[SinistraInRete] Carlo Formenti: I popoli africani contro l’imperialismo – 1. Said Bouamama

Rassegna 09/11/2024

Carlo Formenti: I popoli africani contro l’imperialismo – 1. Said Bouamama

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I popoli africani contro l’imperialismo – 1. Said Bouamama

di Carlo Formenti

Con questo testo inauguro un percorso in tre tappe sulle lotte africane contro l’imperialismo e sul loro contributo allo sviluppo del marxismo. In questo primo articolo discuto due libri di Said Bouamama (intellettuale marxista di origine magrebina nato in Francia – a Roubaix – sessantasei anni fa): Pour un panafricanisme révolutionnaire (Syllepse, Parigi 2023) e Des classes dangereuses a l’ennemi intérieur (Syllepse, Parigi 2021). Nelle puntate successive mi occuperò, rispettivamente, di Red Africa dell’anglo-africano Kevin Ochieng Okoth (di imminente uscita presso l’editore Meltemi, con una mia Postfazione) e di un’antologia di testi del guineense Amilcar Cabral.

modalita di viaggio in africa 1820 da w hutton viaggi in africa 1821 da i clark dopo william hutton gli europei sono trasportati su lesulle
lettiere un uomo africa.jpgI. Sul panafricanismo rivoluzionario

a) Le falsificazioni ideologiche occidentali per legittimare il colonialismo

La più diffusa mistificazione cui gli imperialisti occidentali hanno fatto ricorso per giustificare le proprie guerre coloniali di conquista, scrive Bouamama, è stata l’affermazione secondo cui l’Africa sarebbe un continente “senza storia”, che solo grazie all’integrazione negli imperi dei Paesi europei ha potuto fare il proprio ingresso nella storia “universale” (cioè europea). Questa tesi si fonda su una narrazione che presenta il continente africano come un insieme di società “primitive”, politicamente non strutturate, “senza stato”, una moltitudine di gruppi umani senza scambi reciproci, perennemente in guerra fra loro e incapaci di esprimere forme sociali più complesse della tribù e del clan famigliare (per inciso, vale la pena di sottolineare come l’immagine delle “società senza stato” evocata nelle narrazioni di alcuni antropologi occidentali, sia stata utilizzata “da sinistra” per criticare i processi di costruzione nazionale post indipendenza ed esaltare certe forme sociali premoderne in contrapposizione ai processi di modernizzazione imposti dall’esterno).

La realtà è che, prima della colonizzazione, contrariamente alle affermazioni propagandistiche occidentali, sia nell’Africa Settentrionale che nell’Africa Subsahariana, esistevano non solo stati ma addirittura veri e propri imperi per cui la colonizzazione, scrive Bouamama, non ha voluto dire l’ingresso dell’Africa nella storia, bensì l’interruzione violenta della sua storia (esattamente come la cosiddetta “scoperta” dell’America ha voluto dire l’interruzione violenta della storia di quel continente).

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Alberto Bradanini: Realismo versus Idealismo

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Realismo versus Idealismo

di Alberto Bradanini

2012
12 realismo.jpg1. In un articolo pubblicato su Substack, Glenn Diesen, un pungente professore norvegese (dell’Università Sud-Orientale del suo paese) e acuto esponente della scuola realista delle Relazioni Internazionali – cui appartiene anche il più noto John Mearsheimer dell’Università di Chicago – sfida con argomentato coraggio la narrativa convenzionale occidentale, manifestamente costruita dai sistemi di comunicazione di massa – che l’operazione militare speciale decisa da Mosca il 24 febbraio 2024 sia stata una derivata non-provocata dell’intento russo di riproiettarsi sul quadrante esteuropeo un tempo occupato/presidiato dall’Unione Sovietica.

Le riflessioni del prof. Diesen costituiscono un prezioso arricchimento intellettuale e vaccinatorio contro la macchina della distorsione mediatica. Insieme alle sue riflessioni il lettore troverà a intermittenza alcuni commenti a margine da parte dello scrivente.

