La legge sul volontariato e la svolta delle Onlus
Quando avevo 19 anni, costituire un’associazione di volontariato era una sciocchezza. Quattro amici, uno statuto e un atto costitutivo, ricopiati da un fac-simile facilmente reperibile da un commercialista e l’iscrizione gratuita all’ufficio del registro. La legge quadro n.266 del 1991 aiutava a dare un assetto legale alle associazioni e ai circoli di cittadini volenterosi, sgravando da pastoie burocratiche e contabili tutte quelle attività che non erano commerciali e puntavano all’azione sociale, solidale e culturale.
Poi apparsero le Onlus, le organizzazioni non lucrative e di utilità sociale e naquero i Centri Servizi del Volontariato per aiutare ad organizzarle, a mantenerle dentro ai recinti dell’utilità sociale e, così facendo, dare una controllatina ai loro conti e alle loro carte. Ricordo che, dopo aver trasformato in Onlus la nostra piccola associazione di volontariato, ci vennero richiesti una serie di registri e libri contabili. Ci proposero di partecipare ad un bando di finanziamento pubblico che ci permetteva di pagarci un commercialista. Per fortuna, la nostra commercialista aderiva all’associazione e noi eravamo molto bravi a tenere i conti delle poche spese ed entrate che avevamo, così lei ci donava una parte del contributo ricevuto per pagarla. Ma la direzione dell’attenzione fiscale verso il volontariato si stava delineando chiaramente.
L’evasione fiscale dei ‘piccoli’
Si cominciò allora a vedere la campagna di ricerca dell’evasione fiscale della piccola impresa, come se il disastro del deficit italiano fosse causato dall’evasione degli idraulici che lavoravano con ditta individuale e partita iva. Ebbene si, giornalisti della cosiddetta sinistra culturale come Formigli iniziavano a portare nelle loro trasmissioni questi delinquenti pentiti che, a volto oscurato, confessavano di aver guadagnato bene a nero o pagando poche tasse. Nel frattempo le piattaforme dei servizi online crescevano: Amazon, Airbnb e tutti quelli come loro sguazzavano nell’oro evitando accuratamente di pagare tasse nei paesi dove offrivano il loro servizio, ma la legge annaspava nei loro confronti e la stampa era silenziosa.
E così siamo arrivati ai tempi nostri, quando la politica ha deciso di mettere in chiaro le cose anche nell’area del no profit, dopo aver approntato i servizi di supporto per le piccole imprese emergenti, mettendo tutto sotto controllo fin dall’inizio. I nostri governanti devono aver scoperto che dei pericolosi cittadini truccavano da associazione il baretto in cui si incontravano per giocare a carte o vedere film insieme. Chissà quanti baretti o pizzerie truccate da associazione di volontariato potevano esistere e, sommando i loro spiccioli, evadere miliardi al fisco! Perché le grandi associazioni no profit, le misericordie, i circoli e le polisportive, quelle no, onestissime, quelle hanno sempre continuato a essere finanziate con fondi nazionali, regionali, comunali ed europei quando necessario. E nonostante i grossi bilanci, hanno continuato a pagare in nero una parte del loro personale. Ma si sa, gli amici sono amici, e quando ti svolgono dei servizi sociali a basso costo e ti portano voti, un occhio si chiude volentieri.
La riforma del Terzo Settore e la rivoluzione digitale
Una nuova normativa quindi, la legge n. 106 del 6 giugno del 2016, varata durante il governo Renzi, ha decretato la rottamazione definitiva di tutte quelle piccole associazioni di volontari, fuori dai giri importanti, e ha creato il ‘Terzo Settore’ che, escludendo i partiti, i sindacati e le fondazioni (che si possono mantenere ancora in ampie zone di chiaroscuri fiscali), comprende tutto ciò che è noprofit. Il processo di riforma innescato da questa Legge è ancora in corso, con grande resistenza, a quanto pare, di moltissime realtà che erano abituate a gestirsi in una zona di sfumature di grigio dal punto di vista burocratico e contabile.
In tutto questo tempo e nonostante le trasformazioni legislative, le grosse associazioni di taglio culturale, ma anche le misericordie, le polisportive e le grosse ong di cooperazione interazionale hanno continuato a godere dei fondi pubblici in un modo o nell’altro. Ma da quando nel 2006 è stato possibile accedere al 5xmille anche per le realtà no profit, un numero sempre maggiore di associazioni ha cercato di accreditarsi per permettere ai propri associati e amici di contribuire anche in quella forma. Ovviamente per le piccole realtà, stiamo parlando di raccattare briciole, ma la carota serve sempre.
