[SinistraInRete] Lorenzo Zamponi: Doppio colpo all’università

Rassegna 25/06/2024

 

Lorenzo Zamponi: Doppio colpo all’università

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Doppio colpo all’università

di Lorenzo Zamponi

Dopo la guerra all’autonomia del sapere scatenata dalle destre nelle settimane scorse, il governo passa alle vie di fatto: con un decreto che aumenta la precarizzazione e una legge delega che ridisegna la governance
Un doppio colpo all’università. Una riforma del precariato, che cancelli i passi avanti fatti nel 2022 tornando almeno alla Gelmini, se non a un suo peggioramento, da presentare subito, forse addirittura sotto forma di decreto da convertire in legge entro l’estate. E una riforma generale dell’università, che riveda governance, reclutamento, didattica e diritto allo studio, proposta sotto forma di legge delega in modo da permettere al governo di ridisegnare l’università a proprio piacimento.

Qualche settimana fa, su queste pagine, si parlava della guerra culturale scatenata dalla destra, non solo in Italia, contro l’università, come uno dei pochissimi luoghi di discussione comune e confronto tra idee rimasto nella nostra società. Nel giro di pochi giorni, ai primi di giugno, il governo ha aperto due fronti di conflitto molto concreti e materiali: prima, le anticipazioni fatte filtrare dalla commissione ministeriale sul precariato guidata dall’ex rettore del Politecnico di Milano Ferruccio Resta, sull’impellente proposta di revisione al ribasso delle figure contrattuali precarie della ricerca universitaria rispetto alla parzialmente migliorativa riforma del 2022; poi, nel consiglio dei ministri di martedì 4 giugno, il varo del disegno di legge sulla semplificazione normativa, che prevede, all’articolo 11, una delega ad ampio spettro al governo per riformare l’università. Due fulmini a ciel sereno, arrivati senza il minimo coinvolgimento della comunità accademica (con la parziale eccezione della Conferenza dei Rettori, come vedremo) e che entrano a gamba tesa in una situazione molto delicata: quella di un sistema universitario mai così pieno di precari (grazie al Pnrr), che difficilmente accetteranno di buon grado un’ulteriore riduzione delle possibilità di accesso a un contratto dignitoso. Una bomba a orologeria in attesa di esplodere.

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Fosco Giannini: Ue e movimento comunista: cosa dovrebbe fare, oggi, il MpRC, se fosse un partito comunista?

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Ue e movimento comunista: cosa dovrebbe fare, oggi, il MpRC, se fosse un partito comunista?

di Fosco Giannini*

L’esigenza dell’unità del movimento comunista dell’Ue nella ricerca politico-teorica e nella lotta anticapitalista sovranazionale

worker 156806 1280Cosa dovrebbe fare, che compiti prioritari avrebbe, dopo queste elezioni europee 2024, il Movimento per la Rinascita Comunista se fosse un partito, un partito comunista e, ancor meglio, un partito comunista d’avanguardia? Cosa dovrebbe fare a partire dall’analisi della situazione concreta relativa all’Ue, così come mirabilmente è stata sviluppata dal compagno Ascanio Bernardeschi su questo stesso giornale, «Futura Società», in un editoriale dal titolo “Un voto che delegittima l’Unione europea”?

Ha scritto Ascanio: “L’Unione europea, fin dal trattato di Maastricht e dai suoi precedenti, si è caratterizzata come un tentativo di integrazione economica sulla base di un modello liberista e imperialista. È stata, per esempio, funzionale al colonialismo in Africa e, dopo la fine del campo socialista europeo, all’omologazione dei modelli sociali nei Paesi ex alleati dell’Urss, intossicando il continente di nazionalismo, razzismo e neofascismo, aderendo inoltre a tutte le guerre della Nato.

