[SinistraInRete] Maurizio Lazzarato: Le condizioni politiche di un nuovo ordine mondiale

Rassegna 13/11/2024

 

Maurizio Lazzarato: Le condizioni politiche di un nuovo ordine mondiale

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Le condizioni politiche di un nuovo ordine mondiale

di Maurizio Lazzarato

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72ad867967474a86a65a1dbed961f53fmv2Con gli articoli di Maurizio Lazzarato «Perché la guerra?» e di Andrea Pannone «La Borsa, il “comitato d’affari della borghesia” e la guerra» Machina ha impostato un dibattito volto a riflettere su guerra e crisi, oggi.

La nostra attuale impotenza politica è la conseguenza diretta dell’esclusione delle guerre e delle guerre civili dalla teoria critica, essa stessa risultato di un’altra esclusione: quella delle lotte di classe, cioè della questione della rivoluzione. Porre il problema della guerra significa, oggi, porre il problema del mercato mondiale.

Quando la guerra, la guerra civile, il genocidio e il fascismo ritornano clamorosamente nelle nostre cronache (e con essi, paradossalmente, la «possibilità impossibile» della rivoluzione) ci scopriamo impotenti perché, se è vero che questi processi sono l’evidente risultato della produzione capitalistica, è inspiegabile spiegarli con le sole categorie della critica dell’economia politica. Che rapporto hanno le guerre con il capitalismo e la sua produzione? Costituiscono incidenti del suo sviluppo o elementi strutturali? E ancora: che rapporto esiste tra lo Stato – che ha il potere di dichiarare e gestire la guerra – e il Capitale? É ancora valido un concetto di produzione che marginalizza lo Stato e la sua sovranità? Si può continuare a considerare lo Stato come elemento puramente funzionale e subordinato alle esigenze dell’accumulazione di capitale?

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Guglielmo Chiodi: Tra Wicksell e Sraffa: l’affascinante ed inusuale eterodossia di Augusto Graziani

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Tra Wicksell e Sraffa: l’affascinante ed inusuale eterodossia di Augusto Graziani

di Guglielmo Chiodi*

In questa nota vengono delineati alcuni tratti della eterodossia di Augusto Graziani, attraverso i percorsi da Lui seguiti nello studio di due economisti, Wicksell e Sraffa, considerati agli antipodi quanto alle loro rispettive visioni in economia. L’intento della nota è di fare emergere il fascino e la particolare eterodossia di Augusto Graziani, altamente istruttiva oggi, soprattutto per i giovani studiosi

moleculaMonetaria 1.jpgPreambolo

Di Augusto Graziani conservo immutato e immutabile il ricordo di una persona dotata di grande umanità, generosità, e di vasta e raffinata cultura – caratteristiche che ritengo essere state fonte di ispirazione, di coinvolgimento e di forte passione per gli studi di economia di molte generazioni.

La breve narrazione contenuta in questo preambolo è soltanto preliminare e strettamente funzionale alle considerazioni che farò in seguito sulla eterodossia di Augusto Graziani.

Ancora studente di Economia alla Sapienza, mentre cercavo un libro in biblioteca, ho per caso intravisto un libro di testo che mi ha subito incuriosito, il cui titolo era Teoria economica, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1967, autore Augusto Graziani.

Ad una prima sbirciata, fui subito colpito dalla diversa struttura che aveva, confrontata con analoghi libri di testo allora in uso nei primi anni del corso di Economia. Leggiucchiandolo qua e là, infatti, fui subito attratto dalla chiarezza di esposizione di alcuni argomenti, ritenuti da noi studenti di allora alquanto ostici, e dalla ricchezza delle teorie prese in considerazione. Lo adottai immediatamente come libro di testo ‘ombra’, a fianco di quello ‘ufficiale’, al tempo consigliato.

Tale adozione ‘parallela’ da parte mia, non sortì solo l’effetto di integrazione e di supporto alle conoscenze di base dell’Economia Politica, ma ebbe anche l’effetto, ben più importante, di suscitare in me ulteriori curiosità e maggiore interesse nello studio della teoria economica, nelle diverse declinazioni analitiche, e, soprattutto, nel prestare grande attenzione agli innumerevoli mutamenti che i vari modelli inevitabilmente subiscono col passare del tempo.1

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Alba Vastano: Ndo sta Roma? I guai di Roma Capitale, più dramma che farsa

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Ndo sta Roma? I guai di Roma Capitale, più dramma che farsa

di Alba Vastano

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27.pngScrivere di Roma e di come vive la città chi vi risiede è come fare un viaggio in escalation nel degrado totale. Un viaggio attraversando al contrario i tre canti della commedia dantesca, senza la guida di Virgilio. Da Roma aurea con Petroselli e Nicolini a Roma stracciona con Gualtieri.

