Forum italiano dei comunisti – 17/09/2024
UNA NUOVA FASE DI LAVORO
Abbiamo più volte ribadito che l’obiettivo del Forum non è creare un nuovo gruppo politico o mantenere steccati fittizi, ma aprire nell’area comunista un dibattito e un rapporto nuovo che contribuisca a superare lo stato in cui versano gruppi e anche singoli compagni e che fino ad oggi ha prodotto solo macerie e mistificazioni.
Nei dieci mesi che ci separano dall’inizio dell’attività del Forum ci siamo concentrati sopratutto nel definire la necessità che si ponga fine a nuove avventure corsare e a un modo romantico e soggettivo di intendere la ripresa di un movimento comunista in Italia. Su questo continueremo ad insistere, aprendo interlocuzioni che, seppure difficoltose, sono l’unico strumento che ci può permettere di scavare sui luoghi comuni, le ambiguità e le improvvisazioni che hanno caratterizzato finora l’esperienza comunista. Senza la pretesa di salire in cattedra, ma cercando di arrivare, attraverso l’analisi e la discussione, a un punto di vista comune e a ipotesi di lavoro politico sufficientemente verificate.
Per il futuro non ci aspettiamo dunque svolte organizzative che annuncino la nascita di una nuova verità che dovrebbe riaggregare le esauste schiere di comunisti che per decenni hanno provato a riorganizzarsi. Crediamo, invece, che sia arrivato il momento di aprire una fase in cui le questioni di fondo che riguardano l’avvenire dei comunisti italiani vengano messe al centro di una elaborazione collettiva che ci faccia fare dei passi in avanti.
Imboccare questa strada è arduo e presuppone che di fronte al bilancio negativo si eviti di rinchiudersi in nicchie organizzative o culturali che sono solo dimostrazioni di difficoltà nel rapportarsi alla realtà. Per noi comunisti la teoria è la scienza della trasformazione. In questo quadro si inseriscono gli scritti che qui alleghiamo e che riguardano punti essenziali di una discussione tra comunisti: la natura della crisi del movimento comunista e il nuovo quadro internazionale, uno schema interpretativo dello storia del PCI a partire dalla caduta del fascismo fino alla mutazione genetica, una nota su Salerno che ci fa capire su quali binari si è incanalata la situazione italiana dopo il 1944 e, infine, quali sono i nodi da sciogliere affinchè i comunisti possano ridiventare protagonisti nella lotta politica e di classe nel nostro paese.
Sono solo appunti che speriamo aiutino a entrare nel vivo delle questioni che abbiamo di fronte.
Forum italiano dei Comunisti
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Spunti per una discussione necessaria
dal Forum italiano dei comunisti
Indice dei testi
I parte
Sul movimento comunista in Italia
1. Quando e come cambia il PCI (schema di ricerca)
2. Il filo rosso della ripresa comunista
3. Tre punti per individuare una prospettiva
II parte
Questioni del movimento comunista internazionale
1. La concezione materialistica dello sviluppo del movimento comunista (libretto di prossima pubblicazione, non incluso qui ma reperibile insieme a tutti i testi di riferimento da www.associazionestalin.it/index.html)
2. Schema per il dibattito sul movimento comunista internazionale
Parte I
Il movimento comunista in Italia
1. QUANDO E COME CAMBIA IL PCI
Schema di ricerca per una discussione sulla sua trasformazione genetica
1 – Un chiarimento su Salerno
2 – Il 1953 e il cambiamento degli equilibri politici
3 -Il 1956 e i suoi effetti sul PCI
4 – L’VIII Congresso e la “via italiana al socialismo”
5 – La rottura degli equilibri in Italia. Le lotte, il terrorismo, il PCI si fa Stato.
Berlinguer passa il Rubicone
6 – Perchè è stato possibile liquidare il PCI?
1 – Un chiarimento su Salerno
Nel considerare la storia del PCI e valutare la sua trasformazione genetica alcuni compagni che si considerano più comunisti degli altri fanno risalire la sua svolta socialdemocratica alla politica di Salerno. Ebbene, siamo costretti a contraddire questa interpretazione perchè, come dimostreremo, c’è una differenza sostanziale tra la mutazione genetica del PCI e le sue origini e ciò che è stata veramente la svolta di cui Palmiro Togliatti è stato protagonista al suo arrivo in Italia alla fine del marzo 1944.
Innanzitutto c’è da considerare la correlazione internazionale tra la politica di Salerno e la posizione dell’Unione Sovietica di cui Stalin, all’epoca, era il massimo dirigente. I due fatti che caratterizzano questa correlazione sono il riconoscimento del governo Badoglio da parte dell’URSS e l’incontro di Togliatti con Stalin nella notte tra il 4 e il 5 marzo 1944, prima della sua partenza per l’Italia.
E’ noto che il punto principale della svolta di Salerno fu la decisione di accettare la collaborazione con il governo Badoglio e coi Savoia e questa decisione fu accettata, alla fine, da tutti i partiti antifascisti, che pure al Congresso di Bari, tenuto agli inizi del 1944, avevano deciso sulla pregiudiziale antimonarchica: non si collabora con un monarca responsabile di una connivenza ventennale col fascismo, dell’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania nazista, della fuga da Roma l’8 settembre 1943. Eppure, e non è un caso, proprio nel marzo del 1944 l’URSS riconosce il governo Badoglio prima e all’insaputa degli angloamericani che occupavano una parte dell’Italia dove peraltro gli antifascisti operavano.
Facile porsi la domanda: perchè l’URSS riconosceva il governo italiano presieduto da Badoglio e in che relazione stava quella decisione con ciò che Togliatti e Stalin si erano detti in quella notte del 4 marzo prima della partenza del segretario del PCI per l’Italia? E’ a questa domanda che i comunisti critici di Salerno devono rispondere e delle due l’una, o Stalin sbagliava strategia oppure ciò che ha fatto Togliatti a Salerno corrispondeva alla strategia del movimento comunista e alle decisioni del VII congresso dell’Internazionale comunista sulla necessità di creare un fronte antifascista mondiale.
Qualcuno dei compagni critici, arrampicandosi sugli specchi, prova a distinguere tra la collaborazione con Badoglio – fare il governo per vincere la guerra – e la strategia che era esplicitamente dichiarata assieme a quella scelta. Si trattava della questione Monarchia-Repubblica che sarebbe stata decisa alla fine della guerra da una Assemblea Costituente che avrebbe deliberato anche sulla nuova Carta costituzionale. La scelta di collaborare con Badoglio era dunque correlata a una prospettiva politica di più ampio respiro che comprendeva l’asse strategico con cui il PCI avrebbe affrontato, dopo la caduta del fascismo, i nodi della ricostruzione del paese e del carattere che avrebbe assunto l’Italia post-fascista. Questa fu Salerno e non è possibile confonderla con la mutazione genetica del PCI.
2 – Il 1953 e il cambiamento degli equilibri politici
Per capire meglio le scelte del PCI dopo Salerno bisogna analizzare gli avvenimenti degli anni 45/47 e quelli successi fino al 1953, anno in cui la sconfitta della legge truffa collegata alle elezioni del 7 giugno di quell’anno confermava il ruolo importante del Partito comunista nell’equilibrio politico italiano.
Innanzitutto occorre fare un bilancio dei risultati ottenuti dal PCI nelle due differenti fasi politiche, quella dopo il 25 aprile e la successiva che segue la sua cacciata dal governo e arriva fino alla vittoria elettorale del 7 giugno del 1953. Questo per evitare che, sovrapponendo gli avvenimenti, si crei una sorta di cortina fumogena che appiattisce i passaggi che invece hanno la loro specificità e vanno compresi nella loro valenza.
Il periodo che segue il 25 aprile e si estende fine al 1947, anno della rottura dell’unità nazionale, è quello che consente la fondazione della Repubblica e l’approvazione della Costituzione, due obiettivi storici che cambiano il volto dell’Italia e confermano la politica di Salerno. I critici della svolta devono fare i conti con un risultato che mette in crisi i presupposti su cui poggia la loro posizione. La domanda difatti è: Salerno ha consentito o no l’uscita di scena della monarchia e la fondazione di una Repubblica basata su una Costituzione progressista? Era questa la strada da imboccare e che corrispondeva, come si è visto, alla strategia del movimento comunista dopo il VII congresso dell’Internazionale e nella guerra antifascista? Domande retoriche che dovrebbero mettere fine all’eterna polemica di ‘sinistra’ che certi settori minoritari di comunisti continuano ad alimentare e sostanzialmente ha una matrice di tipo trotskista.
Dopo il gennaio 1948, data di approvazione della Carta costituzionale da parte dell’Assemblea Costituente, per il PCI si apre un’altra fase. Il partito deve fronteggiare l’offensiva del blocco democristiano a guida americana e vaticana che tende a eliminare quel bastione, composto da milioni di italiani, soprattutto operai e contadini, che rappresentava un ostacolo alla normalizzazione del ‘vento del Nord’ che aveva soffiato potentemente dopo il 25 aprile. Le intenzioni delle forze conservatrici che facevano capo alla DC ed erano collegate e subordinate agli Stati Uniti erano di andare fino in fondo nello scontro e prevedevano anche la messa fuori legge del PCI.