Le sofferenze sociali derivanti dalla crisi del capitalismo, l’assenza di ogni ipotesi alternativa alle politiche liberiste che hanno devastato i diritti sociali e richiesto un viraggio progressivo verso l’autoritarismo e la riduzione degli spazi democratici, hanno determinato un malcontento popolare che, in assenza – salvo pochissime eccezioni – di una sinistra forte e incisiva hanno avvantaggiato la lievitazione della falsa alternativa di destra”.E più avanti: “Per fortuna, nelle recenti elezioni europee non tutto il malcontento ha guardato a destra. Intanto c’è il dato importante, e non a caso trascurato dai media, dell’astensionismo (…) un dato così eclatante significa l’ennesima delegittimazione delle istituzioni dell’Unione europea. Ennesima, perché ogni qual volta i popoli sono stati chiamati a esprimere in appositi referendum (mai in Italia) l’approvazione o meno della Costituzione europea, quest’ultima è stata sonoramente bocciata, tanto che l’establishment ha ovviato cambiandole nome. Ora si chiama Trattato”.

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Christian Caliandro: La sparizione al centro di Oppenheimer, ovvero: come ho imparato a preoccuparmi

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La sparizione al centro di Oppenheimer, ovvero: come ho imparato a preoccuparmi

di Christian Caliandro

E così, Oppenheimer ingrandisce e si rimpicciolisce, nella percezione, man mano che passano i mesi.

Mentre infatti il mondo galoppa furibondo verso uno scenario simile a quello in cui si dipana la vicenda del film – dagli anni Trenta agli anni Quaranta di conflitto mondiale all’inizio della Guerra Fredda negli anni Cinquanta – risalta con sempre maggiore evidenza la sparizione al centro esatto del film di Christopher Nolan.

Come vi sarete accorti, infatti, guardando il film al cinema lo scorso anno o in seguito sulle varie piattaforme, manca del tutto il punto di vista dei giapponesi – delle vittime, dei polverizzati, dei bruciati vivi e degli sfigurati. Certo, c’è la scena in cui Oppie celebrando il ‘grande successo’ sente prima dei respiri inquietanti al posto degli applausi e delle grida di giubilo, e poi vede davanti a sé il lampo della bomba accecare gli astanti e poi il vuoto.

E c’è pure la scena (a dire il vero abbastanza tragicomica) del povero J. Robert che, ricevuto finalmente da un tremendo Gary Oldman nei panni di Harry Truman, gli dice: “le mie mani sono sporche di sangue…”, e quello per tutta risposta gli porge il fazzoletto preso dal taschino, per poi sibilare ai suoi assistenti: “non fatemi più vedere quel piagnone”. Però, insomma, è un po’ pochino per uno dei più grandi traumi della storia.

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Andrea Zhok: La domanda non è se ci sarà la guerra, ma quale

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La domanda non è se ci sarà la guerra, ma quale

di Andrea Zhok*

Un paio di giorni fa il presidente serbo Vucic ha espresso il suo forte timore che 3-4 mesi ci separino dalla Terza Guerra Mondiale. Che si tratti di una valutazione realistica o magari di eccessiva apprensione da parte di chi ha già esperito sulla propria pelle la natura “eminentemente difensiva” della Nato, è quanto scopriremo solo vivendo.

Possiamo però sin d’ora fare qualche considerazione generale sulle linee di tendenza che si profilano.

Dal punto di vista di un confronto diretto tra grandi potenze militari la questione cruciale riguarda la percezione interna di un carattere “decisivo” del conflitto regionale in corso. Per la Russia è chiarissimo, e lo è stato sin dall’inizio, che si trattasse di una minaccia percepita come esistenziale. L’asimmetria del confronto qui dev’essere ben percepita: nel conflitto russo-ucraino la Russia è formalmente l’aggressore, avendo violato i confini ucraini con le sue truppe, ma la Russia si percepisce aggredita perché ha visto anno dopo anno i preparativi Nato ai propri confini (esercitazioni congiunte, costruzione di infrastrutture militari, il cambio di regime di Maidan, la persecuzione delle proprie minoranze in Ucraina, ecc.). Questi eventi sono stati lamentati come prodromi o a un’aggressione diretta o a un posizionamento di vantaggio strategico che metteva potenzialmente in scacco le difese russe.

