l’amministrazione civile
israeliana, un’unità militare che sovrintende a tutte le questioni civili per i coloni ebrei israeliani e i
residenti palestinesi in Cisgiordania, esclusa Gerusalemme est, ha congelato la maggior parte delle
modifiche al registro della popolazione palestinese senza previa notifica all’Autorità palestinese. Il
blocco includeva la sospensione di tutte le procedure di “ricongiungimento familiare” per i residenti
palestinesi dei Tpo che avevano sposato cittadini stranieri. Anche se in due occasioni da allora Israele
si è impegnata a concedere un piccolo numero di richieste di ricongiungimento familiare come gesti
diplomatici di buona volontà alle autorità palestinesi con sede a Ramallah, in generale Israele
continua a negare il conferimento dello status di residenza a decine di migliaia di cittadini stranieri
che sono sposati con palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Questo è profondamente
discriminatorio. I coloni ebrei che risiedono negli insediamenti in Cisgiordania non devono affrontare
restrizioni nell’ottenere dalle istituzioni israeliane l’autorizzazione per i loro coniugi ad entrare nel
territorio occupato e risiedere con loro.
Dall’inizio del 2003, Israele ha iniziato a vietare ai palestinesi registrati a Gaza di risiedere in
Cisgiordania, arrestandone migliaia e portandoli con la forza nella Striscia di Gaza dopo averli
etichettati come “infiltrati”. Nel corso degli anni, le autorità israeliane hanno autorizzato alcuni
palestinesi a cambiare indirizzo dalla Striscia di Gaza alla Cisgiordania, ma hanno attuato il loro
impegno solo in parte. Allo stesso tempo, migliaia di palestinesi rimangono privi di documenti a Gaza
poiché le autorità israeliane si sono rifiutate di regolarizzare il loro status dal 2008.
Queste politiche hanno gravi conseguenze sulla possibilità per i palestinesi nei Tpo di condurre una
vita normale, in particolare alla luce delle rigide restrizioni sulla circolazione: coloro che in
Cisgiordania non sono registrati affrontano l’imminente minaccia di espulsione, non possono accedere
all’assistenza sanitaria, all’istruzione e alle prestazioni sociali, aprire un conto in banca e avere un
lavoro legale, e sono effettivamente prigionieri nelle loro case per paura di controlli dei documenti
d’identità ai posti di blocco israeliani. Ai palestinesi privi di documenti a Gaza viene negata anche la
libertà di movimento e l’accesso all’assistenza sanitaria e all’istruzione in altre parti dei Tpo e
all’estero. Nel complesso, le restrizioni all’unificazione familiare interferiscono con il godimento da
parte dei palestinesi dei loro diritti alla privacy, alla vita familiare e al matrimonio, impedendo loro di
conferire lo status di residenza ai loro coniugi e figli.
Israele continua a negare alle e ai profughi palestinesi – sfollati nei conflitti del 1947-49 e 1967 –
e ai loro discendenti il diritto di ottenere la cittadinanza israeliana o lo status di residenza in Israele
o nei Tpo. Così facendo, nega loro il diritto di tornare nei loro precedenti luoghi di residenza e
proprietà, un diritto che è stato ampiamente riconosciuto dal diritto internazionale dei diritti umani.

INTERRUZIONE DELLA VITA FAMIGLIARE
Oltre alle misure che separano le famiglie all’interno dei Tpo, Israele ha emanato leggi e politiche
discriminatorie che interrompono la vita familiare dei palestinesi oltre la Linea verde, in un chiaro
esempio di come Israele frammenti e segreghi i palestinesi attraverso un sistema di dominio. Come
altre misure documentate da Amnesty International, sono guidate principalmente da considerazioni
demografiche, piuttosto che di sicurezza, e mirano a ridurre al minimo la presenza palestinese
all’interno della Linea verde per mantenere una maggioranza ebraica.
Dal 2002, Israele ha adottato una politica che vieta ai palestinesi della Cisgiordania e di Gaza di
ottenere lo status in Israele o a Gerusalemme est attraverso il matrimonio, impedendo così il
ricongiungimento familiare. La legge sulla cittadinanza e sull’ingresso in Israele ha sancito la politica
tra il 2003 e la sua scadenza nel luglio 2021. La legge ha vietato a migliaia di palestinesi in Israele
e Gerusalemme est di vivere lì con i loro coniugi palestinesi dalla Cisgiordania e da Gaza. L’allora
ministro degli Interni israeliano dichiarò che la legge era necessaria perché “si sentiva che [il
ricongiungimento familiare] sarebbe stato sfruttato per ottenere un diritto al ritorno strisciante …”.
La legge del 2003 non consentiva ai coniugi della Cisgiordania o di Gaza di ricevere la residenza
permanente o cittadinanza israeliana. Invece, i richiedenti prescelti hanno ricevuto permessi
temporanei di sei mesi. Gli emendamenti alla legge nel corso degli anni ne hanno ampliato il campo
di applicazione per limitare ulteriormente e negare il ricongiungimento familiare per i cittadini e le
cittadine palestinesi di Israele.
Quando il governo israeliano ha perso il voto per estendere la legge nel luglio 2021, ha segnalato la
sua intenzione di mantenere comunque la politica. Il ministro dell’Interno ha impartito istruzioni di
non accettare richieste di ricongiungimento familiare da parte dei palestinesi fino a quando non sarà
adottata una legislazione nuova o simile. Le autorità israeliane affermano che la politica è necessaria
per “motivi di sicurezza”, ma è attuata in modo generale senza prove specifiche contro le persone.
Al contrario, la legge del 2003 non si applicava esplicitamente ai residenti degli insediamenti ebraici
in Cisgiordania che desideravano sposarsi e vivere con il proprio coniuge all’interno di Israele. Ciò
rendeva palesemente discriminatoria la politica in corso che ne era alla base.

RESTRIZIONI ALLA LIBERTÀ DI MOVIMENTO
Dalla metà degli anni Novanta le autorità israeliane hanno imposto un sistema di chiusura all’interno
dei Territori e tra questi e Israele, sottoponendo gradualmente milioni di palestinesi che vivono in
Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, e la Striscia di Gaza a restrizioni sempre più stringenti sulla
circolazione in base al loro status giuridico. Queste restrizioni sono un altro strumento attraverso il
quale Israele segrega i palestinesi in enclavi separate, li isola gli uni dagli altri e dal mondo e, infine,
rafforza il suo dominio.
Israele controlla tutti i punti di entrata e di uscita in Cisgiordania e controlla tutti i viaggi tra la
Cisgiordania e l’estero. Israele controlla anche tutti i movimenti di persone in entrata e in uscita dalla
Striscia di Gaza verso il resto dei Tpo e Israele attraverso il valico di Erez, il passaggio passeggeri da
Gaza a Israele. Anche le autorità egiziane mantengono rigide restrizioni sul valico di Rafah tra Gaza e
l’Egitto. A eccezione dei gerosolimitani est, che hanno uno status di residenza permanente in Israele,
i palestinesi dei Tpo non possono viaggiare all’estero attraverso gli aeroporti israeliani a meno che non
ottengano uno speciale permesso, che viene rilasciato solo a uomini d’affari di rilievo e in casi
umanitari eccezionali.
Le forze armate e di sicurezza israeliane possono vietare ai palestinesi della Cisgiordania di viaggiare
all’estero, spesso sulla base di “informazioni segrete” che le e i palestinesi non possono esaminare
né quindi contestare. Questi divieti hanno colpito i difensori e le attiviste dei diritti umani che si
recano all’estero per difendere i diritti della popolazione palestinese.
Per i palestinesi a Gaza, viaggiare all’estero è quasi impossibile a causa del blocco illegale di Israele
e delle rigide restrizioni egiziane mantenute al valico di Rafah. Gli abitanti di Gaza devono ottenere
dall’amministrazione civile israeliana, che limita la sua approvazione a rare eccezioni, i permessi
ufficiali per uscire da Gaza attraverso il valico di Erez. Questo ha effettivamente segregato i palestinesi
nella Striscia di Gaza dal resto dei Tpo, da Israele e dal resto del mondo.
I cittadini palestinesi di Israele e i residenti palestinesi di Gerusalemme est possono viaggiare
all’estero attraverso gli stessi valichi e porti dei cittadini ebrei. Tuttavia, continuano a riferire di essere
stati sottoposti a controlli di sicurezza e interrogatori discriminatori e umilianti, in spazi separati,
negli aeroporti israeliani in base alla loro identità nazionale, nonostante alcuni miglioramenti
introdotti a seguito di una petizione legale presentata nel 2007 da una Ong israeliana per i diritti
umani. Inoltre, le autorità israeliane continuano a vietare a migliaia di coniugi palestinesi dei Tpo che
risiedono legalmente in Israele con “permessi di soggiorno” militari di godere dello stesso diritto.
Per i palestinesi viaggiare all’interno dei Tpo è difficile, dispendioso in termini di tempo e subordinato
a considerazioni strategiche israeliane che favoriscono gli insediamenti ebraici e le relative
infrastrutture. In questo senso, perpetua un sentimento di impotenza e dominio nella vita quotidiana
dei palestinesi. Israele ha imposto un sistema di chiusura globale al movimento dei palestinesi in
Cisgiordania dopo lo scoppio della seconda Intifada nel 2000, che rimane in vigore in varie forme.
Questo sistema di chiusura include una rete di centinaia di posti di blocco militari israeliani, blocchi
di terra e cancelli stradali, oltre a strade bloccate e alla recinzione/muro.
La recinzione/muro di 700 km, che Israele continua a costruire per lo più illegalmente su terra
palestinese all’interno della Cisgiordania occupata, ha isolato 38 località palestinesi in Cisgiordania,
comprendenti il 9,4 per cento dell’area della Cisgiordania, e le ha intrappolate in enclavi conosciute
come “zone cuscinetto”, costringendo i residenti a ottenere permessi speciali per l’ingresso e l’uscita
dalle proprie abitazioni e ad acquisire permessi separati per accedere ai propri terreni agricoli. Israele
ha generalmente consentito alle donne di età superiore ai 50 anni e agli uomini di età superiore ai
55 anni della Cisgiordania di entrare a Gerusalemme o in Israele senza permessi, ma solo se non
hanno precedenti divieti o trascorsi in tema di “sicurezza”. Nel frattempo, i palestinesi della Striscia
di Gaza possono entrare in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, solo per condizioni mediche
urgenti e pericolose per la vita, affari essenziali e casi umanitari eccezionali nell’ambito della “politica
di separazione” militare israeliana tra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. I palestinesi devono
ottenere i permessi militari israeliani – il che è diventato praticamente impossibile – per viaggiare tra
le aree, senza una procedura chiara per presentare una domanda o ottenere un risultato.