Le elezioni del 18 aprile 1948 furono un banco di prova che consentì di pensare che il progetto di liquidazione del Partito comunista fosse nell’ordine delle opzioni possibili e l’attentato a Togliatti del luglio dello stesso anno ne fu la conferma. Uccidere Togliatti e scatenare una guerra civile dopo la sconfitta elettorale del Blocco del popolo poteva essere la strada per raggiungere l’obiettivo. Ma il PCI aveva un gruppo dirigente consolidato nella lotta clandestina durante il fascismo e nella Resistenza e si era fatto le ossa con la presenza di Togliatti a Mosca dopo l’arresto di Antonio Gramsci. La trappola non scattò, anche se le provocazioni armate contro i comunisti e i socialisti continuarono. L’eccidio di Portella delle ginestre è del 1º maggio 1947 e molti altri atti di repressione politica e giudiziaria si andarono aggingendo nel corso degli anni fino ai processi dei partigiani rei di aver combattuto e colpito i fascisti.
Battuti sul terreno della resistenza di massa e dalla tenuta delle lotte operaie e contadine e coi risultati elettorali che consentivano la conquista di molte amministrazioni comunali, i democristiani, per superare gli ostacoli, puntano a una riforma elettorale che impedisca la destabilizzazione dei governi centristi determinata dalla forte presenza e iniziativa dei comunisti. E’ a questo punto che nasce la proposta di approvare una legge maggioritaria, all’epoca chiamata legge truffa, che alle elezioni politiche del 7 giugno 1953 avrebbe consentito a un’alleanza elettorale che avesse conseguito il 50+1% dei voti di avere il 75% dei seggi. La legge truffa non scattò, il sistema proporzionale rimase in vigore e la sconfitta indusse Alcide De Gasperi a ritirarsi dalla scena politica.
L’aria che si respira dopo il 7 giugno del 1953 comincia ad essere diversa. Il PCI non è più l’emissario di Mosca, ma un partito ben radicato nella realtà democratica e di classe e con un rapporto solido col campo socialista e con i movimenti di liberazione nazionale. Strategicamente il Partito comunista mantiene ben chiaro l’asse di riferimento rispetto al movimento comunista internazionale.
A questo punto però Togliatti pensa che il partito debba fare un passo in avanti nel rapporto con la società e questo passo trova sbocco in un rinnovamento dei quadri del partito le cui caratteristiche dovevano essere più adatte ad agganciare quei settori della società che si andavano avvicinando all’organizzazione e con cui si potessero gestire progetti di trasformazione della società che non fossero direttamente legati al conflitto nel modo con cui si era espresso fino ad allora.
La sostituzione di Pietro Secchia con Giorgio Amendola alla direzione dell’organizzazione del partito fu il segnale del cambiamento e costituisce ancora oggi materia di discussione. Certamente esisteva una differenza nella formazione dei due dirigenti politici. Uno, Pietro Secchia, di origini popolari e con notevoli capacità organizzative e cospirative, l’altro un dirigente che veniva da una famiglia borghese come quella di Giovanni Amendola, che peraltro aveva pagato con la vita il fatto di non essersi piegato, nonostante fosse un nazionalista, al potere mussoliniano.
Il partito cambiava faccia? Certamente dirigenti come Edoardo D’Onofrio, Mauro Scoccimarro, Pietro Secchia e altri venivano considerati appartenenti alla vecchia guardia. Fu l’inizio della mutazione genetica e Togliatti ne era il responsabile? Porre le questioni in questo modo è sbagliato perchè bisogna andare a vedere il contesto della linea politica per giudicare il carattere dei cambiamenti. Il neotrotskismo non ci aiuta a valutare le cose. In realtà, con le scelte organizzative, eravamo ancora nel contesto della linea togliattiana.
3 – Il 1956 e i suoi effetti sul PCI
La vera prova della nuova fase è il 1956, quando Kruscev mette sotto accusa la politica di Stalin e gli atti che gli vengono attribuiti come crimini. Per un partito comunista occidentale, come quello italiano, con un seguito di massa e una borghesia pronta ad usare tutti i mezzi nel tentativo di demolirlo, la denuncia di Kruscev crea una condizione nuova che obbliga i comunisti a rispondere di ciò che era successo in Unione Sovietica nel periodo di Stalin. E la risposta doveva essere convincente soprattutto per quelli, iscritti o votanti, che fino ad allora avevano seguito il PCI con coraggio e entusiasmo.
Con la famosa intervista alla rivista Nuovi Argomenti,1 Togliatti, pur dimostrando poca stima per Kruscev per il modo raffazzonato con cui aveva posto le questioni al XX Congresso del PCUS, non entra nel merito della denuncia, ma cerca di sviluppare un ragionamento generale che, senza rifiutare le questioni specifiche che il segretario dei comunisti sovietici aveva posto, cerca di inquadrare storicamente le vicende legate al modo con cui Stalin aveva gestito il potere. Togliatti non ha il coraggio di contestare, come invece fecero i comunisti cinesi, il giudizio su Stalin e la questione della ‘violazione’ della democrazia socialista, ma raccoglie le indicazioni generali del segretario del PCUS sulla necessità di un rinnovamento del socialismo e la creazione di nuovi rapporti internazionali che consentissero all’URSS e ai paesi socialisti uno sviluppo in un clima di pace. Su questa linea Togliatti imbastisce la difesa anche di fronte agli italiani, ai militanti del partito e agli elettori.
Su due cose, in particolare, Togliatti tace: sul fatto che, avendo lavorato a Mosca per molti anni nell’Internazionale comunista, e quindi a contatto con Stalin, non poteva non sapere come erano andate le cose e, in secondo luogo, non inquadrava il processo reale che si era innestato in URSS con il XX Congresso. La parola controrivoluzione non entra nel vocabolario togliattiano.
Però Togliatti, da grande dirigente qual era, cerca di mettere le cose in modo tale da riuscire a recuperare la storia del movimento comunista dentro il processo di rinnovamento che si auspicava dopo il XX Congresso. In sostanza, dice Togliatti al gruppo dirigente del PCUS, intanto dove eravate all’epoca del ‘culto della personalità’ dal momento che fino ad oggi avete taciuto e poi, visto che la vostra denuncia riguarda fatti che vengono da lontano, come mai l’Unione Sovietica dal 1924 ad oggi ha fatto passi in avanti giganteschi non solo in economia, ma nelle relazioni internazionali e battendo le armate naziste? Inquadrando così le cose la linea del PCI risultava convicente. Da una parte si manteneva il giudizio storico positivo sulla rivoluzione d’Ottobre e i suoi effetti a livello internazionale e dall’altra si accoglieva l’esigenza di aprire la società sovietica a nuove esperienze di partecipazione dei lavoratori e dei cittadini superando lo stato d’emergenza che aveva caratterizzato per decenni la situazione interna all’URSS. Su esplicita domanda del redattore di ‘Nuovi Argomenti’, Togliatti chiarisce comunque che il dibattito sulle nuove caratteristiche della società sovietica non implicava la nascita del pluripartitismo che, aggiunge, è una caratteristica specifica della democrazia borghese.
Il PCI di Togliatti esce dunque relativamente bene dalla prima fase successiva al XX congresso. Il Partito serra le file attorno a una posizione convincente che tiene testa al krusciovismo e dimostra una maturità di fronte agli avvenimenti storici. Ma le parole non bastano per affrontare una situazione che andava degenerando e non a caso, la controrivoluzione ungherese, dopo i fatti di Poznan in Polonia, chiarisce le conseguenze del modo di agire degli apprendisti stregoni che a Mosca guidavano l’avventura kruscioviana e costringe i comunisti a schierarsi.
Il PCI denuncia senza mezzi termini la controrivoluzione ungherese e il suo carattere internazionale, mentre bande di fascisti a Roma come a Milano assediavano le sedi del partito. I fatti d’Ungheria scuotono il partito e mettono in evidenza che ormai la partita si fa dura. Di fronte alla durezza dello scontro si verificano abbandoni di intellettuali di spicco e nascono i dissensi con gli universitari comunisti che contrastano la versione ufficiale del partito su ciò che sta accadendo. Ma per i ‘rinnovatori’ la partita dovrà essere rimandata perchè il gruppo dirigente resiste e le defezioni sono marginali.
4 – L’VIII congresso del PCI e la via italiana al socialismo
Per il PCI e per Palmiro Togliatti che ne era il massimo e incontestato dirigente, il XX Congresso diventa l’occasione per rimettere a punto una strategia adeguata a ciò che stava emergendo nel contesto internazionale, ma anche dentro il movimento comunista, rispetto alla sua storia e ai problemi di interpretazione che quella storia poneva.
