[Zeitun] Questa è la prima guerra dell’apartheid di Israele?

Rassegna 19/10/2024

 

Questa è la prima guerra dell’apartheid di Israele?

Oren Yiftachel – 15 ottobre 2024 – +972 magazine

Tutt’altro che privo di una strategia politica, Israele sta combattendo per rafforzare il progetto suprematista che ha costruito per decenni tra il fiume e il mare.

Durante lo scorso anno molti hanno sostenuto che il disastro del 7 ottobre – il più grande massacro di civili israeliani nella storia del Paese – è stato un segnale del fatto che lo status quo di occupazione permanente è crollato. Sotto il governo del primo ministro Benjamin Netanyahu Israele ha portato avanti una politica di “gestione del conflitto” a lungo termine per rafforzare l’occupazione e la colonizzazione delle terre palestinesi mentre conteneva la frammentata resistenza palestinese. Ciò implicava finanziare un Hamas “dissuaso”, che vari leader israeliani consideravano come “una risorsa”.

È vero che in seguito al 7 ottobre alcuni aspetti di questa strategia sono falliti, soprattutto l’illusione che il progetto nazionale palestinese potesse essere schiacciato, o che Hamas ed Hezbollah potessero essere tenuti a bada in assenza di un qualunque accordo politico. Anche il concetto secondo cui la colonizzazione ebraica potesse garantire la sicurezza lungo i confini e le frontiere di Israele, un mito sionista di lunga data, è stato distrutto: oltre al profondo trauma e al dolore sofferti da decine di comunità frontaliere ebraiche, circa 130.000 israeliani provenienti da più di 60 luoghi all’interno della Linea Verde [cioè in Israele, ndt.] sono sfollati, e molti di loro lo sono tuttora.

Altri esperti hanno sostenuto che la guerra israeliana a Gaza, e ora in Libano, è priva di una strategia politica “per il giorno dopo”, ed è combattuta solo a favore della sopravvivenza politica di Netanyahu. Ma, diversamente dall’opinione popolare, un’analisi realistica dell’anno trascorso mostra che in questa guerra Israele continua a promuovere un obiettivo strategico inequivocabile: conservare e rafforzare il regime di supremazia ebraica sui palestinesi dal fiume Giordano al mar Mediterraneo. In questo senso gli ultimi 12 mesi possono essere meglio compresi come la “prima guerra dell’apartheid” di Israele.

Mentre le precedenti otto guerre hanno tentato di creare un nuovo ordine geopolitico o sono state limitate a zone specifiche, l’attuale intende rafforzare il progetto politico suprematista che Israele ha costruito su tutto il territorio e che l’attacco del 7 ottobre ha sostanzialmente sfidato. Di conseguenza c’è anche un netto rifiuto di esplorare ogni via di riconciliazione o persino un cessate il fuoco con i palestinesi.

L’ordine suprematista di Israele, che una volta era definito “strisciante” e più di recente “apartheid profondo”, è storicamente ben radicato. È stato mascherato negli ultimi decenni dal cosiddetto processo di pace, promesse di una “occupazione temporanea” e affermazioni secondo cui Israele non aveva “partner” con cui negoziare. Ma negli ultimi anni la realtà del progetto di apartheid è diventata sempre più evidente, soprattutto sotto il governo di Netanyahu.

Oggi Israele non fa alcun tentativo di nascondere le sue intenzioni suprematiste. La legge dello Stato-Nazione del 2018 ha dichiarato che “il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è unicamente del popolo ebraico” e che “lo Stato vede lo sviluppo della colonizzazione ebraica come un valore nazionale.” Facendo un passo ulteriore, il manifesto dell’attuale governo israeliano (noto come i suoi “principi guida) nel 2022 ha affermato con orgoglio che “il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e inalienabile a ogni area della Terra di Israele”, che, nel lessico ebraico, include Gaza e la Cisgiordania, e si impegna a “promuovere e sviluppare colonie in ogni parte della Terra di Israele”.

Lo scorso luglio la Knesseth ha votato con una maggioranza schiacciante il rifiuto della creazione di uno Stato palestinese. E quando Netanyahu parla all’ONU, come ha fatto due settimane fa, le cartine che mostra descrivono chiaramente questo progetto: uno Stato ebraico tra il fiume e il mare, con i palestinesi destinati ad esistere ai margini invisibili della sovranità ebraica come abitanti di seconda o terza classe.