Il regime dei permessi è una procedura militare, burocratica e arbitraria che si applica solo ai
palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Non si applica ai coloni ebrei, ai cittadini israeliani
o ai cittadini stranieri, che generalmente possono circolare liberamente all’interno della Cisgiordania
e tra la Cisgiordania e Israele.

RESTRIZIONI AL DIRITTO ALLA PARTECIPAZIONE POLITICA
Mentre le leggi e le politiche israeliane definiscono lo stato democratico, la frammentazione del
popolo palestinese assicura che la versione israeliana della democrazia privilegi in modo schiacciante
la partecipazione politica degli ebrei israeliani. Inoltre, la rappresentanza dei cittadini palestinesi di
Israele nel processo decisionale, principalmente alla Knesset, è stata limitata e minata da una serie
di leggi e politiche israeliane.
Ancora più importante, la legge costituzionale israeliana impedisce ai cittadini israeliani di contestare
la definizione di Israele come stato ebraico e in effetti qualsiasi legge che stabilisca tale identità.
Mentre i cittadini palestinesi di Israele possono votare e candidarsi alle elezioni nazionali, nella
pratica il loro diritto alla partecipazione politica è limitato e continuano a essere percepiti come il
“nemico dall’interno”.
In base alla Legge fondamentale di Israele, la Knesset del 1958, il Comitato elettorale centrale può
escludere un partito o un candidato dalla partecipazione alle elezioni se i loro obiettivi o azioni
intendono negare la definizione di Israele come stato ebraico e democratico; incitare al razzismo; o
sostenere le lotte armate di uno stato ostile o di un’organizzazione terroristica contro Israele. Inoltre,
la legge del 1992 sui partiti politici vieta la registrazione di qualsiasi partito i cui obiettivi o azioni
neghino direttamente o indirettamente “l’esistenza di Israele come stato ebraico e democratico”.
Nel corso degli anni, la Corte Suprema ha in generale ribaltato i tentativi del Comitato elettorale
centrale di bandire i partiti palestinesi e di escludere i candidati palestinesi per aver violato queste
disposizioni sulla base di dichiarazioni pubbliche che esprimevano opinioni ritenute inaccettabili per
la maggioranza dei membri della Knesset. Tuttavia, queste disposizioni impediscono ai legislatori
palestinesi di contestare le leggi che codificano il dominio ebraico israeliano sulla minoranza
palestinese e limitano indebitamente la loro libertà di espressione e, di conseguenza, impediscono la
loro capacità di rappresentare efficacemente le preoccupazioni dei loro elettori.
Le limitazioni al diritto dei cittadini palestinesi di Israele di partecipare alle elezioni sono
accompagnate da altre violazioni dei loro diritti civili e politici che limitano la misura in cui possono
partecipare alla vita politica e sociale di Israele. Ciò ha incluso il controllo razzializzato delle proteste,
arresti arbitrari di massa e l’uso illegale della forza contro i manifestanti durante le manifestazioni
contro la repressione israeliana sia in Israele che nei Territori occupati. Tali misure, che prendono di
mira i manifestanti pacifici, hanno lo scopo di scoraggiare ulteriori manifestazioni e soffocare il
dissenso. Dopo l’arresto, i palestinesi sono regolarmente posti in detenzione preventiva; al contrario,
ai manifestanti ebrei viene generalmente concessa la cauzione. Ciò indica un trattamento
discriminatorio dei palestinesi da parte del sistema di giustizia penale, che sembra trattare i
palestinesi come “sospetti” invece di valutare la minaccia individuale che rappresentano.
Israele pone severe restrizioni ai diritti civili e politici dei palestinesi, in particolare in Cisgiordania,
dove gli ordini militari sono ancora in vigore. Dal 1967 le autorità israeliane hanno messo fuori legge
più di 400 organizzazioni palestinesi, inclusi tutti i principali partiti politici e diverse importanti
organizzazioni della società civile ampiamente riconosciute per la fornitura di servizi vitali come
assistenza legale e assistenza medica, nonché per la qualità della loro segnalazione e difesa dei diritti
umani, l’ultima nell’ottobre 2021. Inoltre, le autorità israeliane spesso perseguono i palestinesi per
“appartenenza e attività in un’associazione illegale”, un’accusa spesso mossa contro attivisti antioccupazione.
Nel corso degli anni, decine di legislatori palestinesi sono stati arrestati e posti in
detenzione amministrativa o perseguiti nei tribunali militari in processi che non rispettano gli standard
internazionali. Allo stesso tempo, l’Ordine militare 101 relativo al divieto di istigazione e azioni di
propaganda ostile punisce e criminalizza i palestinesi per aver partecipato e organizzato un’assemblea
di 10 o più persone senza un permesso per una questione che “può essere interpretata come politica”.
L’ordinanza, che non definisce cosa si intenda per “politico”, vieta di fatto le proteste, comprese
quelle pacifiche, e prevede fino a 10 anni di reclusione e/o pesanti multe per chiunque la violi.
I palestinesi di Gerusalemme est, d’altra parte, non sono in grado di partecipare alla vita politica in
Israele né in Cisgiordania. Sebbene possano votare e candidarsi alle elezioni municipali a
Gerusalemme, tradizionalmente le hanno boicottati per protestare contro l’occupazione israeliana in
corso e l’annessione illegale di Gerusalemme est, e rimangono esclusi dalle elezioni nazionali. Di
conseguenza, le proteste rimangono per i palestinesi l’unico mezzo per influenzare la politica
israeliana e sfidare il sistema di oppressione e dominio nei Tpo. I palestinesi nei Tpo, nel corso degli
anni, hanno mobilitato e organizzato una resistenza popolare non violenta contro l’occupazione
militare israeliana e l’espansione degli insediamenti, che è stata sistematicamente affrontata con un
uso eccessivo e illegale della forza, arresti arbitrari e procedimenti giudiziari nei tribunali militari,
nonché indebite restrizioni alla libera circolazione. Nonostante il “disimpegno” del 2005, i palestinesi
nella Striscia di Gaza continuano ad affrontare la repressione israeliana per la loro resistenza popolare
contro l’occupazione. Ciò ha incluso una forza eccessiva, e spesso letale, durante le proteste vicino
alla recinzione che separa Gaza da Israele.

SPOSSESSAMENTO DI TERRENI E PROPRIETÀ
Nel 1948, persone e istituzioni ebree possedevano circa il 6,5 per cento del mandato della Palestina,
mentre i palestinesi possedevano circa il 90 per cento della terra di proprietà privata. In poco più di
70 anni la situazione si è ribaltata.
Sin dalla sua creazione, lo stato israeliano ha imposto massicci e crudeli sequestri di terra per
espropriare ed escludere i palestinesi dalla loro terra e dalle loro case. Sebbene le e i palestinesi in
Israele e nei Tpo siano soggetti a diversi regimi legali e amministrativi, Israele ha utilizzato misure
simili di spossessamento della terra in tutti i domini territoriali nell’ambito della sua politica di
ebraizzazione, che cerca di massimizzare il controllo ebraico sulla terra limitando di fatto i palestinesi
a vivere in luoghi separati, enclavi densamente popolate, per ridurre al minimo la loro presenza.
Questa politica è stata perseguita continuativamente in Israele dal 1948 in aree di importanza
strategica che includono significative percentuali di popolazioni palestinesi come la Galilea e il
Negev/Naqab, ed è stata estesa ai Tpo dopo l’occupazione militare israeliana nel 1967. Oggi, gli sforzi
israeliani in corso per costringere il trasferimento di palestinesi nel Negev/Naqab, a Gerusalemme Est
e nell’Area C della Cisgiordania sotto regimi di pianificazione e costruzione discriminatori sono le
“nuove frontiere dello spossessamento” dei palestinesi e la manifestazione della strategia di
ebraizzazione e controllo territoriale.
Il regime fondiario instaurato subito dopo la creazione di Israele, che non è mai stato smantellato,
rimane un aspetto cruciale del sistema di oppressione e dominio contro i palestinesi. Consisteva in
una legislazione, reinterpretazione delle leggi britanniche e ottomane esistenti, istituzioni fondiarie
governative e semigovernative e una magistratura di sostegno che consentiva l’acquisizione della terra
palestinese e la sua riallocazione discriminatoria in tutti i territori sotto il suo controllo.
Mentre gran parte del sequestro della terra e delle proprietà dei palestinesi e della distruzione dei
loro villaggi all’interno di Israele è avvenuto alla fine degli anni Quaranta e Cinquanta, negli anni
Settanta sono continuati gli espropri massicci e di matrice razziale. Gli effetti continuano ad avere un
forte impatto sui palestinesi. È ancora loro vietato accedere e utilizzare la terra e le proprietà che
appartenevano a loro o alle loro famiglie nel 1948. Lo spossessamento ha anche contribuito
all’isolamento e all’esclusione dei cittadini palestinesi dalla società israeliana, contrassegnandoli
come un gruppo con diritti costantemente inferiori e senza diritto di rivendicare l’accesso a terre e
proprietà che sono appartenute alle loro famiglie da generazioni.
Tre principali atti legislativi costituivano il nucleo del regime fondiario israeliano e hanno svolto un
ruolo importante in questo processo: la legge sulla proprietà degli assenti (legge sul trasferimento
della proprietà) del 1950; la legge sull’acquisizione di terre del 1953, che ha “legalizzato”
retroattivamente l’esproprio delle terre di cui lo stato, le località ebraiche di nuova costituzione e
l’esercito israeliano avevano preso il controllo utilizzando i regolamenti di emergenza dopo il conflitto
del 1947-49; e l’ordinanza britannica per la terra (Acquisizione a scopo pubblico) del 1943, che
consentiva al ministro delle Finanze di espropriare terreni per qualsiasi scopo pubblico. Le leggi, che
rimangono in vigore, sono state determinanti nell’espropriare e acquisire terre e proprietà palestinesi,
portando nel corso degli anni alla loro proprietà esclusiva da parte dello stato israeliano e delle
istituzioni nazionali ebraiche. Dall’annessione di Gerusalemme est nel 1967, l’intero regime fondiario
israeliano è stato utilizzato a Gerusalemme est per l’esproprio della terra palestinese e la sua
conversione principalmente in terra statale. Le autorità israeliane hanno anche emanato ulteriori
strumenti legali che riguardano la terra e i diritti abitativi dei palestinesi a Gerusalemme est.