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Piccole Note: Israele e le incognite di una guerra contro Hezbollah

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Israele e le incognite di una guerra contro Hezbollah

di Piccole Note

Tel Aviv rischia di credere che sia una guerra “inevitabile”, invece è evitabilissima. Ma la follia messianica punta al fiume Litani

Mentre Israele continua la sua macelleria di Gaza e la sanguinosa oppressione in Cisgiordania, i tamburi di guerra risuonano più forte sul fronte Nord. L’IDF ha già predisposto un piano di attacco contro Hezbollah per eliminare la minaccia terroristica.

Così nelle dichiarazioni, in realtà da anni Tel Aviv ha messo in agenda il controllo del Sud del Libano fino al fiume Litani. Iniziativa che, oltre a offrirgli un confine più difendibile contro gli avversari, garantirebbe un’altra riserva di acqua dolce al Paese (non ci dilunghiamo sulle guerre per l’acqua, il cosiddetto oro blu, in Medioriente, rimandando ad altre fonti; mentre sui futures sull’acqua si può vedere qui).

 

La guerra “inevitabile” contro Hezbollah

Inutile dire che la guerra sarebbe scongiurata da un accordo Hamas-Israele su Gaza, perché ad oggi Tel Aviv non ha alcuna intenzione di adire a un’intesa. Peraltro, come recita il titolo di un articolo di Alon Pinkas su Haaretz: “Israele rischia di credere che una guerra contro Hezbollah sia inevitabile”, mentre inevitabile non è affatto. Infatti, scrive Pinkas, se guerra sarà, sarà una decisione di Israele, non un meccanismo automatico.

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Giuseppe Masala: La variante Pyongyang nell’allargamento geopolitico del conflitto

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La variante Pyongyang nell’allargamento geopolitico del conflitto

di Giuseppe Masala

Fin da subito ho definito come dei veri e propri riti sia la proposta di pace di Putin del 14 Giugno illustrata al Ministero degli Esteri russo di fronte al corpo diplomatico russo e alla stampa, sia la pomposa conferenza di pace del 15 e 16 Giugno convocata a Bürgenstock, in Svizzera, da Washington alla presenza dei suoi paesi satellite a partire, naturalmente, dall’Ucraina.

Dei riti, che a mio avviso, di fatto, avevano la funzione di segnalare un passaggio di stato e dunque una evoluzione del conflitto in Ucraina. Naturalmente rimaneva da verificare, la misura e la direzione della variazione del conflitto, anche se, con buona approssimazione, poteva considerarsi certo il suo inasprimento. Questo poteva essere desunto grazie alle dirette parole dello stesso Putin che aveva avvertito che se la sua proposta di pace non fosse stata accettata dall’occidente, questo doveva ritenersi responsabile dei futuri bagni di sangue che si verificheranno. Specularmente la stessa logica si può cogliere nelle risultanze della Conferenza di Bürgenstock: visto che la Russia non accetta la proposta di pace occidentale, sarà responsabile dei prossimi sviluppi del conflitto.

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Paolo Arigotti: Il problema dei diritti fondamentali negli Stati Uniti (e non solo)

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Il problema dei diritti fondamentali negli Stati Uniti (e non solo)

di Paolo Arigotti

720x410c50dthcg.jpgFabrizio De André, in uno dei suoi pezzi più celebri[1], cantava “Si sa che la gente dà buoni consigli, Sentendosi come Gesù nel tempio, Si sa che la gente dà buoni consigli, Se non può più dare cattivo esempio”.

Se applicassimo lo stesso principio ai rapporti internazionali, allora emergerebbe come in diversi stati, di ieri e di oggi, specialmente tra quelli che si ergono a difensori dei diritti umani – contemplati nella dichiarazione del 10 dicembre 1948, uno dei primi documenti approvati dall’Assemblea generale dell’ONU[2] – magari utilizzando tale scudo per giustificare una serie di azioni discutibili, esistono una serie di problemi di non poco conto: un qualcosa che potremmo facilmente inquadrare in quei “buoni esempi” di cui parlava il famoso cantautore genovese.