Ironicamente e tragicamente gli attacchi terroristici di Hamas e dei suoi alleati negli ultimi tre decenni, così come la loro retorica di negazione dell’esistenza di Israele e che propugna un futuro Stato islamico dal fiume al mare, sono stati invocati come pretesto per l’occupazione e l’oppressione dei palestinesi da parte di Israele. I massacri del 7 ottobre possono quindi essere criticati non solo come criminali e profondamente immorali, ma anche come una “ribellione boomerang”, che torna indietro per consentire una violenza brutale contro il popolo palestinese e danneggia gravemente la loro giusta lotta per la decolonizzazione e l’autodeterminazione. L’offensiva di Hezbollah nel nord ha aggiunto altra benzina al fuoco della ribellione boomerang, che a sua volta brucia chi l’ha perpetrata.

Reprimere i palestinesi, cementare la supremazia ebraica

Per oltre 75 anni Israele ha violentemente dominato, espulso ed occupato i palestinesi. Ma questa storia di oppressione impallidisce in confronto con le distruzioni operate contro i gazawi nell’ultimo anno, quello che molti esperti hanno definito un genocidio.

In seguito al “disimpegno” israeliano e a 17 anni di assedio soffocante contro l’enclave controllata da Hamas, agli occhi degli israeliani Gaza è diventata simbolo di una visione distorta della sovranità palestinese. Pertanto, molto più che combattere miliziani o cercare vendetta per il 7 ottobre, i massicci bombardamenti, la pulizia etnica e l’eliminazione della grande maggioranza delle infrastrutture civili della Striscia, compresi ospedali, moschee, industrie, scuole e università, da parte di Israele sono un attacco diretto alla possibilità della decolonizzazione e autodeterminazione dei palestinesi.

Nell’anno trascorso, immersi nella nebbia di questo massacro contro Gaza, anche l’occupazione coloniale della Cisgiordania ha accelerato. Israele ha introdotto nuove misure di annessione amministrativa; la violenza dei coloni si è ulteriormente intensificata con l’appoggio dell’esercito; sono stati fondati decine di nuovi avamposti, contribuendo all’espulsione delle comunità palestinesi; città palestinesi sono state sottoposte a chiusure che ne hanno soffocato l’economia; la repressione violenta della resistenza armata da parte dell’esercito israeliano ha raggiunto livelli che non si vedevano dalla Seconda Intifada, soprattutto nei campi profughi di Jenin, Nablus e Tulkarem. La già tenue distinzione tra aree A, B e C è stata completamente cancellata: l’esercito israeliano agisce liberamente in tutto il territorio.

Nel contempo Israele ha accentuato l’oppressione dei palestinesi all’interno della Linea Verde e la loro condizione di cittadini di seconda classe. Ha intensificato le pesanti restrizioni sulla loro attività politica attraverso maggiori controlli, arresti, licenziamenti, sospensioni e vessazioni. I dirigenti arabi sono etichettati come “sostenitori del terrorismo” e le autorità stanno attuando un’ondata senza precedenti di demolizioni di case, soprattutto nel Negev/Naqab, dove nel 2023 il numero di demolizioni (che hanno raggiunto la cifra record di 3.283) è stata superiore al numero totale per gli ebrei in tutto lo Stato. Allo stesso tempo la polizia ha rinunciato del tutto ad affrontare il grave problema del crimine organizzato nelle comunità arabe. Quindi possiamo notare una strategia comune in tutti i territori controllati da Israele per reprimere i palestinesi e cementare la supremazia ebraica.

La crescente offensiva in Libano — che è stata lanciata per respingere i dodici mesi di aggressioni di Hezbollah contro il nord di Israele, ma ora sta diventando un attacco massiccio contro tutto il Libano — e lo scambio di colpi con l’Iran sembrano annunciare una fase nuova e a livello regionale della guerra. Ciò è chiaramente legato all’agenda geopolitica dell’impero americano, ma serve anche a distrarre l’attenzione dalla crescente oppressione dei palestinesi.