Roma, caput mundi, ‘la Grande Bellezza’ con i suoi palazzi monumentali, le piazze storiche, le fontane artistiche. Un tripudio di storia e arte. Una città unica che al turista fa vivere un sogno, un tuffo incantevole nel passato. E poi c’è un’altra Roma, quella reale, quella di chi la vive ogni giorno. E qui cala il sipario sulla grande bellezza e si apre un altro scenario. Quello che ruota intorno al degrado che si tocca con mano ogni giorno, non appena si varca l’uscio di casa e si affronta la città, come fosse un nemico che ostacola i nostri tempi di vita quotidiana, intralciandoli in ogni azione legata ai tempi di lavoro, ad esempio. Ecco Roma è diventata la città del tempo avverso, il tempo che rema sempre contro ogni azione quotidiana dei residenti.

Chi ci vive deve farci i conti ogni giorno e ad ogni spostamento da un luogo all’altro della città. A Roma il tempo quotidiano non è programmabile, anzi non esiste. E’ una chimera. Si esce, ma non si sa l’orario in cui si arriva destinazione. E non è possibile programmare un orario decente di ritorno a casa. Roma è totalmente ricoperta di vetture in continuo transito. Vetture che non trovano mai sosta, ovunque sia il luogo di arrivo previsto. Vetture che circolano e brancolano come povere anime erranti e, soprattutto, inquinanti. Altro stressante martirio avviene sui bus, laddove si sale senza tempo, si viene pressati come sardine e si esce stravolti. Il turista è, fortunatamente, esente da questo inferno su ruote. Lui, solitamente, va a piedi per il centro e cammina, cammina incessantemente con il naso all’insù a sconvolgersi davanti all’Altare della Patria e a percorrere i Fori Imperiali.

Intanto il romano de Roma sta tardando alla grande per raggiungere il lavoro o qualsiasi altra destinazione che si trovi nel perimetro della città comprensivo del raccordo anulare (ndr, che se lo imbocchi in fasce orarie di punta salta totalmente il concetto di tempo). Il romano de Roma smoccola de brutto, a volte bestemmia anche.

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Norberto Fragiacomo: Il suicidio assistito dell’Ucraina

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Il suicidio assistito dell’Ucraina

di Norberto Fragiacomo

Ho terminato quest’oggi la lettura de “La sconfitta dell’Occidente” del francese Emmanuel Todd, un libro che – per la ricchezza dei contenuti e lo sconcerto provocato dalle conclusioni cui perviene, ben argomentando, l’autore – sarebbe un caso editoriale in qualsiasi democrazia degna di questo nome, e nell’Italia odierna viene invece presentato al pubblico quasi alla chetichella.

Il perché di questa reticenza mediatica è d’altronde comprensibilissimo: il saggio contraddice, dati alla mano, la narrazione mainstream che descrive l’Ucraina alla stregua di un’innocente vittima democratica dell’imperialismo russo e il supporto offerto dall’Occidente al regime di Zelensky come un’altruistica difesa dei diritti umani e del principio di autodeterminazione dei popoli. Peggio ancora: Todd ci presenta un impero americano in piena necrosi, nichilista, sopraffattore e irrazionalmente violento, mentre la Russia appare come un Paese “stabile” e guidato da uno statista responsabile, cinico al punto giusto e capace di elaborare una strategia a medio-lungo termine. Quella attualmente in corso sarebbe una lotta fra una “democrazia autoritaria” d’impronta conservatrice e una “oligarchia liberale”: la definizione dell’Occidente è perfetta, e quindi indigeribile per i suoi volonterosi sostenitori, che vanno dalla Meloni a Ferrando e da Bocchino a Erri De Luca (tanto per rammentarci che la contesa tra destra e “sinistra” è ormai un reality…).

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Fabrizio Poggi: Cosa si attendono Mosca e Kiev dall’entrata in scena di Trump?