L’VIII Congresso del PCI si tenne a Roma dall’8 al 14 dicembre del 1956 e dette la possibilità a Togliatti di definire in modo organico la linea del partito e quella che da allora venne definita ‘via italiana al socialismo’.2
Ovviamente il punto di partenza del suo discorso fu la situazione internazionale, rispetto alla quale si ribadiva, in sede congressuale, che l’apertura di Kruscev all’occidente imperialista corrispondeva a una necessità oggettiva per la pace e che la nuova situazione, dovuta al cambiamento dei rapporti di forza, rendeva possibile affermare anche che la guerra era evitabile, cambiando così un presupposto leninista che fino ad allora si era basato sull’inevitabilità del conflitto coll’imperialismo. Su questo punto, come è noto, si sviluppò una forte polemica tra comunisti sovietici e cinesi che sostenevano invece quella che era considerata la posizione leninista: l’imperialismo porta inevitabilmente alla guerra.
Malauguratamente, Togliatti, nella sua relazione, doveva prendere atto però che mentre si ragionava di nuova fase delle relazioni internazionali e di evitabilità della guerra, inglesi e francesi avevano bombardato Suez e scatenato una guerra con l’Egitto per impedire la nazionalizzazione del canale. L’ottimismo per le tesi di Kruscev fu inevitabilmente ridimensionato, ma il concetto di fondo rimase: la guerra si poteva evitare.
Questa valutazione apriva le porte a una conseguenza che nel congresso fu oggetto di particolare attenzione. In sostanza si disse che se la situazione internazionale stava cambiando, anche il conflitto politico e di classe subiva delle modificazioni e non solo perchè il XX Congresso aveva evidenziato che nello sviluppo del movimento comunista si erano registrati processi di centralizzazione e di burocratizzazione che andavano superati, ma anche perchè, nel contesto, veniva alla luce anche la possibilità di un’autonomia dei singoli partiti comunisti nella ricerca di una propria via al socialismo nelle nuove condizioni storiche.
Sulla base di queste considerazioni Togliatti si spinge abbastanza avanti nelle critiche sui risultati del XX Congresso del PCUS, mettendo in evidenza che il processo di rinnovamento non aveva avuto i risultati sperati, a partire dalle democrazie popolari dove la situazione polacca e quella ungherese dimostravano la sostanziale incapacità dei gruppi dirigenti comunisti di gestire le situazioni.
Quelle sollecitazioni di Togliatti a cambiare una situazione divenuta insostenibile dimostravano però la totale incomprensione di ciò che era accaduto con l’avvento di Kruscev alla segreteria del partito comunista sovietico e le conseguenze che ne erano derivate. La gestione del socialismo reale, così come si era andata configurando dopo la vittoria contro il nazismo e lo scatenamento della guerra fredda da parte dell’imperialismo occidentale a guida americana, aveva imposto scelte che non potevano essere modificate con la criminale denuncia dello stalinismo che aveva invece inferto un colpo mortale alla credibilità del sistema socialista e alle ancora deboli strutture dei paesi socialisti europei e messo in moto un processo controrivoluzionario nella stessa Unione Sovietica. Da lì le metastasi avrebbero raggiunto anche l’Europa occidentale come dimostra la svolta occhettiana nel momento in cui crolla il muro di Berlino.
Togliatti dunque non solo non aveva capito, o voluto capire, la natura degli avvenimenti del 1956, ma si illudeva che i discorsi sul rinnovamento e lo sviluppo della democrazia potessero frenare la controrivoluzione.
L’VIII Congresso del PCI servì anche a discutere quella che sarà definita ‘via italiana al socialismo’. La messa in discussione del carattere autoritario del sistema stalinista, valutato al di fuori del contesto storico, e l’introduzione del concetto di democrazia socialista come modello astratto comportò la necessità di superare quella ‘doppiezza’ che veniva attribuita ai comunisti italiani e Togliatti proprio in sede congressuale sciolse il dilemma. Per i comunisti italiani non esisteva un dilemma tra riforme o rivoluzione. Il processo che portava alla trasformazione del sistema era stato impostato già nel 1944 e consisteva nell’applicazione dei principi costituzionali e nello sviluppo di una democrazia progressiva collegata ai movimenti di massa.
Non era una via parlamentare al socialismo, anche se il Parlamento in questo contesto aveva una funzione, ma una capacità del Partito comunista di guidare, attraverso i passaggi individuati, una strategia basata sul binomio movimenti-trasformazioni.
In questo consisteva il progetto strategico della ‘via italiana al socialismo’ ed è bene sottolineare, per quelli che appiattiscono le valutazioni sulla storia del PCI, che quella impostazione era ben diversa da ciò che avvenne poi con Berlinguer.
5 – La rottura degli equilibri in Italia. Le lotte, il terrorismo, il PCI si fa Stato.
Berlinguer valica il Rubicone.
Con il memoriale di Yalta, elaborato da Togliatti nell’agosto 1964, nel mese della sua morte, si conclude la sua vicenda umana e politica iniziata dal lontano 1926, dopo l’arresto di Gramsci.
Gli succede Luigi Longo, autorevole figura di comunista che tenta di barcamenarsi tra una situazione burrascosa in cui il breznevismo, riproposizione solo formale dell’ortodossia comunista, sceglie l’intervento militare in Cecoslovacchia e l’Italia è scossa dal terremoto delle lotte operaie e studentesche del 1968 e dalla fase del terrorismo di Stato. Si arriva così, da un lato alla condanna da parte del PCI dell’intervento sovietico in Cecoslovacchia, che apre la frattura coi sovietici, e dall’altro a una completa stagnazione teorica e politica del partito, finchè l’arrivo di Berlinguer non indica i nuovi orizzonti del ‘comunismo’ italiano.
Togliatti, nel definire la ‘via italiana al socialismo’, aveva tracciato un percorso abbastanza netto. Una democrazia progressiva incarnata dalla Costituzione e un movimento di massa popolare e democratico capace di imporre gli obiettivi con la lotta. Ma proprio quando si apre in Italia la nuova fase in cui parte il ’68 studentesco e nelle fabbriche i lavoratori del miracolo economico, Fiat in testa, aprono una nuova stagione di rivendicazioni, il PCI perde la bussola e diventa un partito istituzionale che cerca di mediare le spinte che vengono dal basso, senza una strategia di trasformazione. Il contrario di quello che era stato affermato all’VIII Congresso di Roma. Qui sta dunque il punto di crisi della strategia togliattiana e il capovolgimento della linea del Partito comunista.
Certamente non possiamo dire come la nuova situazione sarebbe stata affrontata se Togliatti fosse stato ancora al timone. Quello che è certo è che i suoi eredi non hanno seguito le indicazioni su cui era stata fondata la ‘via italiana al socialismo’. Al movimento studentesco che scuoteva le piazze, le indicazioni del PCI sono apparse lontane e sbiadite, mentre per gli operai si preparava la ricetta di Luciano Lama fatta di compatibilità, di consociativismo e di rinuncia della CGIL a difendere la scala mobile. Il trionfo della linea dell’Eur rappresentava la capitolazione e Lama era un esponente di spicco del PCI.
Ma il vero e principale punto di crisi strategica del PCI fu la stagione del terrorismo.
L’Italia era, e rimane, un punto di appoggio strategico dell’imperialismo americano nel Mediterraneo, controllato con la collaborazione di Israele e della NATO. Per questo, di fronte alla crescita del movimento di lotta e della stessa influenza elettorale del PCI, dalla P2 ai servizi americani e italiani viene messa in atto una strategia terroristica che doveva riportare indietro la situazione e bloccare ogni via d’accesso al potere del PCI.
Piazza Fontana, Bologna, Brescia, Italicus sono le tappe principali di questa strategia e il PCI, invece di individuare le forze reali che stavano dietro il terrorismo, si limita a parlare di forze eversive e si stringe attorno alle altre ‘forze democratiche’ nella difesa di uno Stato che, attraverso i servizi e i collegamenti internazionali, era responsabile di quello che stava accadendo. Ci domandiamo perchè i responsabili veri degli attentati non sono mai stati individuati? Chi li ha organizzati e protetti?
Un partito che doveva essere un partito di classe che sapeva individuare i suoi nemici e combatterli diventa un partito istituzionale dentro un sistema corrotto e inquinato.
A dare un senso strategico a queste scelte ci pensa poi Enrico Berlinguer quando dichiara di sentirsi più sicuro sotto l’ombrello della NATO, quando parla di democrazia in senso assoluto, quando punta a un compromesso storico con la DC dopo i fatti cileni. A mettere in crisi la validità di questa strategia, ironia della sorte, ci pensa il rapimento di Moro avvenuto nei giorni in cui si svolgevano gli incontri tra l’esponente DC e Berlinguer.
6 – Perchè è stato possibile liquidare il PCI?