La legge sulla proprietà degli assenti dava effettivamente allo stato il controllo su tutte le proprietà
appartenenti ai palestinesi che erano stati espulsi o fuggiti dalle loro case, indipendentemente dal
fatto che fossero diventati rifugiati o meno fuori dal paese o fossero sfollati internamente dai loro
villaggi e dalle loro case e si fossero stabiliti all’interno di Israele, per lo più nei vicini villaggi
palestinesi. Sono stati ritenuti “assenti” anche se non hanno mai attraversato un confine
internazionale e, in molti casi, sono rimasti a pochi chilometri dalle loro case e dalla loro terra.
La distruzione del villaggio palestinese di Iqrit vicino ad Acri, nel nord di Israele, è un chiaro esempio
della crudele applicazione di questa politica. Nel 1948, l’esercito israeliano ordinò a circa 600
residenti di Iqrit di lasciare le loro case “temporaneamente”. Non sono mai stati autorizzati a tornare.
I residenti hanno presentato una petizione alla Corte Suprema di Israele per ottenere il diritto al
ritorno e hanno vinto. Tuttavia, il ministero della Difesa israeliano ha rifiutato di attuare la decisione,
temendo che avrebbe creato un precedente per il ritorno di altri palestinesi costretti a lasciare i loro
villaggi. Così, nel 1951, il ministero distrusse il villaggio ad eccezione della chiesa e del cimitero. La
comunità palestinese di Iqrit ora comprende circa 1500 individui che vivono per lo più a 20 km di
distanza ad Al-Rameh. Continuano a lottare per il loro diritto al ritorno alle loro case e alla terra a
Iqrit.
Parallelamente all’esproprio diretto del governo israeliano, tutte le proprietà ebraiche precedenti al
1948 nella Gerusalemme est annessa detenute dal Custode giordano delle proprietà nemiche furono
trasferite al Custode generale israeliano in base a un emendamento alla legge sulle questioni legali e
amministrative del 1970. La legge consentiva al proprietario ebreo originario, o ai suoi legittimi eredi,
di richiedere al Custode generale di restituire loro tali proprietà. Si applica solo ai proprietari di
proprietà ebrei, non ai palestinesi le cui proprietà a Gerusalemme ovest sono state confiscate dopo il
1948, ed è un sistema di compensazione chiaramente discriminatorio. Secondo una stima, Israele
ha espropriato oltre 10.000 negozi, 25.000 edifici e quasi il 60 per cento della terra fertile che
appartenevano ai profughi palestinesi in Israele e Gerusalemme est ai sensi della legge sulla proprietà
degli assenti.
Oltre all’assegnazione da parte dello stato israeliano della terra palestinese confiscata per
l’avanzamento dell’insediamento ebraico a Gerusalemme, organizzazioni di coloni ebrei, come Ateret
Cohanim ed Elad, hanno fatto affidamento sulla legge sulla proprietà degli assenti del 1950 e sulla
legge sulle questioni legali e amministrative del 1970 per escogitare uno schema legale per
presentare esposti di sfratto contro palestinesi e privarli delle loro proprietà, consentire ai coloni ebrei
di stabilirsi in quartieri prevalentemente palestinesi e favorire l’espansione degli insediamenti ebraici.
Secondo le stime dell’Ufficio delle Nazioni unite per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha),
nel 2019 c’erano 199 famiglie palestinesi, 877 persone, che hanno dovuto affrontare casi di sfratto,
principalmente nella Città vecchia e nei quartieri di Sheikh Jarrah e Silwan. L’accaparramento di terre
e proprietà da parte di organizzazioni di coloni ha avuto luogo con l’assistenza delle istituzioni statali,
tra cui il Custode generale, il Fondo nazionale ebraico e la magistratura.
Israele ha fatto ricorso a leggi di emergenza e militari, alcune delle quali riflettevano le leggi civili
israeliane, per confiscare la terra palestinese nel resto della Cisgiordania e, fino al suo ritiro unilaterale
nel 2005, anche nella Striscia di Gaza, al fine di stabilire e mantenere il controllo del territorio
costruendo e ampliando gli insediamenti e le relative infrastrutture, istituendo parchi nazionali, siti
archeologici e “zone di tiro” militari. Nel primo decennio dell’occupazione della Cisgiordania e della
Striscia di Gaza, le autorità israeliane hanno proceduto alla confisca di terre palestinesi di proprietà
privata principalmente attraverso ordini di requisizione per presunte esigenze militari, oltre che ordini
di espropriazione, ordini di proprietà per assenze e ordini militari che dichiaravano aree specifiche
come “zone militari chiuse”. Queste misure sono state legittimate dalla Corte Suprema di Israele, che
alla fine ha stabilito che la questione della legalità degli insediamenti non può essere oggetto di
disputa legale.
Oltre alle leggi, Israele ha utilizzato una registrazione selettiva dei diritti di proprietà, un’assegnazione
discriminatoria di terra palestinese espropriata per l’insediamento ebraico e un regime discriminatorio
di pianificazione urbana e zonizzazione per spostare con la forza i palestinesi dalle loro terre e
proprietà. Il risultato è stato il deliberato impoverimento della popolazione palestinese sia all’interno
di Israele che nei Tpo.
Il processo di risoluzione del titolo fondiario, avviato sotto mandato britannico prima del 1948,
divenne un ulteriore strumento per lo spossessamento dei palestinesi a opera di Israele in tutti i
domini territoriali e, in definitiva, permise alle autorità israeliane di trasferire milioni di dunam
(centinaia di migliaia di ettari) di terra demaniale per l’insediamento ebraico. Le autorità israeliane
hanno perseguito questa politica in modo aggressivo nei Tpo a seguito di una decisione della Corte
suprema del 1979, secondo la quale l’insediamento di Elon Moreh – vicino alla città di Nablus in
Cisgiordania – era illegale perché il suo scopo non era militare, costringendoli a ridurre drasticamente
l’uso degli ordini di requisizione.
Parallelamente, il governo israeliano ha consentito alle località e agli insediamenti ebraici di utilizzare
le terre espropriate. In Israele e Gerusalemme est, ne ha trasferito l’uso dallo stato alle organizzazioni
e istituzioni nazionali ebraiche, molte delle quali servono solo ebrei, mentre il titolo legale della terra
è rimasto a nome dello stato. Nel resto dei Tpo, il governo israeliano ha adottato politiche che hanno
consentito l’assegnazione di terre statali quasi esclusivamente a istituzioni e organizzazioni statali
israeliane, società statali e private, a beneficio dei coloni ebrei israeliani.
La terra demaniale in Israele è ampiamente utilizzata per sviluppare città e località ebraiche; ai
cittadini palestinesi di Israele viene effettivamente impedito di affittare terreni sull’80 per cento del
territorio statale. Gli organismi nazionali ebraici generalmente non danno in affitto terreni a non ebrei
e non li accettano nei progetti di edilizia abitativa e/o nelle comunità che stabiliscono su terre
demaniali che sono state sviluppate appositamente per i nuovi immigrati ebrei. Circa il 13 per cento
della terra statale in Israele, o oltre 2,5 milioni di dunam, è di proprietà e amministrato
esclusivamente attraverso il Fondo nazionale ebraico a uso esclusivo della popolazione ebraica.
L’istituzione e la promozione di insediamenti israeliani nei Tpo, illegali secondo il diritto
internazionale, e popolandoli con civili ebrei israeliani è stata una politica del governo israeliano dal 1967 ad oggi, circa il 38 per cento della terra a Gerusalemme est, la maggior parte di proprietà privata, è stata espropriata ai palestinesi. Le autorità israeliane hanno utilizzato questi importanti espropri di terra per la costruzione di 13 insediamenti ebraici israeliani in posizioni strategiche per
circondare i quartieri palestinesi e quindi interrompere la contiguità geografica e lo sviluppo urbano
dei palestinesi. Nel resto della Cisgiordania, tra il 1967 e il 2009, Israele ha aumentato l’area totale
del territorio statale da circa 530.000 dunam a 1,4 milioni di dunam; la stragrande maggioranza si
trova nell’Area C e ne ha destinato quasi la metà a uso civile. Di questo, circa il 99,76 per cento
(674.459 dunam) è stato assegnato a beneficio esclusivo degli insediamenti israeliani, secondo le
informazioni fornite nel 2018 dall’esercito israeliano all’Ong israeliana Peace Now. Oggi, gli
insediamenti israeliani coprono quasi il 10 per cento della Cisgiordania e i loro consigli regionali
hanno giurisdizione su circa il 63 per cento dell’Area C (o il 40 per cento della Cisgiordania), dove
vive la maggior parte dei coloni. Alla fine del 2020 c’erano 272 insediamenti e avamposti in
Cisgiordania (esclusa Gerusalemme est), in cui vivevano oltre 441.600 coloni israeliani. A luglio
2021, altri 225.178 coloni ebrei israeliani vivevano a Gerusalemme est, che allora ospitava 358.800
palestinesi.
Gli insediamenti israeliani in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est, sono destinati a essere luoghi
di residenza o attività economiche permanenti per gli ebrei israeliani e sono costruiti esclusivamente
per soddisfare i loro bisogni. Le autorità israeliane forniscono sussidi, incentivi fiscali e servizi e
risorse a basso costo per incoraggiare gli ebrei israeliani a vivere in questi luoghi e per sostenere
l’economia degli insediamenti.
Sebbene Israele non sequestri più case e terreni ai palestinesi a Gaza, fa un uso della forza letale
illegale per controllare e limitare il movimento dei palestinesi nella “zona cuscinetto” che separa il
territorio da Israele e in un’area marittima con accesso limitato al largo della costa di Gaza. Secondo
le organizzazioni per i diritti umani, la “zona cuscinetto” si estende a una distanza compresa tra 300
e 1500 metri dalla recinzione e copre un totale di circa 62 km2, ovvero circa il 17 per cento dell’area
totale della Striscia di Gaza. Copre oltre il 35 per cento della superficie agricola di Gaza. Nel
frattempo, la zona marittima ad accesso limitato copre l’85 per cento delle sue acque da pesca.


POLITICHE DISCRIMINATORIE DI ZONIZZAZIONE E PIANIFICAZIONE
In tandem con il sistema di proprietà e assegnazione della terra, le politiche di zonizzazione e
pianificazione sono state centrali nell’adempimento delle politiche israeliane per stabilire il controllo
ebraico emarginando le comunità palestinesi sia in Israele che nei Tpo. La pianificazione è stata
utilizzata per espandere la presenza ebraica israeliana in posizioni strategiche; costruire paesi, città
e insediamenti ebraici; ostacolare l’espansione geografica delle città e dei centri palestinesi; e
regolare l’uso della terra e l’accesso dei palestinesi alla terra per lo sviluppo, suddividendola in aree
verdi, zone industriali o zone militari. Tale pianificazione è stata utilizzata, ad esempio, per circondare
aree palestinesi o cancellare villaggi palestinesi demoliti dopo il 1948 designandoli come zone militari
o parchi nazionali.