 

2. Confondendo i termini della questione, molti dipingono la scuola del realismo politico – rileva l’autore – come una teoria deficitaria sotto il profilo etico, non solo politico, contestandone la valenza teleologica, vale a dire la capacità di definire un convincente modello di gestione della competizione tra nazioni, che per i realisti è una derivata ineludibile della struttura anarchica del sistema internazionale. Tale indomabile competizione è causata dalla necessità degli stati di proteggere la loro sicurezza in assenza di un potere gerarchico che disponga del monopolio dell’uso della forza. Per gli idealisti (i seguaci della scuola di pensiero da cui prendono nome), la condotta degli stati deve invece ricondursi alla dimensione etica. Se i corrispondenti valori non sono rispettati – quelli generati dalla Grande Potenza di turno e coincidenti, non a caso, con i suoi interessi (oggi, gli Stati Uniti, portatori dell’ideologia democratica, liberale e mercantile) -, questa ha il dovere morale di imporli al resto del mondo. E qui, come si può immaginare, cominciano i guai.

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Davide Carrozza: Il caso del caso Moro Parte 5: Il superkiller

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Il caso del caso Moro Parte 5: Il superkiller

di Davide Carrozza

whatsapp image 2024 11 02 at 00.17.12.jpegNello splendido film noir del maestro Jean Pierre Melville del 1970 “I senza nome” (Le cercle rouge) gli indimenticabili Alain Delon e Gian Maria Volontè sono due criminali incalliti le cui strade si incrociano quasi per caso. Arrestato e fuggito alla sorveglianza lanciandosi da un treno in corsa, Genco (Volontè), per nascondersi si infila nel bagagliaio della macchina di Corey (Delon), quasi guidato da un sesto senso. Quest’ultimo, appena reduce da 5 anni di gattabuia ha ricevuto una soffiata da un secondino ed ha pronto un colpo sensazionale in una gioielleria, gli serve solo un partner spregiudicato come lui, con esperienza nel settore e senza nulla da perdere….quando si dice il destino. Troverà il compagno per il colpo del secolo proprio dentro al suo bagagliaio. Un episodio in particolare dimostrerà come Corey non potesse essere più fortunato perché l’uomo che il fato gli aveva messo nel baule si sarebbe rivelato qualcuno di cui fidarsi ciecamente. Quando due loschi figuri, probabilmente due federali, si infilano nella macchina di Corey per portarlo in aperta campagna e giustiziarlo, sono costretti a fare i conti con l’astuto Genco che fuoriuscito dal bagagliaio li tiene a tiro garantendo all’amico la sopravvivenza. Quando Genco spara a entrambi, all’uno con la pistola dell’altro, dimostra allo spettatore medio di essere un fine esperto. Chiaramente la cosa passerà per una faida interna ai servizi segreti e i due potranno pensare al loro sodalizio criminale ormai scontato. Rifugiatisi in un appartamento della periferia di Parigi i due cominciano a ragionare sul colpo alla gioielleria…hanno bisogno di un tiratore scelto e per qualche strano motivo Corey è convinto che Genco sia la persona adatta a ricoprire il ruolo. Il bandito con il volto di Volontè però riporta l’amico con i piedi per terra “Io? Ti sei sbagliato. Fra ammazzare due persone a due metri di distanza e fare colpo su un bersaglio a 30 metri c’è una bella differenza.” Per il colpo verrà precettato Jansen, ex tiratore scelto della polizia. Gli sceneggiatori del film quindi dimostrano di essere a conoscenza di una regola della balistica nonché della logica abbastanza elementare: per sparare e uccidere una persona da distanza molto ravvicinata non bisogna essere necessariamente dei tiratori scelti.

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Dante Barontini: Germania in crisi, si spegne il “governo semaforo”

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Germania in crisi, si spegne il “governo semaforo”

di Dante Barontini

La diga ordoliberista europea non regge più. Ma anche i più timidi compromessi con una “ortodossia” idiota sono impossibili, a meno di non avere una nuova visione d’insieme, chiaramente superiore. Che non c’è, almeno nelle cancellerie.

Questa situazione di stallo ha provocato in Germania – dopo durissime sconfitte elettorali e una crisi economica che sembrava dimenticata, da quelle parti – anche lo spegnimento improvviso del governo “semaforo”, quello tra socialdemocratici, verdi e “gialli” liberali.