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Cosa si attendono Mosca e Kiev dall’entrata in scena di Trump?

di Fabrizio Poggi

La vittoria di Donald Trump toglie il sorriso (a dir poco) dalle labbra del nazigolpista-capo Vladimir Zelenskij. Ma nemmeno per Mosca è detto che, con la sua presidenza, debbano presentarsi tempi assolutamente “spensierati”.

Per quanto riguarda i golpisti di Kiev, stando al Wall Street Journal, sembra che i collaboratori di Trump cerchino di orientarne le scelte ucraine verso un congelamento del conflitto sulla linea del fronte, lasciando «alla Russia i territori conquistati», fissando una zona smilitarizzata e chiudendo a Kiev le porte della NATO per i prossimi 20 anni. La quale ultima condizione è stata la ragione scatenante del conflitto e una questione di principio per Mosca.

Su questo, vari osservatori russi ritengono che il Cremlino, in fase di trattative, dovrebbe chiedere appunto la creazione di una zona neutrale in territorio ucraino, preclusa a forze NATO e libera da basi militari.

Ma un tale piano, col congelamento del conflitto, significherebbe anche che in Ucraina dovrebbe essere abrogato lo “stato di guerra”, col cui pretesto Zelenskij aveva annullato le elezioni previste per lo scorso 20 maggio e, dunque, si dovrebbe andare al voto per eleggere un nuovo presidente. Che, ovviamente, stante la situazione “congelata”, non è detto che sia qualcosa o qualcuno di particolarmente diverso dall’attuale nazigolpista; ma che, in ogni caso, dovrà fare i conti col nuovo inquilino della Casa Bianca.

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Fabrizio Venafro: Violenza e democrazia. Quando la riflessione lascia il posto alla propaganda

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Violenza e democrazia. Quando la riflessione lascia il posto alla propaganda

di Fabrizio Venafro

Sul Corriere del 31 ottobre, Ernesto Galli della Loggia si pone una questione enorme: la compatibilità tra democrazia e violenza. Tema enorme, appunto, che nelle riflessioni dell’editorialista del Corsera ci si aspetta venga affrontato e problematizzato. Invece nulla di ciò accade scorrendo riga per riga l’articolo.

È un vero peccato che l’autore non sviluppi il tema, limitandosi a riportare degli esempi in cui la democrazia si è resa colpevole di massacri estremi, come i bombardamenti a tappeto sulle città tedesche durante il Secondo conflitto mondiale da parte degli angloamericani o il bombardamento nucleare di Hiroshima e Nagasaki. Ma, in realtà, l’autore non aveva come scopo quello di problematizzare il tema della democrazia e delle sue disfunzioni. L’intento primario viene infatti svelato nelle prime righe. È quanto succede in Medioriente a costituire lo spunto per porre il tema del rapporto tra violenza e democrazia. E qui si assiste a un primo bias cognitivo, ossia il fatto di considerare Israele l’unico stato democratico del Medioriente. Il riportare gli esempi della Seconda guerra mondiale serve poi a proporre il conflitto sotto la lente di un confronto tra il bene e il male e a sdoganare il paradigma secondo cui per sconfiggere il male è lecito sacrificare masse inermi di persone. Galli Della Loggia scivola nel banale artificio, molto in uso in Occidente quando si vuole demonizzare l’avversario, di identificare una delle parti in causa con Hitler, pur senza farne il nome. Insomma, tutto porta a giustificare l’operato degli israeliani la cui azione non può essere giudicata da un tribunale (evidente il riferimento implicito alla Corte Internazionale di Giustizia) ma solo dalla storia, e a rivendicare la legittimità della politica di fare delle scelte, magari la più feroce e distruttiva.

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Giorgio Agamben: L’esule e il cittadino