In tutte le aree in cui Israele esercita il pieno controllo (in Israele, Gerusalemme est e Area C della
Cisgiordania), un piano di riferimento locale definisce la politica per l’uso della terra per scopi quali
residenza, industria e spazio verde, funge da base giuridica per il rilascio delle concessioni edilizie
ed è lo strumento principale attraverso il quale il governo centrale consente lo sviluppo locale. In
Israele e a Gerusalemme est, un piano di massima locale può essere preparato solo da un’autorità
governativa ufficiale ai sensi della legge sulla pianificazione e l’edilizia del 1965. Tuttavia, i
pianificatori statali non riescono a fornire piani adeguati alle località palestinesi e che tengano conto
delle esigenze dei residenti.
Allo stesso modo, nell’Area C della Cisgiordania, il sistema di pianificazione dell’amministrazione
civile israeliana non consente alcuna rappresentanza palestinese o partecipazione significativa e, di
conseguenza, non tiene conto dei bisogni della popolazione palestinese e privilegia costantemente gli
interessi dei coloni israeliani. Allo stesso tempo, l’amministrazione civile israeliana utilizza
un’interpretazione selettiva della legge giordana per insistere sul fatto che la pianificazione deve
essere conforme ai piani di mandato britannici obsoleti e rifiuta regolarmente le domande di permessi
di costruzione su questa base.
Queste misure discriminatorie portano a costruzioni non regolamentate e successive demolizioni sia
in Israele che nei Tpo.
Il risultato è stata la completa assenza di nuovi sviluppi palestinesi. Dal 1948 lo stato ha stabilito più
di 700 località ebraiche in Israele, mentre non ha stabilito nessuna nuova località per i palestinesi,
a eccezione di quelle beduine che sono state pianificate dallo stato nel Negev/Naqab e progettate per
la loro urbanizzazione forzata.
Secondo una stima dell’Ong Mossawa Center, nel 2019 circa 50.000 strutture sono state costruite
da cittadini palestinesi di Israele senza permesso per costruire. In base alla legge sulla pianificazione
e l’edilizia del 1965, qualsiasi edificio o sviluppo senza un permesso di costruzione può essere
“demolito, smantellato o rimosso” dalle autorità israeliane competenti e il suo proprietario può essere
responsabile del costo della demolizione, nonché passibile di multa e/o reclusione. Tra il 2012 e il
2014, il 97 per cento degli ordini di demolizione amministrativa è stato emesso in quello che le
autorità israeliane chiamano il settore arabo, che comprende principalmente cittadini palestinesi di
Israele, ma anche la minoranza drusa, molto più piccola.
Il Negev/Naqab è un ottimo esempio di come le politiche discriminatorie di pianificazione e
costruzione di Israele siano progettate per massimizzare la terra e le risorse per gli ebrei israeliani a
spese della terra e dei diritti abitativi palestinesi. Invece di classificare i villaggi beduini palestinesi
nel Negev/Naqab come aree residenziali, dagli anni Settanta le autorità israeliane hanno suddiviso i
villaggi e le terre circostanti in zone per uso militare, industriale o pubblico. Nel corso degli anni,
Israele ha riconosciuto 11 di questi villaggi, ma 35 rimangono “non riconosciuti” con residenti
considerati coinvolti in “occupazioni illegali” e incapaci di richiedere un permesso di costruzione per
legalizzare le loro case già costruite o nuove poiché le terre non sono designate come residenziali. Di
conseguenza, gli edifici di intere comunità sono stati ripetutamente demoliti. Al contrario, i tribunali
israeliani hanno approvato retroattivamente comunità ebraiche costruite senza piani di massima e
permessi di costruzione nella stessa area. La mancanza di uno status ufficiale significa anche che le
autorità israeliane non forniscono a questi villaggi alcuna infrastruttura o servizio essenziale come
assistenza sanitaria o istruzione e i residenti non hanno alcuna rappresentanza nei diversi enti
governativi locali poiché non possono registrarsi o partecipare alle elezioni municipali.
Allo stesso modo, il deliberato rifiuto di approvare piani di zonizzazione per i quartieri palestinesi a
Gerusalemme est ha avuto un effetto rovinoso sulle comunità palestinesi ostacolandone lo sviluppo,
compresa la costruzione di spazi pubblici, scuole e zone commerciali per opportunità di lavoro. I
palestinesi vivono in aree depresse e densamente popolate a Gerusalemme est; si trovano ad affrontare
una grave carenza di alloggi mentre interi quartieri sono esposti al rischio di demolizione per edilizia
abusiva.
I palestinesi costituiscono oggi il 60 per cento della popolazione a Gerusalemme est, ma solo il 15
per cento del territorio è designato dall’autorità israeliana di pianificazione alla residenza palestinese,
con il 2,6 per cento questo terreno destinato a edifici pubblici. Secondo i dati di Peace Now, dal
1991 al 2018, solo il 16,5 per cento delle domande di permessi di costruzione approvate a
Gerusalemme riguardavano palestinesi rispetto al 37,8 per cento per insediamenti ebraici. Le restanti
domande approvate erano per Gerusalemme ovest.
Nell’Area C della Cisgiordania, il sistema di pianificazione urbana e zonizzazione profondamente
discriminatorio significa che, in pratica, ai palestinesi è consentito costruire solo su circa lo 0,5 per
cento (circa 1800 ettari) dell’Area C, la maggior parte della quale è già edificata. Nel frattempo, le
autorità israeliane hanno assegnato il 70 per cento della terra nell’Area C agli insediamenti. Nel luglio
2019, il gabinetto di sicurezza israeliano ha promesso di concedere permessi di costruzione per 715
unità abitative per palestinesi mentre ha promesso permessi di costruzione per 6000 unità abitative
per i coloni ebrei. Entro la fine di giugno 2020, ai palestinesi era stato rilasciato un solo permesso di
costruzione, mentre tra luglio 2019 e marzo 2020 sono stati rilasciati 1094 permessi di costruzione
per insediamenti ebraici.

REPRESSIONE DELLO SVILUPPO DEI PALESTINESI
Decenni di trattamento deliberatamente ineguale dei palestinesi in tutte le aree sotto il controllo di
Israele li hanno marginalizzati e resi soggetti a uno svantaggio socioeconomico diffuso e sistematico
poiché è stato impedito loro un accesso equo alle risorse naturali e finanziarie, alle opportunità di
sostentamento, all’assistenza sanitaria e all’istruzione. Il trattamento discriminatorio e l’allocazione
delle risorse da parte delle autorità israeliane a beneficio dei cittadini ebrei israeliani in Israele e dei
coloni israeliani nei Tpo aggravano le disuguaglianze.
In Israele e nei Tpo, milioni di palestinesi vivono in aree densamente popolate che sono generalmente
depresse e prive di adeguati servizi essenziali come la raccolta dei rifiuti, l’elettricità, i trasporti
pubblici e le infrastrutture idriche e igienico-sanitarie. Nelle aree sotto il pieno controllo israeliano
come il Negev/Naqab, Gerusalemme est e l’Area C della Cisgiordania, la negazione dei servizi
essenziali è intrinsecamente legata alla pianificazione discriminatoria e alle politiche di zonizzazione
ed è tesa a creare condizioni di vita insopportabili per costringere i palestinesi a lasciare le loro case
per consentire l’espansione dell’insediamento ebraico. Inoltre, le politiche israeliane di esclusione,
segregazione e gravi restrizioni ai movimenti in tutta la Cisgiordania e la Striscia di Gaza significano
che i palestinesi hanno difficoltà ad accedere all’assistenza sanitaria, comprese le cure salvavita e
all’istruzione, anche se Israele si assume la responsabilità ai sensi del diritto internazionale di fornire
tali servizi non solo alla propria popolazione, ma anche ai palestinesi che vivono sotto la sua
occupazione militare. Quando riescono ad accedere a tali servizi, sono generalmente inferiori a quelli
forniti ai cittadini ebrei israeliani. Queste politiche hanno un grave impatto sui diritti socioeconomici
dei palestinesi e impediscono loro di realizzare il loro potenziale umano.
I palestinesi che vivono in Israele e nei Tpo sono inequivocabilmente svantaggiati rispetto a tutti gli
indicatori di benessere per i quali sono disponibili misure. Hanno tassi di povertà più elevati e livelli
di partecipazione alla forza lavoro, livello di istruzione e salute più bassi rispetto agli ebrei israeliani,
compresi i coloni che vivono nella Cisgiordania occupata. La loro mancanza di godimento di una serie
di diritti economici e sociali è un risultato diretto non solo della loro segregazione dagli ebrei israeliani,
ma anche gli uni dagli altri attraverso severe restrizioni alla circolazione e la sottomissione
dell’emancipazione palestinese agli interessi socioeconomici degli ebrei israeliani. Israele mantiene
il dominio ebraico sull’economia palestinese attraverso l’esclusione e l’abbandono intenzionale delle
comunità palestinesi all’interno di Israele e la creazione di un regime di dipendenza economica nei
Tpo nel contesto di una prolungata occupazione militare.
I divari socioeconomici tra i cittadini palestinesi ed ebrei israeliani sono il risultato di politiche
discriminatorie perseguite nel corso di decenni. Storicamente, Israele ha impedito ai suoi cittadini
palestinesi di accedere ai mezzi di sussistenza sotto i suoi 18 anni di governo militare e li ha usati,
in momenti diversi, come fonte di manodopera a basso costo al fine di preservare gli interessi della
maggioranza ebraica. Oltre ai crudeli sequestri di terra, altre politiche discriminatorie hanno portato
alla privazione sociale ed economica dei palestinesi: l’esclusione delle località palestinesi dalle aree
ad alta priorità per lo sviluppo, l’assegnazione discriminatoria di terra e acqua per l’agricoltura,
nonché la pianificazione e la zonizzazione discriminatorie e la mancata attuazione di grandi progetti
di sviluppo infrastrutturale nelle comunità palestinesi. Senza piani di zonizzazione, le comunità
palestinesi non sono state in grado di designare terreni per uso abitativo e industriale o creare le
infrastrutture necessarie per lo sviluppo economico.