In effetti, gli Stati Uniti d’America detengono una serie di poco invidiabili primati sul fronte dei diritti umani.

Se molto si potrebbe dire, ed è stato detto, sulle guerre illegali (secondo lo statuto delle Nazioni Unite) condotte in giro per il mondo[3], magari in nome della presunta “esportazione della democrazia”, oggi preferiamo soffermarci sul versante interno.

Prima di spostare la nostra attenzione sulla realtà degli States, ci sembra importante ricordare come da più parti sul banco degli imputati vengano messe le enormi spese militari, che così tanto incidono sul debito americano, dovute non solo alle operazioni belliche tout court, ma anche al mantenimento di un colossale apparato – composto di basi, installazioni e forze dislocate nei quattro angoli del pianeta – che sottraggono non poche risorse alla cittadinanza.

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Michael Roberts: Cosa è andato storto nel capitalismo?

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Cosa è andato storto nel capitalismo?

di Michael Roberts

Recessione.jpgRuchir Sharma ha pubblicato un libro dal titolo What went wrong with capitalism? [Cosa è andato storto nel capitalismo?]. Ruchir Sharma è un investitore, gestore di fondi, autore ed editorialista del Financial Times. È a capo delle attività internazionali di Rockefeller Capital Management ed è stato investitore nei mercati emergenti presso Morgan Stanley Investment Management.

Con queste credenziali, di essere “organico alla bestia” o addirittura “una delle bestie”, dovrebbe conoscere la risposta alla sua domanda. In una recensione del suo libro sul Financial Times, Sharma delinea la sua argomentazione. In primo luogo, ci dice: «mi preoccupa la posizione degli Stati Uniti alla guida del mondo. La fiducia nel capitalismo americano, costruito su un governo limitato, che lascia spazio alla libertà e all’iniziativa individuale, è crollata». Egli osserva che ora, la maggior parte degli americani non si aspetta di «stare meglio tra cinque anni» – un minimo storico da quando l’Edelman Trust Barometer ha posto questa domanda per la prima volta, più di due decenni fa. Quattro americani su cinque dubitano che la vita per la generazione dei loro figli sarà migliore di quanto lo sia stata per loro. Secondo gli ultimi sondaggi Pew, la fiducia nel capitalismo è diminuita tra tutti gli americani, in particolare tra i democratici e i giovani. Infatti, tra i democratici sotto i trent’anni, il 58% ha ora un’«impressione positiva» del socialismo; solo il 29% dice la stessa cosa del capitalismo.

Questa è una brutta notizia per Sharma, forte sostenitore del capitalismo. Cosa è andato storto? Secondo Sharma, è l’ascesa del big government[1], del potere monopolistico e del denaro facile per salvare le imprese più grandi. Ciò ha portato alla stagnazione, alla bassa crescita della produttività e all’aumento delle disuguaglianze.

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Fabrizio Denunzio: Indisciplinabili dal fordismo

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Indisciplinabili dal fordismo

Hobos, wobblies e i limiti di Gramsci

di Fabrizio Denunzio

Fabrizio Denunzio riflette su come leggere Gramsci oggi, interrogando le positività e le criticità di Americanismo e fordismo e provando a illuminare i processi di formazione di soggettività che, dentro e fuori il fordismo, non si sono lasciate disciplinare dalla logica della produzione tayloristica e che, nella sostanza, lasciano intravedere forme di vita, di lotta e di sindacalismo non riconducibili a quelle che si sono affermate nel movimento operaio europeo tra la fine del XIX e i primi decenni del XX secolo