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L’esule e il cittadino

di Giorgio Agamben

È bene riflettere su un fenomeno che ci è insieme familiare ed estraneo, ma che, come spesso avviene in questi casi, può fornirci delle utili indicazioni per la nostra vita fra gli altri uomini: l’esilio. Gli storici del diritto discutono tuttora se l’esilio – nella sua figura originaria, in Grecia e a Roma – debba essere considerato come l’esercizio di un diritto o come una situazione penale. In quanto si presenta, nel mondo classico, come la facoltà accordata a un cittadino di sottrarsi con la fuga a una pena (in genere alla pena capitale), l’esilio sembra in realtà irriducibile alle due grandi categorie in cui si può dividere la sfera del diritto dal punto di vista delle situazioni soggettive: i diritti e le pene. Così Cicerone, che aveva conosciuto l’esilio, può scrivere: «Exilium non supplicium est, sed perfugium portumque supplicii», «L’esilio non è una pena, ma un rifugio e una via di scampo rispetto alle pene». Anche quando col tempo lo stato se ne appropria e lo configura come una pena (a Roma questo avviene con la lex Tullia del 63 a.C.), l’esilio continua a essere di fatto per il cittadino una via di fuga. Così Dante, quando i fiorentini imbastiscono contro di lui un processo di bando, non si presenta in aula e, prevenendo i giudici, comincia la sua lunga vita di esule, rifiutandosi di far ritorno alla sua città anche quando gliene viene offerta la possibilità. Significativo è, in questa prospettiva, che l’esilio non implichi la perdita della cittadinanza: l’esule si esclude di fatto dalla comunità a cui continua tuttavia formalmente ad appartenere. L’esilio non è diritto, né pena, ma scampo e rifugio.

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Gianmarco Pisa: La Bibbia e la ruggine. Quali ragioni nella vittoria di Donald Trump?

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La Bibbia e la ruggine. Quali ragioni nella vittoria di Donald Trump?

di Gianmarco Pisa

g.pisa trump.jpgSpunti di analisi e di riflessione sui principali contenuti, sociali e politici, della rielezione di Donald Trump.

Molte le ragioni e le “connotazioni sociali” della vittoria presidenziale di Donald Trump negli Stati Uniti: ragioni che si possono (si devono) discutere e problematizzare; che non possono tradursi in giustificazioni e compiacimenti; che non modificano il profilo del presidente eletto, un profilo reazionario, con una proposta politica che prospetta soluzioni al disagio e alla sofferenza di ampia parte della popolazione statunitense ma concretizza provvedimenti a vantaggio dei ceti abbienti, di precisi segmenti dell’élite economica nordamericana; che si ammanta di una convincente retorica “antisistema”, pur essendo, come nella migliore tradizione populista, parte integrante di (una specifica componente) di quel medesimo “sistema”. Non è la logica “sistema-antisistema”, dunque, a spiegare il risultato elettorale e il successo politico di Trump; molto meglio possono farlo l’analisi delle contraddizioni e delle polarizzazioni sociali e delle condizioni e degli effetti delle profonde e pesanti diseguaglianze sociali che attraversano in maniera lacerante gli Stati Uniti.

Il successo politico, intanto, è incontrovertibile, al punto che Trump stesso, nel “discorso della vittoria”, ha annunciato l’intenzione di unire, superare le divisioni, esasperate dai toni e dai temi della campagna elettorale, proprio in virtù del “successo” conseguito. Un’affermazione forse sfuggita a diversi commentatori, ma non banale, nella logica che muove l’impianto politico del personaggio e del suo entourage (che non è quello, evidentemente, del tradizionale establishment repubblicano). Lo dicono i dati. Nel momento in cui scriviamo, a Trump sono attribuiti 295 grandi elettori (maggioranza: 270); netto il successo nel voto popolare, con 72.641.564 voti pari al 51%, contro Kamala Harris ferma a 67.957.895 voti pari al 47.5%, con un vantaggio di oltre quattro milioni di voti popolari; conquista la maggioranza al Senato (52 vs. 44) e presumibilmente anche alla Camera (206 vs. 191). In più del 50% delle oltre 3.000 contee degli Stati Uniti vi è stato un significativo spostamento verso Trump. Ribalta, in sostanza, l’esito, in termini di voto popolare, delle elezioni del 2016, quando la Clinton ottenne quasi tre milioni di voti in più; adesso sono oltre quattro milioni in più per Trump.

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Emilio Quadrelli: György Lukács, un’eresia ortodossa / 1 — L’attualità dell’inattuale

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György Lukács, un’eresia ortodossa / 1 — L’attualità dell’inattuale

di Emilio Quadrelli

[Inizia oggi la pubblicazione di un lungo saggio di Emilio Quadrelli che il medesimo avrebbe volentieri visto pubblicato su Carmilla. Un modo per ricordare e valorizzare lo strenuo lavoro di rielaborazione teorica condotta da un militante instancabile, ricercatore appassionato e grande collaboratore e amico della nostra testata – Sandro Moiso]

lukacs 1.jpg“È più piacevole e più utile partecipare alle esperienze della rivoluzione che scrivere su di essa.” (V. I. Lenin, Stato e rivoluzione)

La decisione del Governo ungherese di chiudere l’Archivio Lukács è un indicatore dei tempi.