Se quelli che abbiamo sommariamente descritto sono i passaggi attraversati dal PCI fino alla sua liquidazione, rimane la domanda su come questa sia stata possibile, dal momento che il partito aveva alle spalle una storia importante e una elaborazione politica tra le più avanzate nel movimento comunista. Per rispondere bisogna innanzitutto tenere conto che si è trattato di un processo lungo, che comprendeva più di tre decenni. L’evoluzione è stata lenta e ogni tappa ha determinato una modificazione della cultura e della pratica dei gruppi dirigenti, finchè i punti di riferimento storici si sono andati identificando con l’elaborazione berlingueriana e le scelte consociative del sindacato confederale, la CGIL.
La trasformazione genetica è avvenuta nel tempo ed è stata condizionata anche dall’entrata del PCI nell’area del sottogoverno e questo ha esercitato una funzione di corruzione dei suoi quadri e dei suoi militanti.
Al momento della resa dei conti, quando, sotto la spinta emotiva della caduta del muro di Berlino, Occhetto decise che era giunto il momento di liquidare il partito, di fatto si è trovato di fronte a un partito trasformato che non ha saputo reagire. Il Cossuttismo e la vicenda del gruppo Interstampa non erano stati in grado di bloccare la deriva. In primo luogo perchè esisteva nel partito una posizione più che maggioritaria (arrivava al 95% in sede congressuale) e con questo dato oggettivo bisognava fare i conti. Poi perché la minoranza cossuttiana non rappresentava il frutto di una battaglia con basi teoriche e strategiche definite. Si trattava di fatto della posizione di un dirigente che era stato estromesso dalla sua carica nella segreteria da Berlinguer per i legami che aveva coi sovietici. Cossutta non si aspettava quella mossa, ma Berlinguer aveva le idee chiare su come andare avanti e la teorizzazione dell’eurocomunismo ne fu la prova.
Alla fine del PCI non ha risposto nessuna ripresa del movimento comunista in Italia. Ad essa ha fatto seguito solo una strumentalizzazione elettorale che ha avuto vita breve e ha lasciato sul terreno mucchi di macerie che non sono state ancora rimosse.
P.S. Questi non sono che spunti per una discussione.
2. IL FILO ROSSO
DELLA RIPRESA COMUNISTA IN ITALIA
Già in qualche occasione riferendoci alle prospettive di ripresa del movimento comunista in Italia abbiamo accennato alla necessità di una sorta di Salerno 2.0 . Con ciò intendevamo riferirci a quello che ha determinato lo sviluppo dell’organizzazione comunista in Italia a partire dal 1943 e alla impostazione strategica su cui quello sviluppo si è verificato. Le due cose hanno un’importanza non di poco conto nella valutazione della strategia dei comunisti oggi e cerchiamo di spiegare il perchè.
Quando il 25 luglio 1943 il fascismo è crollato, il PCI aveva poche migliaia di iscritti, la maggior parte dei quali reduci dalle prigioni e dall’esilio. A fine 1945, dopo la liberazione, il Partito comunista arrivò ad avere circa 2 milioni di iscritti. Un balzo in avanti enorme che è dipeso da vari fattori e in particolare dalla capacità di guidare la lotta armata, dai risultati della politica di Salerno e dal fatto che a Berlino i sovietici avevano piantato la bandiera rossa sul Reichstag.
Nella loro furia iconoclasta un certo tipo di antirevisionisti ha oscurato questi fatti e si sono limitati spesso a condannare le scelte fatte allora dai comunisti guidati da Togliatti e a rimuovere gli avvenimenti azzerandone il significato, ritenendo, dopo il crollo del PCI, che la storia ricominciasse daccapo.
Noi vogliamo invece fare alcune riflessioni che oggi ci possono servire a trovare una via d’uscita proprio partendo da quel periodo storico e dalla politica del PCI di allora.
Qual era l’essenza della politica di Salerno? Il nucleo della novità stava nel fatto che Togliatti, che peraltro prima del suo arrivo in Italia aveva concordato con Stalin le scelte da fare, nel decidere la linea da seguire valutò correttamente il quadro che la situazione presentava e gli obiettivi da raggiungere, ponendo così le basi concrete dello sviluppo di un movimento comunista in Italia aderente alla situazione.
L’obiettivo principale era la liberazione dell’Italia dai nazifascisti ma assieme a questo bisognava valutare anche gli effetti della presenza angloamericana in Italia, la necessità della ricostruzione di un paese distrutto dalla guerra e la nascita di una Repubblica fondata su una democrazia progressiva come punto di equilibrio delle forze in campo. Considerando appieno tutte queste circostanze, il PCI di Togliatti riuscì a rendere credibile la sua linea politica e a diventare un partito di massa con due milioni di iscritti e molti milioni di elettori. Ed è proprio Togliatti che nella conferenza del partito a Firenze (ottobre 1944)3 aveva posto chiaramente la questione dicendo: o ci riduciamo ad essere una setta che predica il socialismo oppure dobbiamo dimostrare la nostra capacità nell’affrontare i compiti storici che la situazione pone.
La stessa domanda andava posta, e va posta ancora, a tutti quei compagni e compagne che dopo la liquidazione del PCI si sono posti il problema della ricostruzione. La superficialità bertinottiana e la confusione dei linguaggi con cui la parola comunista è stata declinata, hanno eluso la questione.
Quali sono dunque i compiti storici che, dopo la liquidazione del Partito comunista, stanno di fronte a chi vuole mantenere una posizione comunista?
Proprio per rispondere a questo interrogativo, e per superare lo stallo, abbiamo proposto un Forum comunista che riprendesse le fila di un discorso dentro cui, necessariamente, c’è anche il dibattito sulla degenerazione del PCI, un dibattito che va fatto senza sconti, ma anche senza schematismi.
Esso parte proprio da ciò che Togliatti disse nel 1944 a Firenze: o diventiamo una setta o affrontiamo in mare aperto le questioni che interessano gli italiani e in particolare i lavoratori. La storia di questi decenni insegna invece che la parola comunismo ha trovato la sua concreta materializzazione in gruppi identitaristi senza seguito oppure in soluzioni meticce dove per comunismo si intende un coacervo di ideologie massimaliste, neotrotskiste, movimentiste.
A nostro parere, e in contrapposizione a queste derive, nell’ipotesi di una ripresa, vanno riaffermate due cose:
in primo luogo che la ripresa deve essere in continuità coll’esperienza della fase ascendente del PCI e delll’asse strategico che guidava la sua azione e che è da ritenere ancora oggi valido. Anche nella fase storica attuale infatti bisogna, come allora, saper guidare una sorta di gramsciana guerra di posizione che incida sui rapporti di forza e cambi le prospettive nel lungo periodo; in secondo luogo, e contemporaneamente, vanno definiti i contorni dell’azione politica fuori dal massimalismo parolaio e dall’identitarismo fatto di sola propaganda.
Questa è dunque ciò che noi chiamiamo la nostra Salerno 2.0 su cui reimpostare il lavoro dei comunisti italiani.
Ma quali sono i compiti storici che ci indicano i percorsi da imboccare?
La politica di Salerno nacque in una fase storica in cui il fascismo crollava, l’URSS stava avanzando verso la vittoria e in Italia, dopo il 25 luglio 1943 si andava sviluppando un grande movimento di massa anche armato. Oggi in che situazione stiamo e da che cosa bisogna ripartire per non cadere nella logica della setta?
Sul programma di lavoro abbiamo scritto alcune considerazioni che alleghiamo a questo testo e che dovrebbero essere l’inizio di una nuova esperienza che si dovrebbe sviluppare in parallelo alla costruzione di uno strumento che noi abbiamo indicato nell’Assemblea nazionale dei comunisti italiani.
Sul piano generale – cioè a che punto siamo, e su quale asse strategico dobbiamo muoverci – partiamo dal fatto che si è riprodotta oggi una situazione internazionale che per certi versi somiglia a quella della seconda guerra mondiale. Da una parte c’è l’imperialismo occidentale a guida americana che dopo aver fallito l’obiettivo di gestire un governo unipolare, lotta disperatamente per mantenere il suo dominio con le guerre. Dall’altra ci sono i paesi socialisti e quelli che vogliono conquistare o mantenere l’indipendenza dall’imperialismo occidentale.
La forma concreta del conflitto è sicuramente più articolata di quella degli anni quaranta del secolo scorso, ma la sostanza non cambia. Il punto di riferimento strategico di questa fase storica, per i comunisti, rimane, ora come allora, quello internazionale e su questo non vi è dubbio da che parte schierarsi e combattere. Si tratta, come all’epoca della seconda guerra mondiale rispetto al nazismo, di sconfiggere la pretesa dell’imperialismo occidentale a guida americana di dominare il mondo e questo diviene il punto di svolta per il destino dell’umanità, come lo fu il 1945.