Schermata del 2024 06 23 16 29 57.pngCome leggere Gramsci oggi

In almeno due importanti lavori usciti di recente, a poca distanza l’uno dall’altro, Pasquale Serra ci invita a leggere Gramsci in modo molto diverso da quanto lo si sia fatto negli ultimi decenni, ossia da quando il furore filologico degli esperti – credo databile dagli inizi degli anni Novanta del Novecento e identificabile sempre presuntivamente, visto che l’autore non cita mai esplicitamente gli artefici di questa svolta, con Gianni Francioni e il suo progetto di una nuova edizione nazionale dei Quaderni del carcere – ha preso il sopravvento sul modo abituale con il quale in Italia, tra gli anni Cinquanta e i Settanta del XX secolo, si era solito leggere il pensatore sardo, cioè non allontanandolo mai dall’attualità politico-sociale del paese e da tutti i più scottanti problemi che lo assillavano: dal lavoro in fabbrica all’emigrazione, dal fascismo alla questione meridionale, e così via.

Con la conquista dell’egemonia interpretativa da parte delle ermeneutiche filologiche, il gramscismo italiano si è ridotto a una sapiente quanto ferrea macchina di citazioni avendo oramai abbandonato ogni pretesa analitica della realtà contemporanea. Questo passaggio ha determinato una forma di produzione intellettuale altamente «spoliticizzata» quanto sterilmente «speculativa» (Serra 2019, p. 67), meglio, allora, molto meglio, riprendere la lezione degli argentini per i quali il «loro Gramsci» non ha mai smesso di reagire con le questioni fondamentali del loro tempo, il peronismo prima fra tutte: da qui la decisione di Serra di curare l’edizione italiana del saggio di Horacio Gonzáles Il nostro Gramsci, dalla quale sono ricavabili le precedenti argomentazioni polemiche[1]. Che non sono destinate a finire.

Nel secondo dei due lavori a cui ho appena fatto riferimento, Serra rilancia la polemica, purtroppo lasciando anche questa volta nell’anonimato i suoi bersagli, ma non avrei difficoltà a riconoscervi, come esempi illustrativi, i lavori di un Giuseppe Cospito (2004, pp. 74-92) o di un Fabio Frosini (2004, pp- 93-11).

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comidad: Si fa chiamare Crosetto ma è zio Vanja

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Si fa chiamare Crosetto ma è zio Vanja

di comidad

Qualche giorno fa Guido Crosetto, il nostro ministro della Difesa, ha pianto miseria ed ha preso le distanze dalla proposta del segretario NATO Stoltenberg di erogare quaranta miliardi annui di aiuti all’Ucraina. Secondo Crosetto già facciamo fatica ad arrivare al 2% del PIL di spesa militare, perciò non possiamo permetterci un’ulteriore quota di tre miliardi e mezzo all’anno da gravare sul nostro bilancio. Crosetto ha fatto anche notare che a Bruxelles non c’è solo la sede della NATO ma anche quella dell’Unione Europea (guarda un po’ la coincidenza), e che quindi siamo vincolati a un Patto di Stabilità che ci impedisce di allargarci troppo. Insomma, NATO e UE potrebbero anche mettersi d’accordo tra loro prima di venire a battere cassa da noi. Dopo questo sussulto di effimera ribellione, Crosetto ha però preso atto con umile rassegnazione che, mentre a Stoltenberg, von der Leyen, Meloni e Mattarella spetta l’onore dei proclami roboanti, a lui tocca l’onere di rassettare e far quadrare i conti.

A conferma di questa misera condizione, qualche giorno fa c’è stato un incidente che ha riguardato proprio Crosetto, il cui aereo ha dovuto attuare un atterraggio di emergenza all’aeroporto di Ciampino. Secondo le fonti ufficiali il velivolo sarebbe di un modello obsoleto, e avrebbe dovuto essere già dismesso e sostituito; purtroppo non è stato possibile per motivi di bilancio.

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Piccole Note: Il senso di Putin per l’Asia

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Il senso di Putin per l’Asia

di Piccole Note

La visita in Corea del Nord e in Vietnam. Putin punta decisamente sull’Asia

Putin si è recato in Corea del Nord, prima tappa di un tour asiatico che lo ha portato poi in Vietnam. Due visite che ha fatto precedere da un intervento a un forum russo nel quale ha dichiarato che la priorità per tutto il 21° secolo per la Russia è sviluppare l’Estremo oriente. Non si tratta, quindi, solo di chiedere altre munizioni a Pyongyang per la guerra ucraina, come semplicisticamente annotano i media nostrani.