A seguito della riforme del Terzo Settore è stato curiosamente anche istituito il RUNTS, un registro digitale nazionale che raccoglie tutte le associazioni iscritte ai vari registri regionali. Non sappiamo quanto stia costando questa piattaforma online, ma non credo che i suoi sviluppatori siano volontari.
La rivoluzione digitale ha contribuito paradossalmente ad aumentare le pratiche burocratiche, sommando quelle online a quelle cartacee e aumentando le spese fisse degli enti no profit. Il Runts impone l’acquisto di firma digitale, la fatturazione elettronica è obbligatoria ma occorre anche avere libri fatture in cartaceo, il registro dei volontari deve essere vidimato in comune e così via. La riforma si dibatte, come d’altronde il mondo oggi, tra il sigillo in cera lacca di nobiliare memoria e il chip sottocutaneo.
La fine del volontariato puro
E in questo processo, dove sono finiti i volontari? A fare scartoffie, o meglio, a farsi inseguire dalle scartoffie e cercare lo stesso di organizzare qualcosa insieme ai volenterosi, che, tra l’altro, sono sempre più vecchi. Certo, perché noi fieri volontari degli anni 70-80 e 90, abbiamo tutti più di 50 anni e, quelli di noi che hanno la pensione, hanno tutto il tempo del mondo per fare i volontari, ma se questo è il requisito, la fine del volontariato è segnata. Il Terzo Settore invece è in crescita, con un volume di affari di 84 miliardi nel 2022, da quanto dice Il Sole 24 Ore, e qui trova lavoro una gioventù molto più smart, pagata poco ma con la soddisfazione di fare del bene. Di volontari puri se ne vedono pochi e per poco tempo. Esagerare i toni ci aiuta a vedere la direzione dei processi e non c’è dubbio che il no profit stia in un processo accelerato di aziendalizzazione che uccide in profondità l’essenza del volontariato, relegandolo alla ricerca di manovalanza dell’ultimo minuto. La trasformazione delle associazioni in aziende, anche se senza fini di lucro, allontana i volontari dalle decisioni di processo, perché al cuore dell’organizzazione restano solo i professionisti pagati. E quando il tuo stipendio dipende dal processo dell’associazione, le scelte non sono più tanto libere.
Quei “quattro amici al bar” che, un tempo, potevano legalizzare una forma per attivarsi ufficialmente in funzione della vita del quartiere o dell’ambito in cui volevano agire, dovranno trovare prima di tutto un commercialista, un segretario e un social media manager da pagare il meno possibile. Questo non incoraggia la crescita del volontariato ed è una triste perdita per il nostro tessuto sociale già smembrato e aggredito da tutte le parti.
Da ‘Il volontario’ di Silo (Silo, Discorsi, Multimage)
“C’è una grande differenza tra chi è obbligato a fare determinate cose per le quali in seguito verrà pagato e chi si esprime nel mondo esterno plasmandovi volontariamente contenuti interiori che forse non sono del tutto chiari nemmeno a lui stesso; contenuti che a volte tenta di esprimere con parole come “solidarietà”, senza intendere però quale sia il profondo significato di questa parola. Direi di più: questo povero volontario (che ogni volta che torna a casa viene ricevuto a piatti in faccia e messo in ridicolo) finirà per convincersi di essere davvero una specie di stupido e si dirà: “Lo sapevo, a me succede sempre così”. Per non parlare poi del caso in cui, invece che di un volontario, si tratti di una volontaria: caso che, in questa società, risulta tuttora molto più grave.
Di questo passo i volontari finiscono per sentirsi umiliati e così il sistema prima o poi riesce ad inghiottirli; ma questo succede perché nessuno ha spiegato loro come stiano le cose. Essi sanno di essere diversi dagli altri ma non riescono a darsi una spiegazione di quel che fanno. Infatti se li prendiamo da parte e chiediamo loro: ‘Allora, spiegateci un po’ che cosa ci guadagnate’, iniziano a balbettare ed a scrollare le spalle avviliti, come se avessero qualcosa di vergognoso da nascondere. Nessuno ha chiarito loro le idee, nessuno li ha forniti degli strumenti necessari per spiegare a se stessi e agli altri la ragione per la quale offrono al mondo l’enorme potenziale di cui dispongono senza aspettare alcun compenso per sé. Il che, evidentemente, è davvero straordinario.”
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