Sul piano interno, quello nazionale, l’opera di ricostruzione di una forza comunista parte dall’esigenza di avere la capacità di intervenire per modificare i rapporti di forza e collegarsi alle tendenze mondiali. Non abbiamo bisogno di retorica, di appropriazione indebita di simboli, di scambiare il lavoro culturale di nicchia per sviluppo del movimento comunista. Qui non possiamo inventarci nulla per superare le difficoltà, dobbiamo affrontarle e le parole non bastano. Per questo si tratta di creare in partenza quel nucleo politico di comunisti che, sulla base del bilancio negativo di questi decenni, si decida a dare una svolta al modo di operare, fuori dalle nicchie culturali, dagli identitarismi, dagli schematismi e a trovare un modo di inserirsi nelle contraddizioni che la realtà esprime. Partiamo dal Forum, ma cerchiamo di andare più lontano.
Anche se oggi saremo minoranza, dobbiamo essere capaci, come comunisti, di dare corrette indicazioni politiche e dimostrare coerenza e determinazione nell’azione. Il dibattito da fare verte su questo e a questo obiettivo bisogna tendere. Cerchiamo dunque di non scambiare una capra con un elefante, questo per dire che la parola comunismo deve ritrovare quella dimensione che storicamente ha avuto come azione concreta di trasformazione della realtà.
Non sappiamo se il tentativo avrà successo, ma vale la pena provarci, se non altro per chiarirci le idee su come affrontare il futuro. Per questo vogliamo inaugurare una nuova fase di lavoro che serva anche come verifica su dove possiamo effettivamente arrivare. Uscire dal pallone del comunismo virtuale e ritrovare la concretezza dell’azione politica.
3. TRE PUNTI PER INDIVIDUARE UNA PROSPETTIVA
C’è molta confusione sotto il cielo della sinistra. La tradizione dei cattivi maestri, che perdura ancora oggi e impedisce di vedere chiara la prospettiva, mantiene le sue caratteristiche e confonde la natura dei soggetti che occupano la scena.
Uno dei punti principali della confusione che caratterizza le posizioni, che si vanno esprimendo da decenni, è la mancanza di un’analisi oggettiva della natura dei soggetti politici che si muovono in Italia dopo la liquidazione del PCI.
Chi sono questi soggetti, che cosa esprimono e qual è la loro interconnessione?
Si parla di interconnessione perchè, aldilà della forma politica che assumono, in realtà essi hanno una comune radice sociale e culturale e una sostanziale estraneità al metodo di analisi materialistico che è caratteristico del pensiero comunista.
Per comprendere appieno la questione dobbiamo rifarci al periodo finale della trasformazione e della liquidazione del PCI. La sua mutazione genetica, avvenuta senza una sostanziale opposizione interna, ha distrutto la base razionale della sua strategia e del suo collegamento con la storia del movimento comunista. Non solo, ma l’autoliquidazione ha messo anche in crisi il rapporto di massa che il partito comunista aveva avuto fin dalla sua origine e quindi a partire dagli anni ’90 del secolo scorso si è cominciato a navigare a vista contrariamente a quella che invece era stata la caratteristica dei comunisti e cioè il legame stretto tra strategia politica, movimento reale, analisi teorica.
Per decenni quindi le nuove generazioni hanno subito il fascino di una cultura che di fatto rimuoveva il passato e creava un modello della rappresentazione della lotta politica e di classe che non aveva un collegamento vero con la dinamica delle contraddizioni reali e con un’interpretazione materialistica riconducibile al metodo comunista.
Chi erano (e chi sono ancora) i protagonisti di questo ‘rinnovamento’ ?
Se andiamo a vedere le cose da vicino è possibile constatare che, se è vero che la storia dell’opposizione non si è fermata con la liquidazione del PCI, sulla scena hanno preso corpo due forme di opposizione nuova che si sono sostituite a quella comunista: l’opposizione istituzionale-parlamentaristica di una sinistra democratica, spesso anticomunista e il radicalismo minoritario di una piccola borghesia, principalmente erede del ’68, in cerca di protagonismo politico variamente definito e che continua ad esprimersi in veste di mosca cocchiera illudendosi di cavalcare le contraddizioni politiche e sociali.
In questo contesto rientra anche la storia dei ‘comunismi’ italiani che hanno avuto le stesse caratteristiche del radicalismo, di cui rappresentavano la parte ideologica, dalla Rifondazione di Cossutta e Bertinotti, all’esperienza di Diliberto e di Ferrero, alle più recenti versioni identitarie di Rizzo e Alboresi. L’uso della falce e martello non ha modificato la qualità della rappresentazione. Il ceppo è stato sempre lo stesso anche se le articolazioni sono state diverse.
Per noi è importante dunque che compagni e compagne, quando si accingono a discutere di ripresa, riescano ad avere chiara la storia politica di questi decenni e ricavarne le conseguenze necessarie, evitando le illusioni ottiche che hanno deformato lo scena.
Per procedere quindi nell’analisi delle questioni che riguardano la ripresa di un progetto comunista, superando lo stallo attuale, bisogna definire almeno tre punti che possono delineare una prospettiva basata su un metodo comunista di interpretazione materialistica della realtà e di definizione teorica delle tendenze che essa esprime. I tre punti che riteniamo essenziali per delineare una prospettiva riguardano:
– la necessità di ricostruzione di una base teorica,
– il rapporto tra progetto comunista e movimento di classe,
– la strategia dei comunisti nella dialettica politica della società italiana.
Innanzitutto, e relativamente al primo punto, la domanda che dobbiamo farci è la seguente: c’è stato un vero dibattito in Italia sulla crisi del movimento comunista che sia riuscito a sviluppare una coscienza collettiva dell’area comunista sul ‘che fare?’ dopo la crisi? I fatti ci dicono in realtà che sostanzialmente le questioni sono state eluse.
Infatti constatiamo che la storia dei comunisti italiani è stata archiviata, il crollo del socialismo in Europa e in URSS è stato rimosso senza che si entrasse nel merito delle cause che l’hanno determinato e, per quanto riguarda la svolta cinese, si è fatto un copia incolla delle teorie sul socialismo con caratteristiche cinesi senza misurarsi con l’intera questione dell’esperienza storica del movimento comunista e del suo punto di arrivo odierno. Sulla situazione internazionale si è rimasti all’analisi geopolitica della conflittualità senza addentrarsi invece sulle caratteristiche del processo storico che stiamo attraversando e sulla dinamica globale delle contraddizioni e delle tendenze alle trasformazioni dei sistemi sociali nel quadro della lotta antimperialista. L’antimperialismo dunque come ideologia.
Su tutto questo riteniamo invece che ci sia bisogno di discutere, approfondire e riprendere un percorso di produzione teorica che non sia affidato a singoli o a nicchie culturali, ma a una formazione politica comunista che sappia fare dell’analisi marxista e dell’esperienza storica del movimento comunista una base viva di interpretazione dei processi reali e della propria strategia.
Insomma, per cominciare abbiamo bisogno, in sintesi, di una cultura militante che sia organicamente legata alla necessità della ricerca teorica, rivalutando il concetto di intellettuale organico inserito nel processo politico. Invece, come l’esperienza dimostra, si è fatto prevalentemente uso di un certo mondo culturale per ottenere un surrogato che sopperisca alla necessità di definire l’azione strategica comunista.
Il lavoro collettivo dei comunisti deve diventare invece un tessuto vivo dentro il progetto politico, secondo il principio leniniano: senza teoria nessuna prospettiva rivoluzionaria è possibile. Spremiamo dunque le meningi e, da ciascuno secondo le sue capacità, abituamoci alle analisi e alla verifica delle ipotesi di lavoro.
Secondo punto, per una ripresa strategica, è determinante il rapporto tra comunisti e lavoratori. Pensare che si possa ipotizzare la crescita di un’organizzazione comunista al di fuori di un rapporto di massa, sta a significare che uno dei punti essenziali della strategia viene mantenuto dentro una dimensione puramente ideologica. Sappiamo che in questi decenni di crisi si è continuato su questo a pestare l’acqua nel mortaio.
I motivi sono prevalentemente oggettivi. La frantumazione del tessuto operaio, la precarizzazione del lavoro, l’uso dell’immigrazione, i meccanismi normativi nel controllo della contrattazione sindacale, il ruolo consociativo di CGIL-CISL-UIL hanno ridotto ai minimi termini il protagonismo operaio ed emarginato i lavoratori dal conflitto politico nel paese.
Se consideriamo il rapporto tra comunisti e lavoratori un punto essenziale della ripresa, il banco di prova è rappresentato dal carattere di classe dell’organizzazione, ma il risultato non è a portata di mano. C’è bisogno di un lungo periodo di sperimentazione che serve a recuperare l’autonomia di classe dei lavoratori, la fiducia nella loro forza e la loro dislocazione nello scontro politico.