Oggi, solo il due per cento delle zone industriali in Israele, che generano un reddito fiscale
significativo, si trova all’interno di località palestinesi, che sono collegate ad altre parti d’Israele con
scarsi mezzi pubblici o poche strade principali. Di conseguenza, le comunità palestinesi in Israele
non dispongono delle infrastrutture necessarie per lo sviluppo economico, costringendo la loro
popolazione a cercare lavoro nel settore ebraico, dove affrontano discriminazioni istituzionali quando
competono per un lavoro. Subiscono anche discriminazioni nell’allocazione delle risorse pubbliche,
la maggior parte delle quali sono distribuite a località ebraiche. Ad esempio, le autorità locali
palestinesi riscuotono meno entrate fiscali, in gran parte a causa della disparità di reddito derivante
dalle tasse non residenziali o aziendali, che è a sua volta il risultato delle politiche discriminatorie
israeliane.
Le località palestinesi ricevono anche sussidi più bassi dal governo centrale destinati a spese
specifiche, come istruzione, assistenza sociale, salute e servizi culturali. Secondo un’indagine del
2018 dell’Ufficio centrale di statistica israeliano, la spesa pubblica mensile per l’istruzione e la
cultura nel settore ebraico era quasi tre volte superiore pro capite rispetto al settore arabo
(prevalentemente palestinese).
Nell’insieme dei Tpo, le politiche israeliane di frammentazione territoriale e segregazione perseguite
nel contesto di una prolungata occupazione militare hanno avuto un effetto devastante sulle
prestazioni dell’economia palestinese, lasciandola disconnessa, debole e subordinata agli obiettivi
geo-demografici di Israele e incapace di raggiungere uno sviluppo sostenibile ed equo per la
popolazione palestinese. Sebbene la situazione nei Tpo sia migliorata negli ultimi decenni per quanto
riguarda alcuni diritti sociali, tra cui la mortalità materna, i livelli di alfabetizzazione e istruzione e i
tassi di vaccinazione, il tenore di vita in generale è rimasto stagnante o si è deteriorato, in particolare
nell’accesso all’assistenza sanitaria, al lavoro, all’istruzione e all’alloggio.
Il Protocollo di Parigi del 1994 tra Israele e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp)
ha radicato la dipendenza dell’economia palestinese a Israele attraverso un’unione doganale che non
lascia spazio a politiche economiche palestinesi indipendenti, legando i Tpo alle politiche
commerciali, alla struttura tariffaria e al valore dell’aliquota fiscale aggiunta di Israele. Dal 1999, il
prodotto interno lordo (Pil) palestinese nei Tpo è rimasto di fatto stagnante. L’economia palestinese
soffre di numerose restrizioni al commercio da parte di Israele che incidono sulla produzione di
esportazioni e sui beni importabili. Quasi tutte le importazioni e le esportazioni palestinesi devono
utilizzare porti di transito e punti di passaggio controllati da Israele, dove i ritardi e le misure di
sicurezza aumentano i costi in media di 538 dollari americani per spedizione, determinando un deficit
commerciale significativo e persistente.
Inoltre, Israele ha imposto la politica dell’“duplice uso” nel 2007 che limita l’ingresso di qualsiasi
merce ritenuta di uso potenzialmente militare, oltre che civile, compresi prodotti chimici e tecnologia.
L’elenco dei 117 elementi responsabili è vago, comprese categorie come “apparecchiature di
comunicazione, apparecchiature di supporto alla comunicazione o apparecchiature con funzioni di
comunicazione” che possono includere elementi che si trovano nell’uso quotidiano, come
elettrodomestici e apparecchiature mediche. Questa politica si applica solo agli importatori
palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, non alle loro controparti israeliane e nemmeno ai
coloni israeliani nei Tpo. Ha avuto un impatto devastante sull’economia in generale, in particolare sui
settori dell’agricoltura, delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e manifatturiera, e
ha avuto effetti catastrofici in particolare nella Striscia di Gaza.
Nel frattempo, separando fisicamente Gerusalemme est dal resto della Cisgiordania, dalla seconda
Intifada le autorità israeliane hanno ostacolato la capacità dei palestinesi di accedere ai mezzi di
sussistenza e ridotto considerevolmente il ruolo della città come principale centro commerciale della
Cisgiordania. Secondo la Conferenza delle Nazioni unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad), tra il
1993 e il 2013, l’economia palestinese a Gerusalemme est si è ridotta di circa il 50 per cento,
mentre la recinzione/muro ha causato oltre 1 miliardo di dollari di perdite dirette ai palestinesi a
Gerusalemme est nei primi 10 anni dall’inizio della sua costruzione. Altrove in Cisgiordania, secondo
l’Ufficio centrale di statistica palestinese, le restrizioni di movimento imposte da Israele costano ai
palestinesi 60 milioni di ore di lavoro perse all’anno (equivalenti a 274 milioni di dollari).
Il blocco e le ripetute offensive militari di Israele hanno avuto un pesante impatto sulle infrastrutture
essenziali di Gaza e hanno ulteriormente debilitato il suo sistema sanitario e l’economia, lasciando
l’area in uno stato di perenne crisi umanitaria. In effetti, la punizione collettiva israeliana della
popolazione civile di Gaza, la maggior parte della quale sono bambini, ha creato condizioni ostili alla
vita umana a causa della carenza di alloggi, acqua potabile ed elettricità e della mancanza di accesso
a medicinali essenziali e cure mediche, cibo, attrezzature educative e materiali da costruzione.
Secondo l’Unctad, tra il 2007 e il 2018, a causa del blocco israeliano, la quota di Gaza nell’economia
palestinese è diminuita dal 31 per cento al 18 per cento. Di conseguenza, più di 1 milione di persone
sono state spinte al di sotto della soglia di povertà, con il tasso di povertà in aumento dal 40 per
cento nel 2007 al 56 per cento nel 2017. Ciò ha aggravato la dipendenza di oltre l’80 per cento della
popolazione dall’assistenza internazionale.
Il crollo dell’economia di Gaza causato dal blocco è stato esacerbato da quattro offensive militari
israeliane negli ultimi 13 anni, che hanno causato un’enorme distruzione di proprietà civili e
infrastrutture essenziali, tra cui elettricità, acqua, fognature e impianti sanitari, oltre a uccidere
almeno 2700 civili palestinesi, a ferire e portare allo sfollamento di decine di migliaia di altri. Durante
questo lasso di tempo i gruppi armati palestinesi hanno lanciato indiscriminatamente migliaia di razzi
verso città e paesi in Israele, uccidendo o ferendo decine di civili. Nel 2019, l’Unctad ha stimato che
il costo delle tre operazioni militari israeliane a Gaza tra il 2008 e il 2014 fosse almeno tre volte il
Pil di Gaza.
Le dure restrizioni alla circolazione hanno un effetto particolarmente dannoso sul settore agricolo.
Prima del 1967, il settore agricolo impiegava circa un quarto della forza lavoro in Cisgiordania e
contribuiva per circa un terzo al Pil e alle esportazioni. In seguito all’occupazione, le autorità
israeliane hanno privato i palestinesi e la loro economia del 63 per cento dei pascoli più fertili e
migliori situati nell’area C costruendo insediamenti e la recinzione/muro, e imponendo dure restrizioni
al movimento dei palestinesi e alla loro capacità di accedere alla loro terra.
La recinzione/muro ha isolato più del 10 per cento dell’area della Cisgiordania, colpendo direttamente
219 località palestinesi e facendo sì che circa l’80 per cento degli agricoltori palestinesi che hanno
la terra nella “zona cuscinetto” tra la recinzione/muro e la linea verde perdessero l’accesso a tale
terra. Per accedere ai loro terreni agricoli nella “zona cuscinetto” gli agricoltori devono ottenere
permessi militari, che vanno rinnovati ripetutamente. Per chi riesce ad ottenerli, l’accesso è
consentito solo a piedi e attraverso gli appositi cancelli agricoli che compaiono sui permessi.
Inoltre, Israele controlla che oltre il 35 per cento dei terreni agricoli a Gaza e l’85 per cento dell’area
di pesca lungo la costa di Gaza siano off-limits per i palestinesi, a causa della “zona cuscinetto” e
dell’area marittima con accesso limitato. Si stima che circa 178.000 persone, inclusi 113.000
agricoltori, non possano più accedere ai terreni agricoli nella “zona cuscinetto”. Dal 2014, l’esercito
israeliano ha spruzzato erbicidi in aereo sui raccolti palestinesi lungo la recinzione tra Gaza e Israele,
provocando la perdita di mezzi di sussistenza per gli agricoltori di Gaza, con implicazioni di vasta
portata per la salute. Sebbene Israele affermi che l’irrorazione ha lo scopo di “consentire operazioni
di sicurezza ottimali e continue”, non ha fornito alcuna prova a sostegno di questa affermazione.
Dalla scoperta di petrolio e gas al largo della costa di Gaza, Israele ha ripetutamente modificato la
demarcazione della costa marittima di Gaza, riducendola a volte a sole tre miglia nautiche. La
mancanza di accesso a sufficienti acque di pesca colpisce circa 65.000 abitanti di Gaza e ha
impoverito quasi il 90 per cento dei pescatori. Inoltre, la marina israeliana usa la forza letale contro
i pescatori di Gaza che lavorano al largo della costa, affonda e sequestra le loro barche.
Oltre a negare ai palestinesi l’accesso ai mezzi di sussistenza attraverso severe restrizioni alla
circolazione, le autorità israeliane si sono sistematicamente e illegalmente appropriati di risorse
naturali dei palestinesi a beneficio economico dei propri cittadini in Israele e negli insediamenti, in
violazione del diritto internazionale. Lo sfruttamento da parte di Israele delle risorse naturali
palestinesi, terreni agricoli fertili, acqua, petrolio, gas, pietre e minerali del mar Morto, priva i
palestinesi della parità di accesso o dell’opportunità di amministrare, sviluppare e beneficiare delle
proprie risorse. Ciò pregiudica gravemente il loro accesso ai mezzi di sussistenza e ai diritti
socioeconomici, come il diritto al cibo e un tenore di vita adeguato.