Un indicatore che rimanda a quell’ora più buia già tristemente conosciuta dall’Europa. Riproporre Lukács allora è anche un atto, per quanto limitato, di resistenza. Limitato ma non inutile. La resistenza non nasce dal nulla ma da idee–forza in grado di armarla. Lukács è un’arma utile e attuale. Si tratta di imparare a maneggiarla.

Nel febbraio del 1924, a poche settimane dalla morte di Lenin, György Lukács dà alle stampe il pamphlet Lenin. Teoria e prassi nella personalità di un rivoluzionario. Un centinaio di pagine scritte di getto che, come proveremo ad argomentare, si mostrano uno dei testi più ricchi e densi della teoria politica marxiana dell’intero novecento. La sua complessità e ricchezza è tale da rivestire ancora nel presente molto di più di una semplice curiosità e ancor meno l’ennesimo omaggio malinconico al mondo di ieri. Se c’è una cosa che nel testo di Lukács sorprende e assieme stupisce è la sua attualità. Comunque prima di immergerci nell’esposizione del saggio lukácsiano è necessario dire qualcosa sull’autore: György Lukács è tutto tranne che una figura semplice, la sua condizione di militante costretto alla autocritica in permanenza racconta già qualcosa di non proprio irrilevante. In continuazione, e a questo destino non sfugge neppure il Lenin, Lukács deve far ricorso, per poter essere letto e pubblicato, a una qualche forma di ammenda. Paradossalmente ogni ortodossia instauratasi nel santuario comunista si è sentita in dovere di criticare Lukács almeno un poco, lasciandogli però sempre aperto lo spiraglio dell’autocritica. Figura intellettuale di prim’ordine cresciuto in quella fucina culturale, forse irripetibile, che è stata la crisi intellettuale del primo novecento europeo, ha una formazione ben poco in linea con ciò che diventerà l’ortodossia comunista1.

Weber e Simmel possono, a ragione, essere annoverati tra i suoi padri intellettuali tanto che non saranno pochi gli echi di questi autori che rimarranno presenti nelle sue opere2.

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Emiliano Brancaccio: Trumpnomics 2.0, via anche gli ultimi lacci alla finanza

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Trumpnomics 2.0, via anche gli ultimi lacci alla finanza

di Emiliano Brancaccio*

Stando agli exit polls di Abc, oltre due terzi degli elettori americani si dichiarano insoddisfatti dalla situazione economica lasciata dall’amministrazione Biden. La working class, in particolare, lamenta una caduta del potere d’acquisto dei salari fino a tre punti percentuali all’anno per tre anni.

L’erosione retributiva, a quanto pare, ha avuto un impatto rilevante sulle elezioni. Molti lavoratori che in precedenza avevano votato per i democratici, stavolta hanno disertato le urne o hanno scelto Donald Trump.

La voltata di spalle di quel residuo di classe lavoratrice che ancora si iscrive alle liste elettorali è forse la prova più tangibile del fallimento dei democratici americani. Tuttavia, se la speranza è che il nuovo presidente sostenga le condizioni di vita dei lavoratori, possiamo già dire che sarà delusa. Dal fisco, alla spesa sociale, alla regolamentazione del lavoro, la “Trumpnomics 2.0” sarà quella di sempre: una politica economica al diligente servizio del capitale americano.

Trump ha insistito sul rafforzamento del suo “Tax Cuts and Jobs Act”. Nel 2017 aveva portato l’imposta massima sui profitti delle imprese dal 35 al 21 per cento e ora vuole ulteriormente ridurla al 15 per cento, nel tripudio dei grandi azionisti di Wall Street. Inoltre, il nuovo presidente ha annunciato tagli rilevanti al prelievo federale sugli straordinari e sulle pensioni più alte.

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Thomas Fazi: Come Trump potrebbe liberare l’Europa. Il suo isolazionismo è un’opportunità

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Come Trump potrebbe liberare l’Europa. Il suo isolazionismo è un’opportunità

di Thomas Fazi

Cosa dovrebbe temere più di ogni altra cosa l’establishment tecno-globalista dell’UE?