Ieri sera il cancelliere rosé, Olaf Scholz, ha chiesto al presidente della Repubblica di “licenziare” Christian Lindner, ministro delle finanze nonché leader dei liberali.

Lo ha fatto al termine di un duro braccio di ferro e riassumendo le ragioni in una lunga lettera, i cui punti chiave sono:

garantire costi energetici accessibili e limitare le tariffe di rete per le nostre aziende.

un pacchetto che garantisca posti di lavoro nel settore automobilistico nell’industria e in numerose aziende fornitrici.

introduzione e miglioramento delle possibilità di ammortamento fiscale, affinché le aziende possano ora investire in Germania come sede.

aumentare il sostegno all’Ucraina, che sta affrontando un inverno difficile.

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Loretta Napoleoni: Come ha fatto Trump a vincere contro tutto e tutti

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Come ha fatto Trump a vincere contro tutto e tutti

di Loretta Napoleoni*

E’ stata una notte elettorale brevissima in California, poco prima delle 22 con i risultati parziali dei primi swing states, prima ancora che si avessero quelli degli stati centrali, tutti rossi, Trump aveva già vinto la corsa alla Casa Bianca. Lo diceva la matematica. È stata una notte breve e tranquilla, senza sorprese, priva di momenti di tensione o timide speranze, la vittoria del MAGA e’ stata schiacciante.

Non ci sono state neppure parate notturne, non ce n’è stato bisogno. Al contrario insieme alla tensione accumulata durante le ultime settimane elettorali è sceso il trionfalismo, e’ successo velocemente, come il mercurio del termometro quando finalmente il febbrone scompare. Persino la retorica di Donald Trump durante il discorso della vittoria è stata pacata rispetto ai toni della campagna. E’ finito il tempo degli scontri, degli insulti, delle minacce, l’età d’oro dell’America moderna auspicata da The Donald sarà l’era dell’unione, si ricucirà la frattura interna della nazione, il paese guarirà, tornerà a essere compatto. Un sogno? L’ennesima menzogna elettorale?

Certo la stampa internazionale, il fronte politico dell’establishment, il mondo “borghese” è convinto che sia cosi’. Trump incarna tutto ciò che il perbenismo occidentale detesta e quindi da buon “villano”, villan, mente spudoratamente. Per questo fronte nei prossimi quattro anni l’America diventerà ancora più’fratturata, polarizzata, ostile e persa, e alla fine del secondo mandato di Trump ci ritroveremo con una nazione svuotata di identità.

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Fulvio Grimaldi: Baraccone USA: Più gente entra più bestie si vedono – Bolivia: c’era una volta Evo – America Latina: ritorno e andata – Contro le alluvioni fate le guerre

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Baraccone USA: Più gente entra più bestie si vedono – Bolivia: c’era una volta Evo – America Latina: ritorno e andata – Contro le alluvioni fate le guerre

di Fulvio Grimaldi

In SPUNTI DI RIFLESSIONE di Paolo Arigotti: “Il ringhio del bassotto”, con Fulvio Grimaldi: Dalla Bolivia che si dilania, all’America Latina sull’ennesimo crinale tra liberi o predati- https://youtu.be/6Ln3Hy_AeuA

In CALEIDO Francesco Capo intervista Fulvio Grimaldi: Miliardi alle armi, spiccioli all’ambiente, BRICS: Lula contro Maduro, Nordcoreani pretesi a Kursk, NATO per davvero in Ucraina. https://www.youtube.com/watch?v=58PLDMnqt4c https://youtu.be/58PLDMnqt4c

QTV, Alluvionati armatevi e affogate, baracconata delle elezioni, Medioriente carta vince carta perde, Ucraina… perde, Legge Bilancio: chi piange e chi ride

https://www.quiradiolondra.tv/live/ martedì e venerdì alle 20

Il dato è questo, al di là di quello che uscirà dall’indecente e fuorilegge baraccone elettorale statunitense: l’establishment dal quale nell’Occidente politico veniamo maltrattati e turlupinati è a favore del rigurgito di Biden, Kamala Harris con un accanimento che rende moderato il fanatismo tifoide della curva ‘ndranghetista dell’Inter. Di quanto di più maleodorante inquina la vita del cittadino e della nazione all’interno del perimetro di quanto pomposamente e grottescamente si definisce la “COMUNITA’ INTERNAZIONALE” (con tutte le maiuscole, come la SCIENZA, definita tale dal concerto farmaceutico-climatico-oligarchico), ogni singola cellula tumorale sostiene Kamala, vale a dire il nulla-con-la dentiera da cavallo drogato.