Il controllo israeliano delle risorse idriche e delle infrastrutture legate all’acqua nei Tpo si traduce in
evidenti disuguaglianze tra palestinesi e coloni ebrei. Le autorità israeliane limitano l’accesso dei
palestinesi all’acqua in Cisgiordania attraverso ordini militari, che impediscono loro di costruire nuovi
impianti idrici senza prima aver ottenuto un permesso dall’esercito israeliano. Non sono in grado di
perforare nuovi pozzi, installare pompe o ingrandire pozzi esistenti e viene loro negato l’accesso al
fiume Giordano e alle sorgenti d’acqua dolce. Israele controlla persino la raccolta dell’acqua piovana
nella maggior parte della Cisgiordania e l’esercito israeliano spesso distrugge le cisterne per la raccolta
dell’acqua piovana di proprietà delle comunità palestinesi. Nel frattempo, nella Striscia di Gaza, la
falda acquifera costiera è stata esaurita dall’eccesso di estrazione israeliana e contaminata da liquami
e infiltrazioni di acqua di mare, con il risultato che oltre il 95 per cento della sua acqua non è idonea
al consumo umano.
Come risultato di queste politiche, il consumo medio palestinese di acqua nei Tpo è di circa 70 litri
al giorno a persona, con circa 420.000 persone in Cisgiordania consumano circa 50 litri al giorno,
meno di un quarto del consumo medio israeliano di circa 300 litri a persona. Per i coloni israeliani
che risiedono negli insediamenti israeliani, il consumo medio giornaliero di acqua è di 369 litri, circa
sei volte la quantità consumata dai palestinesi. Secondo l’Onu, il 90 per cento delle famiglie a Gaza,
già povere, deve acquistare acqua da impianti di desalinizzazione o depurazione, che costa tra le 10
e le 30 volte di più dell’acqua convogliata.
Il governo israeliano discrimina quando fornisce fondi al sistema sanitario al servizio dei cittadini
palestinesi di Israele, anche se la situazione della salute è peggiore rispetto ai loro omologhi ebrei
israeliani, e non fornisce alcuna struttura sanitaria ai beduini palestinesi che vivono in villaggi non riconosciuti nel Negev/Naqab, costringendo loro a percorrere lunghe distanze per cercare assistenza medica. Ciò si riflette in significativi divari sanitari tra la popolazione ebraica e quella araba (prevalentemente palestinese), con quest’ultima che universalmente registra un punteggio peggiore nelle statistiche ufficiali. Ad esempio, nel 2019 la mortalità infantile per i cittadini arabi di Israele (5,4 per 1000 nascite) è stata più del doppio di quella per gli ebrei israeliani (2,4).
In Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, l’occupazione militare di Israele durata mezzo secolo non ha solo un impatto sul livello di salute dei palestinesi, ma anche sulla loro capacità di accedere alle cure mediche necessarie, in particolare cure specialistiche per gravi condizioni mediche, disponibili in molti casi solo a Gerusalemme est, in Israele o all’estero. Le persone inviate per cure mediche a Gerusalemme est o in Israele devono richiedere un permesso militare israeliano per motivi umanitari.
Tali permessi sono difficili da ottenere e spesso rilasciati in ritardo o negati. Il regime dei permessi ha un impatto particolarmente devastante sulla salute dei palestinesi a Gaza, dove il blocco, unito a una crisi energetica cronica, ha minato la disponibilità e la qualità dei servizi sanitari e ha lasciato il sistema vicino al collasso.
Infine, Israele discrimina le studentesse e gli studenti palestinesi in Israele e a Gerusalemme est, che ricevono meno finanziamenti rispetto ai loro omologhi ebrei a tutti i livelli di istruzione scolastica.
Un’analisi del Mossawa Center del bilancio 2016 del ministero dell’Istruzione israeliano ha rilevato che gli studenti arabi (prevalentemente palestinesi) provenienti da contesti svantaggiati hanno ricevuto il 30 per cento in meno di finanziamenti per ogni ora di apprendimento nell’istruzione primaria, il 50 per cento in meno a livello di scuola media e il 75 per cento in meno per finanziamenti a livello di scuola secondaria rispetto agli studenti ebrei con la stessa condizione socioeconomica.

UN SISTEMA DI APARTHEID

Israele ha creato e mantiene un regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e dominio sulle palestinesi e sui palestinesi, che viene applicato in tutto Israele e nei Territori occupati attraverso il rafforzamento delle leggi, delle politiche e delle pratiche discriminatorie e, se considerato come una totalità, controlla praticamente ogni aspetto della vite dei palestinesi e viola regolarmente i loro diritti umani.
Questo sistema di apartheid ha avuto origine con la creazione di Israele nel maggio 1948 ed è stato costruito e mantenuto per decenni dai successivi governi israeliani in tutti i territori che hanno controllato, indipendentemente dal partito politico al potere in quel momento. Israele ha sottoposto diversi gruppi di palestinesi a diversi insiemi di leggi, politiche e pratiche discriminatorie ed escludenti in momenti diversi, in base alle conquiste territoriali ottenute prima nel 1948 e poi nel 1967, quando ha annesso Gerusalemme est e occupato il resto della Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Nel corso dei decenni, le considerazioni demografiche e geopolitiche israeliane hanno plasmato le politiche nei confronti dei palestinesi in ciascuno di questi domini territoriali.
Sebbene il sistema di apartheid israeliano si manifesti in modi diversi nelle varie aree sotto il suo effettivo controllo, ha perseguito costantemente lo scopo di opprimere e dominare i palestinesi a beneficio degli ebrei israeliani, che sono privilegiati dal diritto civile israeliano indipendentemente da dove risiedono. È progettato per mantenere una schiacciante maggioranza ebraica con accesso e beneficio dalla quantità massima di territorio e terra acquisita o controllata, limitando al contempo il diritto dei palestinesi di contestare l’espropriazione della loro terra e proprietà. Questo sistema è stato applicato ovunque Israele abbia esercitato un controllo effettivo su territorio e terra o sull’esercizio dei diritti dei palestinesi. Si realizza nella legge, nella politica e nella pratica e si riflette nella narrativa dello stato dalla sua istituzione fino ad oggi.
Sebbene il diritto internazionale si applichi in modo diverso alle situazioni in Israele e nei Tpo, questo non giustifica la discriminazione vietata contro i palestinesi in nessuna delle aree sotto il controllo di Israele. Il trattamento riservato da Israele ai palestinesi all’interno di Israele è disciplinato dal diritto internazionale dei diritti umani, a esclusione del diritto internazionale umanitario. Nei Tpo, la condotta di Israele è vincolata sia dalle norme del diritto internazionale umanitario relative all’occupazione militare (diritto di occupazione) sia dai suoi obblighi ai sensi del diritto internazionale dei diritti umani. La legge sull’occupazione consente, e in alcuni casi richiede, di applicare un trattamento differenziato tra i cittadini della potenza occupante e la popolazione del territorio occupato. Tuttavia, non consente alla potenza occupante di applicarlo laddove l’intenzione è quella di stabilire o mantenere un regime di oppressione e dominio razziale sistematico.
Il continuo spostamento forzato della maggioranza dei palestinesi dalle loro terre e proprietà nel 1947-49 e successivamente nel 1967; le deportazioni forzate, i trasferimenti forzati e le restrizioni arbitrarie alla loro libertà di movimento; il diniego della cittadinanza e il diritto al ritorno; l’espropriazione razzializzata e discriminatoria delle loro terre e proprietà; e la successiva assegnazione discriminatoria e l’accesso alle risorse nazionali (compresi terra, alloggi e acqua) si combinano non solo per ostacolare l’attuale godimento da parte dei palestinesi dei loro diritti, compreso l’accesso ai mezzi di sussistenza, al lavoro, all’assistenza sanitaria, alla sicurezza alimentare, all’acqua e ai servizi igienici e all’istruzione, ma anche per garantire che i palestinesi, come persone o comunità, non possano godere di uno status uguale a quello degli ebrei israeliani in Israele, nei Tpo e in altre situazioni in cui Israele esercita il controllo sul godimento dei loro diritti da parte dei palestinesi, in particolare il diritto al ritorno. La discriminazione razziale e la segregazione dei palestinesi sono il risultato di una deliberata politica del governo. Le regolari violazioni dei diritti dei palestinesi non sono ripetizioni accidentali di reati, ma fanno parte di un regime istituzionalizzato di oppressione e dominio sistematici. Israele, e le persone che agiscono per suo conto, nel processo di instaurazione e mantenimento di un sistema di dominio e oppressione sui palestinesi, hanno perpetrato sistematicamente atti crudeli e disumani proibiti, rispettivamente, dalla Convenzione sull’apartheid e dallo Statuto di Roma. Amnesty International ha esaminato in modo specifico gli atti crudeli o disumani come trasferimento forzato, detenzione amministrativa e tortura, uccisioni illegali e ferite gravi, negazione delle libertà fondamentali o persecuzione nei confronti della popolazione palestinese in Israele e nei Tpo, associati al rafforzamento del sistema di leggi, politiche e pratiche discriminatorie sopra descritto.
L’organizzazione ha concluso che lo schema di atti proibiti perpetrati da Israele sia all’interno di Israele che nei Tpo fanno parte di un attacco sistematico e diffuso diretto contro la popolazione palestinese e che gli atti crudeli o disumani commessi nel contesto di questo attacco sono stati commessi con l’intenzione di mantenere questo sistema e si configurano come crimine contro l’umanità di apartheid sia ai sensi della Convenzione sull’apartheid che dello Statuto di Roma.

  1. TRASFERIMENTI FORZATI
    Israele mette in atto una miriade di leggi e politiche per costringere i palestinesi in Israele e nei Tpo in piccole enclavi o a lasciare del tutto il territorio. Nel Negev/Naqab in Israele, a Gerusalemme est e nell’Area C della Cisgiordania, che sono sotto il pieno controllo israeliano, le autorità israeliane impongono regimi di pianificazione e costruzione contro la popolazione palestinese che si traducono in schemi diffusi di demolizioni di case e altre proprietà, comprese le strutture direttamente legate ai mezzi di sussistenza, giustificate sulla base della mancanza di licenze edilizie. Le stesse autorità negano alle comunità in queste aree la fornitura di servizi essenziali e, nel caso dei Tpo, non intraprendono alcuna azione contro gli attacchi violenti da parte dei coloni israeliani.
    Complessivamente queste politiche creano un ambiente coercitivo che mira a costringere le e i palestinesi ad abbandonare le loro case.