Nel lungo termine il rafforzamento del conservatorismo nazionale in Occidente potrebbe avere gravi implicazioni geopolitiche. Per cominciare, il rifiuto della Russia agli eccessi del liberalismo la rende una sorta di alleato “naturale” dei conservatori occidentali, in particolare in un mondo in cui le ideologie sono sempre più inquadrate come “patriottismo nazionale” contro “globalismo cosmopolita”. Inoltre, nella misura in cui i conservatori rifiutano l’universalismo progressista in patria, abbracciando la distinzione culturale nei propri paesi, dovrebbero anche opporsi alle stesse idee a livello internazionale. Sarebbe sicuramente saggio, quindi, sostenere i tentativi di Cina, Russia e altri Brics di fomentare il rispetto per la specificità della civiltà e i valori tradizionali di tutte le nazioni, abbandonando nel frattempo l’UE e le affermazioni liberal-universaliste che essa rappresenta. In questo senso, Trump potrebbe ancora rivelarsi un alleato cruciale, seppur inconsapevole, nel tentativo dei Brics di costruire un ordine mondiale più “conservatore”. Questo, in definitiva, è probabilmente ciò che l’establishment tecno-globalista dell’UE dovrebbe temere più di ogni altra cosa.

* * * *

Il peggior incubo dell’UE si è avverato: Donald Trump torna alla Casa Bianca. Non è difficile immaginare il panico che molti leader devono provare mentre si riuniscono questa mattina a Budapest per il vertice della Comunità politica europea.

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Genova City Strike: Make America Trump Again

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Make America Trump Again

di Genova City Strike

Nonostante una crisi (economica, istituzionale, sociale) che si trascina in forma plateale da 15 anni, il risultato delle elezioni presidenziali statunitensi pare cogliere di sorpresa stampa e commentatori in tutto l’Occidente.

Alle latitudini in cui viviamo, la propaganda sembra definitivamente naufragata nella assuefazione a un “business as usual” incapace di cogliere contraddizioni e fratture sistemiche da guerra civile che da più di un lustro si agitano nel ventre statunitense.

Proviamo, dunque, a fissare alcune riflessioni esterne a questi angusti steccati ideologici.

1) Il sentimento – presuntamente – comune

Da quando Kamala Harris ha rilevato la staffetta democratica dalle mani di un Biden smarrito nella propria demenza, i sondaggi della maggioranza tra stampa ed emittenti televisive hanno riportato un testa a testa tra i due candidati che le urne hanno smentito con una platealità del tutto inedita.

Questo ennesima cantonata degli istituti demoscopici, imporrebbe una riflessione sullo stato degli strumenti di costruzione e diffusione del consenso operanti nelle nostre società che, quanto meno, non vanno più considerati affidabili, con tutto quello che ne consegue a livello di partecipazione e gestione, da parte dei comunisti, a campagne elettorali costruite da e condotte su media che paiono vivere in un universo parallelo a quello della società “reale”.

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Francesco Galofaro: La vittoria di Trump alle elezioni: valutazioni e prospettive

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La vittoria di Trump alle elezioni: valutazioni e prospettive

di Francesco Galofaro

Donald Trump ha battuto Kamala Harris alle elezioni USA. Tralasciando considerazioni fuori luogo sui diritti, si dovrebbe dedicare qualche attenzione in più alla sfera economica. L’economia degli Stati Uniti ha conosciuto un’impennata dell’inflazione a partire da aprile 2021, che ha raggiunto il 9,1% in luglio ‘22, ed è tornata sotto controllo solo nel luglio del ‘23. In termini reali, quindi, durante la gestione Biden, salari e stipendi si sono significativamente ridotti. La guerra e il sostegno a Kiev non sono stati la causa diretta dell’aumento dei prezzi, come è accaduto in Europa, ma certamente non hanno giovato, in una situazione già grave. E anche se oggi i dati dell’inflazione sono nella norma, dopo la cura da cavallo imposta dalla FED ai tassi di interesse, la prospettiva non è rosea: gli ultimi mesi della campagna elettorale hanno visto una crescita della disoccupazione, che ha toccato il 4,3% in luglio per attestarsi al 4,1%. Mentre si fa strada il timore di una recessione, alcune riviste economiche (ad es. Forbes) hanno indicato l’eccesso di immigrazione tra le cause.

In questa situazione, Trump ha saputo incarnare il bisogno di cambiamento degli elettori, impoveriti dalle scelte economiche del governo Biden e senza prospettive solide per il prossimo futuro. Lo stile della comunicazione di Trump, ruvida e diretta, suggeriva decisioni rapide e veloci: il genere di intervento che serve per scongiurare una minaccia incombente.

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