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Fabrizio Sinisi: Dalla lotta al salotto

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Dalla lotta al salotto

Lavoro e rimozione della violenza ne La terrazza di Ettore Scola

di Fabrizio Sinisi

Fabrizio Sinisi è nato a Barletta nel 1987. Drammaturgo, poeta e scrittore, è attualmente dramaturg della Compagnia Lombardi-Tiezzi e consulente artistico del Teatro Stabile di Brescia. I suoi lavori sono tradotti e rappresentati in oltre quindici paesi. Ha ottenuto diversi premi e riconoscimenti, tra cui la menzione dell’American Playwrights Project, il Premio Testori per la Letteratura e il Premio Nazionale dei Critici di Teatro. Collabora con “Doppiozero”, “Finzioni” e con il quotidiano “Domani”. Nel 2025 è in uscita per Mondadori il suo primo romanzo

La terrazza inizia col più italiano dei momenti, e a tutt’oggi, a distanza di quarantaquattro anni dal film di Ettore Scola, il più contemporaneo. Una donna che batte le mani e dà il via al buffet: l’inquadratura segue il gruppo di invitati che, simile a una mandria che si accalca alla pastoia, si avvia verso il tavolo del catering.

Ogni volta che rivedo quella sequenza di avvio alle danze me ne viene in mente un’altra: il sacerdote che, in Eyes Wide Shut, picchia due volte il bastone per terra per dare il via all’orgia. La ragione è naturalmente che sono due scene gemelle: la padrona di casa della Terrazza è un sacerdote quanto e più della setta di Kubrick; entrambi gli spazi sono dominati dalle parole-chiave; entrambi celebrano un rito fondativo, il mangiare e lo scopare; entrambi nascondono funzioni violente, rispetto alle quali funzionano come mediatori sostitutivi (anche se, lato suo, Scola fa di tutto per nasconderlo – “Ci vorrebbe proprio un’altra bella guerra”, dice Mastroianni riempiendosi il piatto, ed è la battuta più importante del film).

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Alessandro Volpi: BRICS Pay: il sistema di pagamento che punta alla caduta dell’impero americano

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BRICS Pay: il sistema di pagamento che punta alla caduta dell’impero americano

di Alessandro Volpi

Con BRICS Pay i Paesi emergenti vogliono liberarsi dalla dipendenza dal dollaro, dall’egemonia Usa e dal potere dei grandi fondi

Tra i vari temi discussi nell’incontro dei Brics in Russia ne è emerso uno di particolare rilievo. Dal vertice di Kazan esce, rafforzata, l’idea di un sistema di pagamento alternativo allo Swift, il sistema oggi largamente prevalente. Si tratta di una soluzione ancora fragile che dovrebbe legarsi alla dedollarizzazione. Un processo assai complesso fino a quanto i grandi player come la Cina avranno una bilancia commerciale decisamente attiva nei confronti degli Stati Uniti. E realtà come India e Brasile saranno ancora profondamente legate alla finanza delle principali Borse internazionali.

Tuttavia la piattaforma programmatica discussa al vertice prevede, prima ancora della creazione di una valuta vera e propria, dotata di credito e convertibilità internazionali, la definizione di varie tappe per la nascita di una unità contabile comune. E di un sistema di pagamenti internazionali in valute digitali con una regolamentazione e criteri di funzionamento diversi da quelli “occidentali”. In sintesi, il progressivo abbandono del dollaro potrebbe avvenire con una gradualità destinata a favorire l’acquisizione di una reale autonomia degli stessi Brics nel loro insieme.