A partire dagli anni ’70 i lavoratori hanno tentato una estrema difesa della loro condizione rispetto ai salari, l’occupazione, le condizioni di vita, ma sono stati travolti dallo tsunami della riorganizzazione del sistema di produzione e dal consociativismo di chi ha esercitato il monopolio della contrattazione sindacale.
La debole esperienza del sindacalismo di base, peraltro condizionato dal clima movimentista in cui era inserito, non ha potuto contrastare l’avanzare di questi processi ed è rimasta di fatto ai margini. L’assenza di un punto di vista comunista sperimentato nell’esperienza concreta delle lotte e della riorganizzazione di classe è stata decisiva nel determinare lo stallo in cui ci troviamo ora.
Tra il sindacalismo filoconfederale della sinistra e le mosche cocchiere del nuovo confederalismo di base, ai comunisti spetta il compito di ridefinire, nella loro elaborazione strategica, anche il percorso per ristabilire un rapporto solido coi lavoratori. Un compito enorme e complesso che sta ancora tutto di fronte a chi sceglie la via di risalire la china, ma che non si può eludere.
Sul terzo punto. Probabilmente qualcuno ha pensato che la appropriazione dei simboli storici del PCI potesse suscitare un interesse di massa per la storia gloriosa che rappresentavano, e di essere riuscito, così facendo, a risolvere le questioni connesse alla ricostruzione di un movimento comunista in Italia. Non è andata così e lo si è visto coi risultati da zero virgola delle liste con la falce e il martello. Era solo una stupida e vergognosa illusione di chi rubava la palla per andare in porta senza giocare la partita.
A parte il giudizio che si può e si deve dare su chi ha tentato l’avventura, la questione su cui ragionare è altra. Dobbiamo prendere atto che la fine del PCI è stata anche la fine di un’egemonia di massa dei comunisti italiani. Quindi, se non si vuole cadere nel messianesimo predicando il socialismo che verrà, ai comunisti di oggi si pone il problema di come muoversi politicamente sapendo di essere una minoranza. Essere minoranza non significa però essere minoritari e Lenin ci insegna appunto questo. E questo riferimento ci deve indurre ad analizzare il rapporto tra leninismo e fase storica relativo all’Italia.
Che significa questo nel concreto della situazione italiana? La risposta che possiamo dare è che in sostanza i comunisti devono sapersi muovere tenendo conto dei rapporti di forza, del livello di sviluppo delle contraddizioni e avere una tattica che tenga conto della realtà. L’elaborazione di questa tattica, la sua efficacia, misura anche le possibilità di successo dei comunisti stessi e della loro credibilità a livello di massa. Per i comunisti non esiste dunque solo un livello ideologico e strategico da gestire, ma anche la capacità pratica di far marciare un processo di trasformazione utilizzando tutti gli strumenti e le forze in campo per raggiungere gli obiettivi di fase.
Per entrare nel concreto della situazione odierna, dobbiamo innanzitutto constatare che la scena è occupata a sinistra dai partiti istituzionali di tendenza liberal-democratica che accentrano l’interesse di quel 50% di elettori che sono interessati al voto. Ai comunisti organizzati spetta il compito di valutare come sfruttare le contraddizioni tra quello che viene definito il campo largo e il resto dello schieramento parlamentare e, nella dialettica con la destra, capire gli spazi comuni da utilizzare, ovviamente mantenendo una completa autonomia politica. Autonomia politica non significa però stare fuori dai processi politici. Questo concetto deve essere adeguatamente approfondito per non favorire quella falsa autosufficienza che i comunisti di nicchia sono abituati a sfoderare per vincere le difficoltà politiche.
Gli stessi problemi esistono rispetto ai movimenti di lotta di carattere politico e sociale. Anche questo è un importante terreno di crescita dell’influenza politica dei comunisti e fa parte dei compiti prioritari.
A monte di queste questioni di tattica c’è però da valutare la connessione del ruolo della Costituzione italiana nel processo di trasformazione dell’Italia. La svolta istituzionale e politica partita nel 1943 che ha portato alla Costituente e alla Repubblica è avvenuta in un contesto di lotta armata contro il fascismo in cui i comunisti hanno avuto un ruolo determinante, anche se la presenza anglo-americana in Italia ha condizionato lo sviluppo degli avvenimenti. Questo ha fatto in modo che l’intera società italiana sia stata influenzata da questi avvenimenti storici e oggi, nonostante la scomparsa del PCI, essi sopravvivono e non se ne può prescindere. Il richiamo costante alla Costituzione nella battaglia contro la destra e il liberismo e per la pace è diventato il punto di riferimento di milioni di democratici e questo dato va colto e trasformato dai comunisti in un punto di appoggio e di forza per sviluppare un’azione politica che va oltre i confini gestibili nell’immediato da un progetto di ripresa comunista e deve essere portato avanti in parallelo.
Il Fronte Politico Costituzionale diventa perciò un necessario livello politico di massa su cui aggregare le forze antiliberiste, democratiche, antifasciste e contro la guerra. Non un fronte strumentale, ma una convergenza oggettiva per le battaglie comuni.
Con questi punti di riferimento intendiamo aprire il dibattito sul ‘che fare?’ Essi sono anche la base su cui il Forum italiano dei comunisti lavorerà da ora in poi nella speranza che altri compagni e compagne ne condividano l’impostazione e si decidano a rompere con quella versione caricaturale che dei comunismi italiani si è avuta finora.
Questa operazione la vogliamo intitolare Salerno 2.0 per stabilire quel filo di continuità tra l’esperienza dei comunisti di allora e ciò che ci proponiamo di fare oggi. Questa scelta per noi non è un’improvvisazione, ma una valutazione che ci può permettere di ricomporre quel tessuto storico che, andando alle radici, può costituire la base della ripresa.
Parte II
Questioni del movimento comunista internazionale
1. LA CONCEZIONE MATERIALISTICA DELLO SVILUPPO DEL MOVIMENTO COMUNISTA
(scaricabile da www.associazionestalin.it)
2. SCHEMA PER IL DIBATTITO SUL MOVIMENTO COMUNISTA
1 – La natura del crollo del 1989
2 – La via cinese come alternativa al crollo
3 – La rottura dello schema di sviluppo novecentesco del movimento comunista
4 – Il movimento comunista dopo gli anni ’90
5 – Per una teoria della rivoluzione socialista nel XXI secolo
1 – La natura del crollo del 1989.
Il crollo dell’URSS e del socialismo in Europa non è un incidente della storia. E’ il punto di arrivo di un processo rivoluzionario a guida comunista iniziato con Lenin e con la rivoluzione d’Ottobre che va indagato attentamente. Non si può passare oltre e affermare superficialmente che oggi l’essenziale è guardare al socialismo del XXI secolo. Non si può parlare di socialismo futuro senza fare i conti col ‘socialismo reale’ di cui i comunisti sono stati protagonisti. L’esperienza che si è conclusa negli anni ’90 del secolo scorso è stata la chiusura di una fase storica in cui il movimento comunista ha tentato l’assalto al cielo e nonostante l’enorme importanza della sua esperienza ha dovuto fare i conti con la realtà. Anche se rimangono in piedi sia l’esperienza concreta di decine di anni di socialismo che una sedimentazione storica che condizionano ancor oggi i passaggi nell’attuale fase storica.
Premesso questo dobbiamo domandarci se le cose potevano andare diversamente.
Si poteva evitare il crollo? Intanto dobbiamo riconoscere che di controrivoluzione si è trattato e non di crollo. C’è differenza tra un crollo e una controrivoluzione e la differenza consiste nel fatto che la controrivoluzione non riesce a stradicare la memoria storica di ciò che è avvenuto, mentre il crollo è la liquidazione di un’esperienza che non ha fondamenta. Gli esempi a cui possiamo riferirci sono la Francia del 1789 e appunto la Russia del 1917.
Da materialisti dobbiamo renderci conto che l’esito di una rivoluzione non si può stabilire a priori né si possono individuare i percorsi a tavolino. Quindi non è da prendere in considerazione il punto di vista di chi dà giudizi morali sulle vicende storiche e invece di capire i processi reali vuole chiudere la partita.
C’è una domanda fondamentale che bisogna però prendere in considerazione e che non bisogna evitare: perchè c’è stata la controrivoluzione e perchè ha avuto successo?
A chi si è dedicato all’analisi dei fatti con una impostazione materialistica dovrebbero essere evidenti due cose: che le tappe forzate dello sviluppo del socialismo del mondo di cui l’URSS è stata protagonista, pur avendo le basi oggettive su cui crescere, di fronte ad un sistema imperialista fortemente concorrenziale sul terreno economico e militare, non ha trovato, dopo la morte di Stalin, un gruppo dirigente del Partito che sapesse sciogliere i nodi che si andavano accumulando. Questo è il centro di una possibile analisi concreta di ciò che è avvenuto. E la conferma di questa tesi si può trovare nella vicenda cinese che ha avuto un altro esito. Anche in questo caso i problemi c’erano e dello stesso tipo, ma sono stati affrontati in tutt’altro modo e con altri esiti.