    I palestinesi sono intrappolati in una situazione paradossale. Israele richiede loro di ottenere un permesso per costruire o addirittura per erigere strutture come una tenda, ma raramente rilascia loro questo permesso. Di conseguenza, per avere un tetto o sviluppare le loro comunità, i palestinesi costruiscono senza permesso. Le forze israeliane poi demoliscono le strutture sulla base del fatto che sono state costruite senza permesso. Al contrario, le autorità israeliane consentono liberamente emendamenti ai piani regolatori per promuovere lo sviluppo di città ebraiche in Israele o degli insediamenti israeliani nei Tpo. Dal 1948, Israele ha demolito decine di migliaia di case e altre proprietà palestinesi in tutte le aree sotto la sua giurisdizione ed effettivo controllo. Ciò include la distruzione di più di 500 villaggi palestinesi in quello che divenne lo stato di Israele dopo il conflitto del 1947-49. A farne le spese sono alcune delle comunità più povere e marginalizzate sia nella società israeliana che in quella palestinese, spesso rifugiati o sfollati interni, costretti a fare affidamento su reti famigliari e soggetti umanitari per ottenere un riparo e mezzi di sussistenza.
    In maniera simile, la revoca da parte di Israele dello status di residenza permanente ai danni di migliaia di palestinesi a Gerusalemme est ha portato a trasferimenti forzati.
    Inoltre, Israele ha deliberatamente distrutto case e sfollato civili durante le operazioni militari, rendendo decine di migliaia di palestinesi senza casa e sfollati. Le evidenze indicano che la maggior parte di queste operazioni non era giustificata da necessità militari e ha costituito una violazione del diritto umanitario internazionale. Considerate nel contesto del sistema di oppressione e dominio, queste violazioni contribuiscono a mantenere il sistema di apartheid. Le politiche statali discriminatorie, i regolamenti e la condotta di Israele contro i palestinesi in Israele e nei Tpo comprendono il crimine contro l’umanità di deportazione o trasferimento forzato sia ai sensi dello Statuto di Roma che della Convenzione sull’apartheid.DETENZIONE AMMINISTRATIVA, TORTURA E ALTRI TRATTAMENTI DEGRADANTI
    Dall’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza nel 1967, le autorità israeliane hanno fatto un uso diffuso della detenzione amministrativa per imprigionare migliaia di palestinesi, compresi bambini, senza accuse o processo con ordini di detenzione rinnovabile. Il sistema giudiziario militare nei Tpo ha utilizzato questi ordini per rinchiudere migliaia di palestinesi, compresi i minori, per mesi e a volte anni. Israele ricorre regolarmente alla detenzione amministrativa contro gli oppositori politici dell’occupazione. Al contrario, la detenzione amministrativa è stata usata raramente per detenere cittadini ebrei di Israele. Sebbene la detenzione amministrativa possa essere legale in determinate circostanze, l’uso sistematico che ne fa Israele contro le palestinesi e i palestinesi indica che viene utilizzata per perseguitarli, piuttosto che come misura di sicurezza straordinaria e selettiva.
    Di conseguenza, Amnesty International ha considerato molti detenuti amministrativi come prigionieri di coscienza detenuti per le loro opinioni contrarie alle politiche di occupazione. Inoltre, per decenni, l’Agenzia per la sicurezza israeliana, il servizio carcerario israeliano e le forze militari israeliane hanno torturato o maltrattato in altro modo i detenuti palestinesi, compresi i minori, durante l’arresto, il trasferimento e l’interrogatorio.
    L’Agenzia per la sicurezza israeliana utilizza metodi particolarmente severi per ottenere informazioni e “confessioni”. Tra i metodi regolarmente segnalati dai detenuti palestinesi si annoverano dolorose sessioni legati o incatenati, l’immobilizzazione in posizioni di stress, la privazione del sonno, le minacce, le molestie sessuali, l’isolamento prolungato e gli abusi verbali. I tribunali israeliani ritengono ammissibili le prove ottenute attraverso la tortura di palestinesi, accettando la giustificazione della “necessità”. Indagini tempestive, approfondite e imparziali da parte delle autorità israeliane sulle accuse dei palestinesi di essere stati torturati sono estremamente rare, poiché darebbero effettivamente l’avallo statale al crimine di tortura.
    L’uso diffuso e sistematico da parte di Israele di arresti arbitrari, detenzioni amministrative e torture su larga scala contro i palestinesi, in flagrante violazione delle regole fondamentali e delle norme perentorie del diritto internazionale, fa parte della politica statale di dominio e controllo sulla popolazione palestinese.
    Questo sistema costituisce parte dell’attacco diffuso e sistematico dello stato alla popolazione palestinese e si configura come crimine contro l’umanità di “carcerazione o altra grave privazione della libertà fisica” e “tortura” ai sensi dello Statuto di Roma e della Convenzione sull’apartheid.
  2. UCCISIONI ILLEGALI E LESIONI GRAVI
    Dal 1967 le forze israeliane hanno ucciso e ferito migliaia di civili palestinesi nei Tpo, spesso in circostanze che suggeriscono che le uccisioni erano sistematiche, illegali e arbitrarie e con una quasi totale impunità. Omicidi e ferimenti sono stati perpetrati al di fuori del contesto del conflitto armato durante le attività delle forze dell’ordine israeliane nei Tpo, durante la repressione delle proteste, i raid di arresto, l’applicazione di restrizioni di viaggio e movimento e lo svolgimento di operazioni di ricerca. In alcuni casi, sembra che le forze israeliane abbiano deliberatamente preso di mira medici, giornalisti e difensori dei diritti umani durante le proteste. Nonostante le ampie prove di uccisioni illegali, Amnesty International non è a conoscenza di alcun caso in cui un membro delle forze di sicurezza israeliane sia stato condannato per aver intenzionalmente causato la morte di un palestinese nei Tpo dal 1987. In generale, i procedimenti giudiziari sono stati estremamente rari. Quando si sono verificate condanne, i soldati sono stati condannati per omicidio colposo o reati minori.
    Si ripete uno schema in cui le forze dell’ordine e gli agenti di sicurezza israeliani uccidono palestinesi residenti in Israele, anche nel contesto delle proteste contro le politiche e le azioni discriminatorie israeliane, in circostanze che indicano che le uccisioni sono illegali.
    L’utilizzo eccessivo della forza contro i palestinesi durante le operazioni delle forze dell’ordine, le informazioni disponibili sulle “regole di ingaggio” dell’esercito israeliano, nonché le dichiarazioni dei funzionari israeliani a seguito di tali operazioni, in particolare durante le proteste, riflettono una politica pianificata e persistente finalizzata all’uso delle armi per uccidere o mutilare i palestinesi. Si configurano come atti crudeli e disumani di “omicidio” e “altri atti disumani di carattere simile che causano intenzionalmente grandi sofferenze o gravi lesioni al corpo o alla salute mentale o fisica” o “l’inflizione ai membri di un gruppo o gruppi razziali di gravi danni fisici o mentali” ai sensi dello Statuto di Roma e della Convenzione sull’apartheid.
  3. NEGAZIONE DEI DIRITTI E DELLE LIBERTÀ FONDAMENTALI E PERSECUZIONE
    La sistematica negazione da parte di Israele del diritto alla nazionalità e le severe restrizioni alla circolazione e al soggiorno, compreso il diritto di partire e di tornare nel proprio paese, vanno oltre quanto è giustificabile secondo il diritto internazionale. La loro ampia applicazione ha preso di mira la popolazione palestinese in modo discriminatorio sulla base della loro identità razzializzata di palestinesi, influendo sulla loro partecipazione alla vita politica, sociale, economica e culturale in Israele e nei Tpo e ne impediscono deliberatamente il pieno progresso come gruppo. Queste restrizioni minano ulteriormente il godimento di una serie di diritti e libertà fondamentali, compresi il diritto alla libertà di opinione e di espressione, alla libertà di riunione pacifica e di associazione, ai mezzi di sussistenza, al lavoro, alla salute, al cibo e all’istruzione.
    Negando alla popolazione palestinese i diritti umani fondamentali attraverso anni di deliberate politiche discriminatorie ed escludenti e dichiarazioni ufficiali che si riflettono nella pratica, le autorità israeliane hanno commesso il crimine contro l’umanità di “persecuzione” ai sensi dello Statuto di Roma del Tribunale penale internazionale e “negazione dei diritti umani fondamentali” che “impediscano al gruppo o ai gruppi razziali di partecipare alla vita politica, sociale, economica e culturale del Paese e alla creazione deliberata di condizioni che impediscano il loro pieno sviluppo” ai sensi della Convenzione sull’apartheid.
  4. CONSIDERAZIONI SULLA SICUREZZA E INTENTO DI OPPRIMERE E DOMINARE
    Israele ha l’obbligo, ai sensi del diritto internazionale, di proteggere dalla violenza tutte le persone sotto la sua giurisdizione e il suo controllo. Nel contesto di un conflitto armato internazionale e di un’occupazione militare possono verificarsi circostanze in cui il trattamento diverso di gruppi diversi si basa su motivi legittimi senza violare il divieto di discriminazione. Sebbene le legittime preoccupazioni in materia di sicurezza possano consentire un trattamento differenziato dei palestinesi, le politiche relative alla sicurezza devono essere conformi al diritto internazionale e garantire che eventuali restrizioni ai diritti siano necessarie e proporzionate alla minaccia alla sicurezza. Amnesty International dimostra invece che le autorità israeliane hanno perseguito politiche che discriminano deliberatamente i palestinesi per un periodo prolungato e con particolare crudeltà senza nessuna ragionevole giustificazione in termini di sicurezza o “difesa”. Ad esempio, la negazione discriminatoria prolungata e crudele dell’accesso dei palestinesi alla loro terra e proprietà sequestrata in modo violento e discriminatorio non ha alcuna logica di sicurezza. Non ci sono giustificazioni securitarie per l’effettiva segregazione dei palestinesi residenti in Israele attraverso leggi discriminatorie sulla pianificazione e l’accesso all’alloggio o la negazione del loro diritto di rivendicare le proprietà e le case sequestrate sotto il pretesto di leggi razziste. Allo stesso modo, le interferenze arbitrarie e discriminatorie nei diritti dei palestinesi residenti in Israele di sposarsi e di estendere il diritto di soggiorno ai loro coniugi e figli, in assenza di prove che determinati individui rappresentino una minaccia, non possono essere giustificate sulla base della sicurezza.
    Nel contesto dell’occupazione israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, alcune limitazioni ai diritti umani possono essere consentite dal diritto umanitario internazionale se condotte in buona fede. Tuttavia, la giustificazione per il trattamento differenziato non può estendersi agli insediamenti di ebrei israeliani nei territori occupati. Né può estendersi agli omicidi, alle uccisioni mirate, alle torture, alle deportazioni e ai trasferimenti forzati che sono stati perpetrati nei Tpo nel corso degli anni. Amnesty International ha dimostrato che altre politiche che Israele ha giustificato per motivi di sicurezza sono state costantemente attuate in modo grossolanamente sproporzionato e discriminatorio, con conseguenti violazioni sistematiche e di massa dei diritti umani dei palestinesi.