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Pierluigi Fagan:  Ipotesi sulla politica estera di Trump

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Ipotesi sulla politica estera di Trump

di Pierluigi Fagan

Parliamo di ipotesi perché il nuovo presidente USA non ha rilasciato la consueta intervista preelettorale in cui di solito i candidati accennano le linee della loro politica estera e perché il tipo è, notoriamente, poco prevedibile. Tuttavia, alcune cose si possono dire e altre ipotizzare.

1) Ucraina. Qui almeno si sa che molto probabilmente Trump chiuderà (ma forse solo in parte) rubinetti dei finanziamenti diretti e degli armamenti e più in generale dell’impegno logistico. Anche per lasciare la patata bollente nelle già tremanti mani europee, Europa sotto altre mire strategiche di cui parleremo dopo. Tenterà un accordo di pace come promesso, che ci riesca assai improbabile a meno non voglia davvero rimettersi a discutere con Putin i principi generali di sicurezza (dislocazione missili, ruolo paesi NATO di confine) dell’area. Cosa assai improbabile dal momento che la scorsa volta fu proprio Trump a stracciare il Trattato INF, architrave del sistema di sicurezza in Europa firmato a suo tempo da Gorbaciov e Reagan (alla faccia dell’”amico di Putin”!). Secondo Mearsheimer, Putin ormai non crede più all’Occidente sotto nessuna forma e veste, ritiene del tutto improbabile il russo venga incontro all’americano più di tanto, nel mio piccolo concordo. Le prime dichiarazioni russe all’elezione hanno tenuto a ribadire che la Russia perseguirà -tutti- i suoi obiettivi dell’operazione militare speciale.

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Davide Rossi: Chi sono e che cosa chiedono i 72 milioni di elettori di Donald Trump

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Chi sono e che cosa chiedono i 72 milioni di elettori di Donald Trump

di Davide Rossi

Dunque 72 milioni di donne e uomini, bianchi, neri, ispanici, giovani e anziani, hanno votato Donald Trump. Leggere i giornali oggi conferma quello che si legge da otto anni: in un rapporto simbiotico, Trump e i suoi elettori sarebbero uguali. Sprezzanti, fascisti, volgari, aggressivi, dittatoriali, xenofobi, truffatori, bugiardi, squilibrati, razzisti, golpisti e predatori sessuali, solo mettendo insieme le simpatiche definizioni espresse in quattro righe da un editorialista della Svizzera Italiana, uno dei tanti dell’universo liberal che piange e si dimena per la sconfitta della democratica e “progressista” (in che cosa progressista lo sanno solo loro) signora Harris, familiarizzata mediaticamente come l’amica Kamala, inchiodatasi, nonostante una campagna mediatica interna e internazionale senza precedenti, al consenso di 67 milioni di statunitensi. Certamente qualche burlone senza argomenti ci racconterà che son stati gli hacker russi.

Ora, dando anche per buono che un paio di milioni di elettori statunitensi rientrino nelle orrorifiche categorie dispiegate tutti i giorni dai liberal, rimarrebbe da analizzare chi siano gli altri 70 milioni di elettrici ed elettori, che tra l’altro son sempre più dei 67 milioni della signora Harris.

Sommariamente e sommessamente, in una prima e molto sbrigativa analisi, possiamo dire che non siamo di fronte all’America di Trump, ma siamo di fronte a donne e uomini statunitensi che hanno compiuto una scelta politica chiara e netta, chiedendo a Trump di renderla operativa.

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Gianandrea Gaiani: Il ritorno di Trump

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Il ritorno di Trump

di Gianandrea Gaiani

110624 President Donald Trump AP CMDonald Trump è il trionfatore nella corsa alla Casa Bianca sia per i voti incassati tra i “grandi elettori” e nel voto popolare sia per il successo del Partito Repubblicano nelle elezioni del Congresso. Prima ancora dell’Amministrazione Biden e di Kamala Harris, a uscire sconfitti dal voto americano è il circuito mediatico che ha dimostrato la sua totale inattendibilità e partigianeria.