Anche un’altra domanda bisognerebbe porsi: si poteva procedere, nel caso dell’URSS, diversamente, nella forma e nei tempi, nella costruzione del socialismo ‘reale’ per evitare le difficoltà che sono sopravvenute a distanza di molti decenni? Porre la questione ora per allora non ha senso. La costruzione del socialismo ‘reale’ non poteva essere soggetta a opzioni, ma alle necessità storiche che la situazione imponeva ed esse andavano affrontate con una logica rivoluzionaria e con l’esatta individuazione della natura del conflitto all’epoca in cui le scelte si presentavano.(Stalin,Mmateriali per una discussione).
Le attuali vicende di Russia e Cina, Venezuela, Cuba e Corea, peraltro, non lasciano dubbi sulle natura del conflitto con l’imperialismo e sulle sue caratteristiche che anche oggi viene condotto senza esclusione di colpi. Quindi non è cambiato molto da allora. Bisogna perciò dedurre che i cambiamenti rivoluzionari non permettono giri di valzer e che di fronte a un nemico agguerrito non si possono concedere spazi. E questi spazi invece si è permesso che fossero occupati dalle vecchie borghesie revansciste delle democrazie popolari europee e dalla neoborghesia nata dalla crisi del sistema sovietico. Sotto la guida e il sostegno concreto dall’imperialismo occidentale. Questa è la responsabilità del gruppo dirigente del PCUS dopo Stalin.
La crisi del socialismo nato dalla rivoluzione d’Ottobre non era però inevitabile. Ma i fatti si determinano sulla base dello sviluppo dei rapporti di forza e nel caso specifico si trattava dell’azione combinata della controrivoluzione interna, dell’intervento dell’imperialismo e dell’inadeguadezza di chi il socialismo doveva difendere. Questo ha fatto pendere dalla parte negativa l’ago della bilancia. E dagli anelli deboli della catena, Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia prima, fino al cuore dell’URSS poi, una concatenazione di fattori ha permesso che si ponesse fine alla fase del socialismo ‘reale’. L’irresponsabile cialtronismo di Kruscev e la svendita dei paesi socialisti e dell’URSS fatta da Gorbaciov hanno portato al disastro un’esperienza rivoluzionaria fatta di lotte, di costruzione di basi socialiste e di guerre vittoriose.
La storia del socialismo iniziata nel 1917 è dunque archiviata’?
Inutile ricorrere alla retorica per dare risposte. Le considerazioni fatte finora non ci sembrano però retorica e noi le abbiamo abbozzate perchè potrebbero rappresentare un terreno di confronto con altri comunisti per arrivare assieme ad una analisi convincente di ciò che è successo negli anni ’90. Finora un confronto serio non c’è stato e il Forum si ripropone di riaprire la partita. Quindi le considerazioni che abbiamo fatto sono premesse e punti di riferimento per la discussione, nella consapevolezza che senza una robusta formazione storico-teorica non si può ‘rifondare’ niente di comunista.
Il comunismo è la storia reale del movimento comunista reale. Da questo bisogna partire per capire e andare avanti.
2 – La via cinese come alternativa al crollo
Sappiamo, come dice Marx, che la vecchia talpa scava anche se in apparenza sembra che nulla stia cambiando e inoltre, si aggiunga, bisogna tener conto che non si può portare indietro la ruota della Storia. Questo ci induce a considerare, nonostante le sconfitte, l’enorme importanza dell’eredità che la rivoluzione d’Ottobre ci ha lasciato e su questa eredità si andrànno ricostituendo, nella forma storicamente determinata, la teoria e la prassi delle nuove trasformazioni rivoluzionarie.
Così è accaduto in passato nelle varie fasi storiche che hanno visto i comunisti come protagonisti dal XIX secolo in poi e, se lo sviluppo storico nell’epoca del capitalismo e dell’imperialismo mantiene, come nei fatti avviene, una tendenza univoca dal punto di vista della natura delle contraddizioni, la base della ripresa non può che avvenire se non riannodando il filo rosso della trasformazione rivoluzionaria. Significa questo che il futuro è già cominciato?
Prima di rispondere a questo interrogativo, bisogna ancora ritornare allo’antico, cioè al rapporto che esiste tra l’esito degli anni ’90 e l’esperienza cinese odierna. E’ necessario stabilire questo parallelo per vari motivi. Intanto per parlare di ciò che è avvenuto in Cina con la Rivoluzione culturale e con la vittoria di Deng. Poi si tratta di valutare l’importanza teorica e pratica del socialismo con caratteristiche cinesi a cui Deng ha dato vita e la differenza tra le due realtà, URSS e Cina, rispetto agli esiti.
Sulla prima questione: la rivoluzione culturale e l’alternativa di Deng Xiaoping.
Tutto è partito, com’è noto, dal fatto che Mao, nel contesto della polemica antirevisionista con i sovietici, decise di ‘sparare sul quartier generale’ per liquidare i dirigenti del partito che a suo parere avevano imboccato la via capitalistica. Questa scelta ha impresso una radicalizzazione nel partito e contro il partito comunista che ha determinato uno scontro al limite della guerra civile. Mentre la linea di Mao sembrava prevalere, l’episodio della morte oscura di Lin Piao ha dato il segnale che nel tessuto della società cinese, nel partito come nell’esercito, le opinioni non erano affatto omogenee e anzi, una volta liquidato il maggior esponente della Rivoluzione culturale dopo Mao, il vento stava cambiando. Al punto che si è verificato, vivo ancora Mao, quello che fu definito il ‘rovesciamento dei verdetti’ tanto nella politica estera del PCC che nella linea della costruzione del socialismo.
In politica estera si passò dallo slogan popoli di tutto il mondo unitevi contro l’imperialismo americano all’apertura di relazioni con gli Stati Uniti sotto l’egida di Nixon e di Kissinger. Quell’apertura all’esterno era in realtà collegata al progetto di Deng di abbandonare la vecchia strada delle spallate (grande balzo in avanti e rivoluzione culturale) per trovare una via di sviluppo del socialismo puntando sulla capacità di mettere in moto le forze produttive che assicurassero la crescita economica, il benessere di massa e la capacità di alzare continuamente i livelli tecnologici della produzione compresi quelli più avanzati. Quello che non era riuscito in URSS per la cialtroneria, il conservatorismo e il tradimento dei dirigenti del PCUS è avvenuto invece in Cina.
Diceva Deng, non è importante che il gatto sia nero o bianco, importante è che mangi il topo. Basandosi sulla politica dei ‘fatti’, la Cina è diventata, sotto la guida di Deng e dei suoi successori, un paese avanzatissimo sul piano della produzione, della ricerca scientifica e dello sviluppo delle relazioni economiche mondiali. La crisi che aveva travolto l’URSS e i paesi socialisti d’Europa veniva superata con quello che si è definito socialismo con caratteristiche cinesi che punta ad una realizzazione di lungo periodo dell’obiettivo su cui è nata la Repubblica popolare cinese, il socialismo.
Chi ha una visione materialistica dello sviluppo del movimento comunista, e noi siamo tra questi, non può che prendere atto dei grandi risultati raggiunti dalla Cina, che non hanno solo una valenza interna, ma oggi condizionano lo sviluppo mondiale. Non solo perchè la Cina ha raggiunto un potenziale economico pari a quello degli Stati Uniti, ma anche perché ha stabilito relazioni politiche ed economiche in tutti i continenti in modo da costituire un’alternativa al ricatto imperialista. La Cina quindi è in grado di operare come deterrente verso l’occidente imperialista e questo indubbiamente favorisce lo sviluppo dei movimenti rivoluzionari e indipendentisti.
Questa è la Cina moderna e i comunisti di tutto il mondo non possono non prendere atto di questa novità ‘comunista’ basandosi sui risultati, evitando la deriva di quei comunisti raggruppati attorno al KKE, il partito comunista greco, che la definiscono un paese imperialista. Certamente la via imboccata dalla Cina, in prospettiva, dovrà tener conto delle contraddizioni che possono svilupparsi in un contesto in cui l’economia privata ha un ruolo importante e le relazioni internazionali impongono certe regole. Ma se andiamo a vedere qual è la politica estera cinese oggi, dobbiamo riconoscere che il suo ruolo di pace e di collaborazione internazionale rappresenta un deterrente per l’imperialismo occidentale e al tempo stesso sulle questioni determinanti, come è avvenuto a Tien An Men, a Hong Kong e rispetto a Taiwan, il governo mantiene saldo il timone rispetto agli obiettivi.
La vecchia talpa ha scavato ancora e si ripresenta col volto del socialismo con caratteristiche cinesi.