    Tra queste, le politiche israeliane di restrizioni radicali, severe e a lungo termine alla libertà di movimento in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.
  5. CONCLUSIONI E RACCOMANDAZIONI
    La totalità del regime di leggi, politiche e pratiche descritto da Amnesty International dimostra che Israele ha stabilito e mantenuto un regime istituzionalizzato di oppressione e dominio della popolazione palestinese a beneficio degli ebrei israeliani – un sistema di apartheid – ovunque abbia esercitato il controllo sulla vita dei palestinesi dal 1948. Amnesty International conclude che lo stato di Israele considera e tratta i palestinesi come un gruppo razziale non ebraico inferiore. La segregazione è condotta in modo sistematico e altamente istituzionalizzato attraverso leggi, politiche e pratiche, tutte volte a impedire ai palestinesi di rivendicare e godere di diritti uguali a quelli degli ebrei israeliani all’interno del territorio di Israele e all’interno dei Tpo, e quindi hanno lo scopo di opprimere e dominare il popolo palestinese. In maniera complementare, è messo in atto un regime legale che controlla (negandolo) il diritto dei rifugiati palestinesi residenti al di fuori di Israele e dei Tpo di tornare alle loro case. Lo smantellamento di questo crudele sistema di apartheid è essenziale per i milioni di palestinesi che continuano a vivere in Israele e nei Tpo, nonché per permettere il ritorno dei rifugiati palestinesi che rimangono sfollati nei paesi vicini, spesso entro 100 km dalle loro case originarie, in modo che possano godere dei propri diritti umani senza discriminazioni.
    Tra le raccomandazioni più specifiche, Amnesty International chiede a Israele di rimuovere tutte le misure di discriminazione, segregazione e oppressione attualmente in vigore contro la popolazione palestinese e di intraprendere una revisione di tutte le leggi, i regolamenti, le politiche e le pratiche che discriminano in base alla razza, motivi etnici o religiosi al fine di abrogarli o modificarli in linea con il diritto e gli standard internazionali in materia di diritti umani.
    Israele deve garantire uguali e pieni diritti umani a tutti i palestinesi in Israele e nei Territori palestinesi occupati in linea con i principi del diritto internazionale dei diritti umani e senza discriminazioni, garantendo il rispetto delle tutele garantite ai palestinesi nei Tpo dal diritto umanitario internazionale. Deve anche riconoscere il diritto dei rifugiati palestinesi e dei loro discendenti a tornare nelle case dove loro o le loro famiglie vivevano in Israele o nei Territori occupati.
    Inoltre, Israele deve risarcire integralmente le vittime delle violazioni dei diritti umani, dei crimini contro l’umanità e delle gravi violazioni del diritto internazionale umanitario – e delle loro famiglie, includendo la restituzione e il risarcimento di tutte le proprietà requisite su base razziale.
    L’entità e la gravità delle violazioni documentate in questo rapporto indicano chiaramente che la comunità internazionale ha bisogno di cambiare urgentemente e drasticamente il suo approccio al conflitto israelo-palestinese e di riconoscere l’intera portata dei crimini che Israele perpetra contro il popolo palestinese. In effetti, per oltre settant’anni, la comunità internazionale è rimasta a guardare
    mentre a Israele è stata data via libera per espropriare, segregare, controllare, opprimere e dominare i palestinesi.
    Le numerose risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite adottate nel corso degli anni sono rimaste lettera morta e Israele non ha dovuto sostenere ripercussioni per azioni che hanno violato il diritto internazionale, a parte le condanne stereotipate. Considerare le violazioni israeliane contro i palestinesi nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza semplicemente nel quadro del diritto umanitario internazionale, e separatamente dalle violazioni perpetrate contro i palestinesi in Israele, non affronta le cause profonde del conflitto e non garantisce nessuna forma di responsabilità e giustizia per le vittime.
    Non attuando azioni significative per ritenere Israele responsabile delle sue violazioni e crimini sistematici e diffusi ai sensi del diritto internazionale contro la popolazione palestinese, la comunità internazionale ha contribuito a minare l’ordine legale internazionale e ha incoraggiato Israele a continuare a perpetrare crimini impunemente. In effetti, alcuni stati hanno attivamente sostenuto le violazioni di Israele fornendogli armi, attrezzature e altri strumenti per perpetrare crimini ai sensi del diritto internazionale e fornendo copertura diplomatica, anche presso il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, per limitarne le responsabilità. In tal modo, hanno completamente abbandonato il popolo palestinese e hanno solo esacerbato l’esperienza quotidiana dei palestinesi come persone con meno diritti e uno status inferiore rispetto agli ebrei israeliani.
    Mentre alla fine il cambiamento può venire solo dall’interno di Israele, la comunità internazionale può intraprendere azioni concrete per fare pressione su Israele affinché smantelli il suo sistema di apartheid. Il crimine contro l’umanità di apartheid comporta una responsabilità penale internazionale individuale, che si applica alle persone, membri di organizzazioni e rappresentanti dello stato che partecipano alla sua realizzazione. Pertanto, lo stesso Israele, le autorità palestinesi, la comunità internazionale e il Tribunale penale internazionale dovrebbero indagare sul reato di apartheid ai sensi del diritto internazionale.
    Tutti gli stati possono esercitare la giurisdizione universale su tutte le persone ragionevolmente sospettate di aver commesso il reato di apartheid, mentre gli stati che sono parte della Convenzione sull’apartheid hanno l’obbligo di farlo, incluso perseguire, portare in giudizio e punire le persone responsabili del reato. Ciò significa che gli stati devono condurre indagini penali rapide, efficaci e imparziali quando vengono presentate prove ragionevoli che un individuo all’interno del loro territorio o sotto il loro controllo è ragionevolmente sospettato di responsabilità penale oppure devono estradare sospetti in un’altra giurisdizione che lo farà.
    Quasi sei anni dopo che il procuratore della Corte penale internazionale aveva annunciato l’apertura di un’indagine preliminare sulla “Situazione in Palestina”, nel febbraio 2021, la Camera istruttoria ha concluso che “la giurisdizione territoriale della Corte nella situazione in Palestina si estende ai territori occupati da Israele dal 1967, ovvero Gaza e Cisgiordania, compresa Gerusalemme est”, aprendo la strada alle indagini sui crimini commessi nei Tpo dal 13 giugno 2014. Il 3 marzo 2021 la procura ha annunciato che il suo ufficio stava procedendo all’apertura di un’indagine sui reati rientranti nello Statuto di Roma del Tribunale penale internazionale commessi nei Tpo. Amnesty International chiede quindi all’Ufficio del procuratore della Corte penale internazionale di considerare l’applicabilità del crimine contro l’umanità di apartheid nell’ambito della sua attuale indagine formale.
    Sebbene la Corte penale internazionale abbia ritenuto di avere giurisdizione sui crimini commessi a valere sullo Statuto di Roma nei Tpo, non ha giurisdizione sui crimini commessi all’interno di Israele stesso. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite deve quindi garantire che gli autori del crimine contro l’umanità di apartheid e di altri crimini di diritto internazionale in Israele e nei Tpo siano assicurati alla giustizia segnalando l’intera situazione alla Corte penale internazionale o istituendo un tribunale internazionale per processare i presunti colpevoli.
    Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite deve anche imporre sanzioni mirate, come il congelamento dei beni, contro i funzionari israeliani più coinvolti nel crimine dell’apartheid e un embargo globale sulle armi a Israele. Allo stesso tempo, l’Assemblea generale delle Nazioni unite dovrebbe ristabilire il Comitato Speciale contro l’apartheid, originariamente istituito nel novembre 1962, per concentrarsi su tutte le situazioni, incluse quelle in corso in Israele e nei Territori occupati, in cui la grave violazione dei diritti umani si configura come apartheid e per esercitare pressioni sui responsabili affinché annullino questi sistemi di oppressione e dominio.
    Tutti i governi e gli attori regionali, in particolare quelli che intrattengono strette relazioni diplomatiche con Israele come gli Stati Uniti, l’Unione Europea e i suoi stati membri e il Regno Unito, ma anche quegli stati che stanno rafforzando i loro legami – come alcuni stati arabi e africani – non devono sostenere il sistema dell’apartheid o fornire aiuti o assistenza al mantenimento di un tale regime ma cooperare per porre fine a questa situazione illegale. Il primo passo è riconoscere che Israele sta commettendo il reato di apartheid e altri crimini internazionali e utilizzare tutti gli strumenti politici e diplomatici per garantire che le autorità israeliane attuino le raccomandazioni delineate in questo rapporto e riesaminino qualsiasi cooperazione e attività con Israele per garantire che questi non contribuiscano al mantenimento del sistema dell’apartheid.
    Amnesty International ribadisce inoltre il suo appello di lunga data agli stati a sospendere immediatamente la fornitura, la vendita o il trasferimento diretti e indiretti di tutte le armi, munizioni e altre attrezzature militari e di sicurezza, compresa la fornitura di addestramento e altra assistenza militare e di sicurezza. Infine, chiede agli stati di istituire e applicare un divieto sui prodotti provenienti dagli insediamenti israeliani.
    Le autorità palestinesi dal canto loro devono inoltre garantire che qualsiasi tipo di rapporto con Israele, in primo luogo attraverso il coordinamento della sicurezza, non contribuisca al mantenimento del sistema di apartheid contro le e i palestinesi nei Tpo e dovrebbero documentare, se necessario e in linea con gli standard internazionali, le discriminazioni e l’impatto dell’apartheid israeliano sulla popolazione palestinese nei Tpo per fornire prove di tale impatto ai tribunali internazionali competenti e ad altri organi.
    Anche le aziende hanno la responsabilità di valutare le loro attività in Israele e nei Tpo e assicurarsi che non contribuiscano o traggano beneficio dal sistema dell’apartheid, affrontare tale impatto quando si verifica e cessare le attività collegate se non può essere prevenuto.
    Infine, le organizzazioni umanitarie e di sviluppo nazionali e internazionali devono aumentare le attività di advocacy, sia pubblica che privata, con il governo israeliano per porre fine alla discriminazione e alla segregazione nelle leggi, nelle politiche e nelle pratiche contro i palestinesi in Israele e nei Territori occupati, anche attraverso aioni di sensibilizzazione dei donatori, e conducendo una rigorosa valutazione permanente di tutti i progetti e dell’assistenza alle palestinesi e ai palestinesi per garantire che siano attuati in modo da non rafforzare, sostenere o perpetuare la discriminazione e la segregazione.

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