Pronostici, valutazioni e sondaggi resi noti negli Stati Uniti ma anche in Europa e in Italia hanno dato fino all’ultimo i due rivali testa e testa con un leggero vantaggio per Kamala Harris. Previsioni rivelatesi talmente infondate da alimentare il sospetto che fossero indirizzate più a influenzare il voto degli americani che a fotografarne l’orientamento. Pura propaganda alimentata da media, mondo della cultura e dello spettacolo fin troppo chiaramente schierati con il Partito Democratico che però aveva sollevato ancora una volta un polverone per denunciare (complici anche diversi “zelanti” alleati europei) la “disinformazione russa” tesa a influenzare il voto a favore di Trump.

Difficile credere che coloro che davano Trump e Harris testa a testa nel voto americano si siano tutti sbagliati: appare quindi più probabile che la disinformazione (la nostra, non quella russa) abbia prevalso ancora una volta come è apparso chiaro seguendo alcune “maratone” televisive nostrane.

In queste come in altre elezioni il tema dell’inaffidabilità e dell’informazione (anzi, della disinformazione) attuata da gran parte del circo mediatico occidentale è emerso in modo talmente eclatante da rappresentare paradossalmente una minaccia per l’opinione pubblica e per la democrazia. Specie in un contesto in cui, dalle due sponde dell’Atlantico, si moltiplicano appelli e iniziative tese a limitare o sopprimere la libertà di espressione nel nome della “lotta alla disinformazione”.

In realtà, a determinare il successo del candidato repubblicano sembrano essere stati gli elementi emersi il 5 novembre in un sondaggio effettuato tra gli elettori dalla CNN che ha rivelato come solo il 5% ritenga che l’economia americana sia in uno stato di forma eccellente, mentre circa il 70% ritiene che non versi in buono stato.

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Alessandro Visalli: Poche tesi sulla rielezione di Trump

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Poche tesi sulla rielezione di Trump

di Alessandro Visalli

hfidbukdIn attesa di poter svolgere un’analisi più dettagliata del voto americano, quel che appare al momento è l’ampiezza inusuale della vittoria di Donald Trump e James Vance sul ticket democratico. Vittoria che si è estesa a Camera e Senato e ha spostato significativamente i rapporti di forza dall’ormai tradizione ‘quasi pareggio’ presidenziale.

Una vittoria che si presenta quindici anni dopo il termine del ciclo Bush junior, e otto dopo quello di Obama. Ovvero sedici anni (quindici e mezzo) dopo la crisi-spia della finanziarizzazione esemplificata dal crollo del 2008. Se pure questa data simbolo del 2008 si colloca in effetti al termine di un ciclo di bolle alimentate politicamente che risale almeno a un decennio prima, fu il segnale della necessità di tornare a qualcosa che potesse, almeno per il grande capitale finanziario, come una sorta di ‘big state’. Il segno dei tempi fu il pacchetto di stimoli bipartisan promosso dalla coppia Bush-Obama e la ricerca costante di un nuovo ‘motore’ economico, oltre alla crescente consapevolezza della crisi della “mondializzazione” anni Novanta (avviata dalle crisi multiple degli anni ’97 e ’98, le cosiddette “Crisi asiatiche”, che poi furono anche del Messico della Russia, etc.) e delle “Classi medie”. Tentativi di riprendere il “Doha Round” del 2001, con il TIPP e TPP, in chiave sempre più chiaramente anti-cinese, ma anche anti-europea[1] (tentativi che vedono, forse per la prima volta, manifestarsi contro l’amministrazione democratica una coalizione sociale interna contro l’ulteriore potenziale invasione di prodotti a basso costo, e quindi l’ulteriore deindustrializzazione). Quindi velleitarie politiche per un milione di posti di lavoro nell’industria[2], oppure di rivitalizzare la formazione tecnica, poco dopo i vaniloqui della Clinton sulla lotta alla “società freelance” o la “gig economy”[3]. Si può anche ricordare il Discorso sullo Stato dell’Unione del 2015 di Obama[4], a metà del secondo mandato, quando avviene una significativa svolta ambientalista e nelle politiche energetiche, mentre continuano assolute macchie come Guantanamo e si sviluppa la politica delle “primavere arabe”.

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