La guerra ucraina è incidentale, lo zar, a quanto pare, pensa molto più in prospettiva, cosa che manca ai suoi antagonisti globali che fondano tutto sulla possibilità che le guerre infinite riescano a ribaltare la situazione internazionale, riconsegnando loro il dominio del mondo.

 

Putin d’Asia

Putin non va solo a chiedere, ma anche a dare, cioè a favorire lo sviluppo dei suoi partner e potenziali tali. Non perché sia particolarmente buono, sta semplicemente adottando, in salsa russa, la politica che ha reso grande l’Impero americano, che attirava a sé con la promessa di prosperità e sicurezza, quella carota, vera o finta che sia, che l’Occidente ha ormai deposto in favore del solo bastone.

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Niccolò Biondi: La libertà del neoliberismo

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La libertà del neoliberismo

di Niccolò Biondi

Pochi giorni fa, durante il G7, il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha pubblicato sui social la foto con il Presidente argentino Javier Milei accompagnata dalla frase “viva la libertà”. Questa foto rappresenta il simbolo della saldatura di tipi diversi di destra politica all’insegna dell’autoritarismo liberale, e cioè della trasformazione contemporanea del neoliberalismo in salsa “smantellamento dello Stato sociale, riarmo & repressione del dissenso” all’interno del panorama del rafforzamento del cappio atlantista sui Paesi vassalli del sistema imperialistico USA: nella nuova grande trasformazione in cui siamo entrati da qualche anno, con la crisi dell’assetto internazionale liberal-capitalistico unipolare e la traiettoria storica verso il multipolarismo popolato da potenze guidate da partiti comunisti e assetti più socialisti e meno liberali (in cui, cioè, l’economia è integrata all’interno della decisione politica e non si ha una oligarchia economico-finanziaria che controlla e direziona la vita collettiva, come negli Usa e nel sistema occidentale), la saldatura delle destre all’insegna del neoliberalismo autoritario è la riedizione della funzione politica svolta dai regimi fascisti negli anni ‘20 e ‘30 del secolo scorso, nonché il compimento stesso dell’essenza del neoliberalismo.

“Viva la libertà”: di quale libertà parlano Meloni e Milei? Quale è la libertà del neoliberalismo?

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Agnese Tonetto: Il crepuscolo dell’Occidente

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Il crepuscolo dell’Occidente

di Agnese Tonetto

Guerra della Nato alla Russia per interposta Ucraina, genocidio in Palestina, elezioni in Europa: l’ epoca dell’imperialismo euro-atlantico sta per conoscere il proprio tramonto

Nelle ultime settimane, il conflitto fra Russia e Ucraina è andato sempre più aggravandosi, in particolar modo in ragione dei provvedimenti assunti da molti dei paesi Nato, con l’autorizzazione all’utilizzo di armamenti nel territorio russo. Fatalmente attendiamo, inoltre, che all’alba dell’insediamento di un nuovo Parlamento Europeo, una volta terminata la campagna elettorale, la classe dirigente cominci ad assumere delle linee più impopolari senza premurarsi di ricevere il consenso della società civile.

Non è elementare, e forse nemmeno prudente, stabilire come possa evolvere lo scenario in questione; quello su cui possiamo riflettere, tuttavia, sono le premesse e le conseguenze culturali correlate alla guerra fra la Russia e, realisticamente, non tanto l’Ucraina, ma la Nato. Questo perché negli ultimi decenni il quadro degli equilibri geopolitici è stato stravolto, e se fino a poco tempo fa gli Stati Uniti potevano assalire con arroganza altri stati, legittimandosi attraverso notizie false (vedi il conflitto in Iraq e il pretesto per cui questa nazione possedesse armi di distruzione di massa) o squalificando e declassando altri paesi come “stati canaglia”, attualmente questa forma di ideologia sembra avere sempre meno presa sulla società civile mondiale.

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