Un altro fronte della guerra dell’apartheid viene condotto contro gli ebrei israeliani che lottano per la pace e la democrazia. I continui tentativi del governo Netanyahu di indebolire la (già ridotta) indipendenza del potere giudiziario consentirà ulteriori violazioni dei diritti umani aumentando il potere dell’esecutivo, attualmente composto dalla coalizione più a destra che Israele abbia mai conosciuto. Stiamo già vedendo gli effetti della caduta di Israele in un governo autoritario. il Paese è invaso dalle armi grazie alla decisione del ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir di distribuire decine di migliaia di fucili, soprattutto a sostenitori del suprematismo ebraico che vivono nelle colonie della Cisgiordania o nelle aree di confine. Il ministro delle Finanze e governatore di fatto della Cisgiordania Bezalel Smotrich, lui stesso un colono irriducibile, ha destinato grandi somme di fondi pubblici per progetti di colonizzazione. E il governo ha di fatto messo a tacere ogni critica contro la guerra criminale di Israele scatenando gravi violenze poliziesche contro manifestanti antigovernativi e contro la guerra, incitando contro istituzioni accademiche, intellettuali e artisti e diffondendo discorsi tossici e accusatori contro i “traditori” di sinistra.

Una dimensione particolarmente rivoltante della guerra dell’apartheid è l’abbandono da parte del governo degli ostaggi rapiti da Hamas, il cui potenziale ritorno minaccia il governo mettendo in evidenza il fiasco del 7 ottobre. Nel contempo la loro presenza nei tunnel di Hamas impedisce al governo di continuare la sua criminale, e largamente inefficace, “pressione militare” a Gaza, che minaccia ogni possibilità che gli ostaggi ritornino vivi. Quindi, sfruttando la sofferenza e lo shock delle famiglie degli ostaggi, il governo consente che noi ci troviamo di fronte a un continuo stato di emergenza che preclude l’apertura di un’inchiesta ufficiale sulle negligenze che hanno portato ai massacri del 7 ottobre.

Un nuovo orizzonte politico

Guardando al futuro vale la pena di ricordare che l’apartheid non è solo un abisso morale e un crimine contro l’umanità, è anche un regime instabile, caratterizzato da continue violenze che non risparmiano nessuno e danni estesi per l’economia e l’ambiente.

Nonostante il considerevole appoggio che riceve tra gli ebrei in Israele e all’estero, e dai governi occidentali che scandalosamente ne garantiscono l’impunità, il regime israeliano è lungi dall’essere vittorioso nella sua prima guerra dell’apartheid. Le forze che gli si oppongono stanno crescendo non solo tra i palestinesi e nei Paesi arabi vicini, ma anche tra gli ebrei della diaspora e la più vasta opinione pubblica sia nel Nord che nel Sud globali. L’Israele dell’apartheid ha già perso la battaglia etica, ma perdere le alleanze internazionali, i rapporti commerciali, le prospettive economiche e i legami culturali e accademici potrebbe obbligare il governo a porre fine alla guerra per la supremazia ebraica.

Eppure questo non è un risultato inevitabile. Richiede una significativa mobilitazione globale per imporre le leggi internazionali, così come un’alleanza tra ebrei e palestinesi che sfidi e rompa l’ordine dell’apartheid di separazione, segregazione e discriminazione legalizzate. La lotta necessaria è civile e non violenta: lotte simili contro i regimi di apartheid in tutto il mondo come in Irlanda del Nord, nel Sud degli Stati Uniti, in Kosovo o in Sudafrica hanno avuto successo quando hanno abbandonato la violenza che prendeva di mira i civili e si sono concentrate su campagne civiche, politiche, legali ed etiche.

La lotta richiede anche un orizzonte politico che risponda ai continui fallimenti della divisione della terra tra il fiume e il mare. Il movimento per la pace “Una Terra per Tutti: due Stati una Patria”, un’iniziativa unitaria tra israeliani e palestinesi, ha articolato tale visione basata sull’uguaglianza individuale e collettiva. Questo modello confederale di due Stati, con libertà di movimento, istituzioni comuni e una capitale condivisa, può offrire un’uscita dal crescente apartheid e contribuire a disegnare un orizzonte verso un futuro di riconciliazione e pace. Solo l’adozione di tali prospettive può garantire che la prima guerra dell’apartheid sia anche l’ultima.

Il professor Oren Yiftachel è un ricercatore di geografia politica e giuridica e attivista per i diritti umani.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

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