3 – La rottura dello schema di sviluppo novecentesco del movimento comunista
Ciò che è avvenuto in Europa negli anni ’90 e in Cina dopo la rivoluzione culturale ha cambiato completamente il quadro entro cui si era sviluppato fino allora il movimento comunista. Per circa un secolo, bisogna ricordare, esso ha ruotato attorno all’Unione Sovietica e all’Europa che sono stati il centro dell’elaborazione anche teorica dei comunisti. E non poteva essere altrimenti dal momento che la prima rivoluzione socialista è avvenuta in Russia e la Terza Internazionale è nata in Europa e per molto tempo, inevitabilmente, l’attenzione è stata concentrata sui partiti e gli avvenimenti europei e qui sono state poste le radici più profonde con l’apporto teorico fondamentale di Lenin. Anche se non dobbiamo dimenticare che l’Internazionale comunista sin dalla sua fondazione ha anche lanciato la sua sfida all’imperialismo e al sistema dello sfruttamento mondiali. Si trattava della cosidetta ‘questione orientale’ che ha preso le mosse dalla conferenza di Baku negli anni ’20 del secolo scorso. L’accusa di eurocentrimo che spesso viene evocata nelle discussioni sul movimento comunista non può pertanto nascondere il dato oggettivo, basato su un percorso storico difficilmente contestatabile. Di fatto l’egemonia europea nel movimento comunista è durata fino alla vigilia degli anni ’90 del secolo scorso anche se le vicende interne al blocco socialista e lo scontro tra comunisti sovietici e cinesi avevano scosso profondamente gli equilibri di quello che era stato fino a quel momento l’asse storico di riferimento.
Dopo il crollo dell’URSS questo asse storico, che teneva insieme il movimento comunista, è entrato in crisi e ciò ha avuto effetti devastanti nei rapporti tra i partiti e nella solidità delle loro relazioni. Bisogna anche tener conto che la crisi dell’Europa orientale si è sviluppata in parallelo a quella dei partiti comunisti dell’area occidentale dove, dagli anni ’20 del novecento, si era creata una forte organizzazione operaia e comunista, in particolare in Francia e in Italia. La crisi del comunismo occidentale, la cui leadership non dimentichiamolo era rappresentata dal PCI, ha ulteriormente contribuito quindi a indebolire i riferimenti internazionali dei comunisti.
Ogni comunista sopravvissuto alla catastrofe ha vissuto certamente il senso di isolamento e di sconfitta derivato da quella situazione che si accompagnava anche alla guerra infinita che gli americani avevano scatenato nell’illusione che si fosse arrivati alla fine della storia e si potesse realizzare un governo unipolare a guida americana.
Il consolidamento geopolitico della Cina e il ruolo dirigente del PCC non hanno sostituito un nuovo equilibrio strategico del movimento comunista e questo va detto anche a chi ha cercato di sostituire uno schema ad un altro senza valutare a fondo la questione. Perchè la Cina non può diventare, nella fase storica attuale, il centro della riorganizzazione internazionale dei comunisti? La risposta non la diamo noi, ma sono i comunisti cinesi stessi a darla. Essi hanno definito il ruolo della Cina in questa fase storica su due binari paralleli paralleli, la costruzione del socialismo con caratteristiche cinesi e lo sviluppo delle relazioni internazionali basate sulla pace e l’interesse reciproco. Ovviamente questi obiettivi sono perfettamente condivisibili dai comunisti, ad eccezione dei neotrotskisti del KKE e dei loro sodali, ma non mettono all’ordine del giorno l’aspetto più strategico che è la ragion d’essere di un movimento comunista internazionale, come è stato in altre fasi storiche.
4 – Il movimento comunista dopo gli anni ’90
Quando abbiamo pubblicato il libretto ‘Per un’interpretazione materialistica della storia del movimento comunista’ avevamo come obiettivo quello di aprire una discussione su come, storicamente, si era andato configurando il rapporto tra questo movimento e il processo di cui esso è stato protagonista. In sostanza abbiamo cercato di capire chi fossero i comunisti e perchè potevano definirsi tali.
Ebbene, la conclusione che abbiamo tratto è che la definizione di comunista deve essere strettamente correlata al ruolo storico. Non esiste il comunista in astratto, ma il comunista in quanto attore di una trasformazione politico-sociale determinata.
Per questo, il libretto a cui facciamo riferimento analizza le fasi storiche in cui i comunisti hanno agito come forza rivoluzionaria e le sue specifiche caratteristiche e abbiamo concluso che possono storicamente definirsi comunisti quelli che stavano con Marx ed Engels all’epoca della Prima Internazionale, coi bolscevichi e con gli aderenti alla Terza Internazionale all’epoca di Lenin, col movimento comunista che ruotava attorno all’URSS guidata da Stalin e, successivamente, col blocco dei paesi socialisti in Europa, la Cina, il Vietnam, la Corea, Cuba e i comunisti di tutto il mondo che ne sostenevano la causa in una prospettiva socialista comune, quello appunto che in sostanza veniva definito ‘campo socialista’.
Oggi però come stanno le cose? Continuare a parlare di comunismo al di fuori di una prospettiva storica concreta è come pestare l’acqua nel mortaio. Per questo, dopo gli avvenimenti degli anni ’90 del secolo scorso e la svolta cinese, la questione comunista, della crisi e delle possibilità di ripresa del movimento comunista, si è riproposta con forza. La domanda principale che si pone attualmente è questa: che cos’è il movimento comunista dopo la crisi?
L’immagine che si ricava oggi del popolo comunista è quello di una comunità dispersa che non ha ancora ritrovato la sua prospettiva unitaria e cioè il suo ruolo storico e la sua capacità di espressione teorica. E’ vero, oggi c’è una convergenza di interesse nella battaglia contro l’imperialismo occidentale a guida americana, ma le forze che partecipano a questa battaglia – gli islamici, i russi di Putin, il nazionalismo popolare dell’America Latina – hanno sistemi sociali e politici diversi. Dentro quest’area i paesi a direzione socialista, a partire dalla Cina, mantengono un’autonomia nazionale di sviluppo che, al contrario del passato, non configura il carattere di un blocco di cui i comunisti sono la guida.
5 – Per una teoria della rivoluzione socialista nel XXI secolo
Abbiamo messo in evidenza in queste note che dalla crisi degli anni ’90 non è ancora emerso nel movimento comunista un punto di vista generale che spieghi le forme della trasformazione socialista nella presente fase storica. Eppure il movimento comunista, a partire da Marx ed Engels, è stato caratterizzato dalla capacità di individuare i punti di riferimento per la crescita della sua esperienza e soprattutto di definire una teoria della trasformazione che corrispondesse alle questioni poste dal processo storico. ‘Proletari di tutto il mondo unitevi’ è stata l’indicazione scaturita dall’esperienza dell’Associazione internazionale dei lavoratori di cui Marx ed Engels sono stati i fondatori e attorno ad essa si sono raccolte le masse operaie che si andavano organizzando contestualmente allo sviluppo del capitalismo.
‘Tutto il potere ai soviet e trasformazione della guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria’ e fondazione dell’Internazionale comunista. Costruzione del socialismo in URSS e successivo sviluppo del campo socialista. Fronte mondiale per la vittoria contro il fascismo. Su questo percorso si è andata, di volta in volta, determinando la capacità dei comunisti di trovare il punto di unità e di avanzamento.
Come si configura oggi la questione? Come si ricompone una prospettiva anche teorica di crescita e di avanzamento del movimento comunista?
Quando il movimento comunista è avanzato ha avuto alle spalle sempre una spinta reale che ne ha determinato il risultato. Oggi ci troviamo in una congiuntura in cui la crisi dell’egemonia mondiale a guida americana corrisponde alla formazione di un blocco militare e economico che impedisce che la crisi venga superata a vantaggio degli Stati Uniti e dei loro alleati. Le guerre in atto in Ucraina e nel Medio Oriente danno la misura del grado di pericolosità a cui è arrivata la situazione. Il punto di unità del movimento comunista si misura oggi principalmente su questa questione e quindi va rafforzata la mobilitazione e la capacità di incidenza in tutto lo scacchiere in cui l’imperialismo opera e, per quanto ci riguarda, nell’ U.E.
La crisi dell’imperialismo è però anche crisi degli equilibri socio-economici dei paesi su cui si basa il suo dominio, per cui man mano che la crisi avanza produce dei processi di destabilizzazione sia nel cuore dell’impero che nelle aree in cui esso ha esercitato, o sta esercitando, il suo dominio. Quindi è chiaro che, nonostante il ritardo, il movimento comunista deve ritrovare la sua capacità di intervento non solo nella lotta contro l’imperialismo, ma anche nelle questioni specifiche che riguardano i singoli paesi e le singole aree del pianeta.
Non è nostro compito qui entrare nel merito delle questioni, lo indichiamo però come compito per la crescita politica e teorica dei comunisti nel XXI secolo.
1www.associazionestalin.it/togliatti_4_nuoviargomenti.html
2https://www.associazionestalin.it/PCI_8_TogliattiVIII.html
3www.associazionestalin.it/togliatti_2_firenze.html